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La superstizione tra potere, paura e ragione

Un breve viaggio filosofico attraverso i secoli

 

 

 

 

Il concetto di superstizione ha affascinato e impegnato molti dei più grandi filosofi della storia, ciascuno dei quali ha affrontato il tema in relazione al contesto culturale e intellettuale del proprio tempo. Approfondire le riflessioni di Seneca, Spinoza, Kant e Nietzsche ci permette di comprendere come l’idea di superstizione si sia evoluta e come rappresenti non solo una manifestazione di credenze errate, ma anche un riflesso della società e dei suoi limiti.
Per Lucio Anneo Seneca, la superstizione costituisce una corruzione dell’autentica religione. Nei suoi scritti, Seneca distingue la vera religione, caratterizzata da un culto sobrio e razionale degli dèi, dalla superstizione, che è irrazionale e dominata da rituali eccessivi e senza significato. Questa distinzione si basa sulla convinzione che la religione dovrebbe promuovere la virtù e guidare l’uomo verso una vita in armonia con la natura e la ragione, secondo i princìpi dello stoicismo. Seneca critica aspramente coloro che sostituiscono la devozione ponderata con riti complessi e futili, che non solo non arricchiscono l’animo umano, ma lo impoveriscono, legandolo a pratiche insensate. La superstizione, per lui, è l’incapacità di vedere la divinità come razionale e benevola, preferendo, piuttosto, attribuirle caratteristiche capricciose e temibili. Questo atteggiamento porta a una religione basata sulla paura anziché sul rispetto e sulla comprensione, compromettendo così la vera essenza spirituale e morale della fede.
Baruch Spinoza ritiene la superstizione un riflesso dell’insicurezza umana. Nel suo Tractatus Theologico-Politicus, sostiene che l’uomo, incapace di controllare gli eventi naturali e soggetto a passioni forti come la paura, cerca rifugio in spiegazioni che lo rassicurino. Questo processo psicologico, secondo il filosofo, è alla base della formazione delle credenze superstiziose. Quando le persone affrontano situazioni di crisi o di pericolo, tendono a sviluppare una fede cieca in entità soprannaturali o rituali che promettono protezione o salvezza. Spinoza va oltre la semplice descrizione della superstizione come prodotto dell’ignoranza: la interpreta come uno strumento di manipolazione sociale. I leader politici e religiosi sfruttano la superstizione per consolidare il loro potere. Promuovendo credenze che incutono timore, possono influenzare le azioni delle masse e controllare le loro scelte. Questa prospettiva evidenzia un’analisi sofisticata delle dinamiche tra potere e credenza, suggerendo che la superstizione non sia solo un sottoprodotto della mente umana, ma anche una costruzione intenzionale per il controllo sociale.

Immanuel Kant assegna alla ragione il compito di contrastare la superstizione. Nel suo saggio Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?, definisce l’Illuminismo come l’uscita dell’uomo da una condizione di minorità intellettuale, caratterizzata dall’incapacità di usare il proprio intelletto senza la guida altrui. La superstizione è, per Kant, una manifestazione di questa minorità, un ostacolo che impedisce all’uomo di raggiungere la piena autonomia intellettuale. Secondo Kant, la superstizione non solo compromette la capacità dell’individuo di pensare in modo critico, ma si oppone anche al progresso morale e sociale. Essa sfrutta la debolezza dell’essere umano per mantenere una società stagnante, bloccata in una condizione di paura e dipendenza. La ragione, quindi, diventa lo strumento per illuminare il cammino dell’uomo, liberandolo dalla schiavitù della credenza infondata e avviandolo verso la costruzione di un mondo basato
Friedrich Nietzsche porta la critica della superstizione a un livello più radicale. In Così parlò Zarathustra, egli afferma che i “saggi illustri” hanno servito la superstizione del popolo, non la verità. Questo concetto rivela la convinzione di Nietzsche che la società e le sue istituzioni siano fondate su una rete di menzogne e credenze che soffocano la vitalità e la creatività dell’individuo. Per Nietzsche, la superstizione è un segno di debolezza, una prova della riluttanza dell’umanità a confrontarsi con la realtà senza filtri. Egli vede la superstizione come un elemento che perpetua l’inerzia morale e intellettuale, bloccando l’individuo nel conformismo e nell’accettazione passiva di valori imposti. Solo attraverso il superamento di queste credenze, e quindi attraverso la “morte di Dio” come simbolo della rottura con la tradizione superstiziosa, l’individuo può risvegliarsi alla propria forza e diventare il “superuomo” capace di creare nuovi valori e significati.
La superstizione non è mai stata un fenomeno limitato al passato. Ancora oggi, in una società apparentemente razionale e tecnologicamente avanzata, questa continua a manifestarsi sotto diverse forme. Può assumere aspetti innocui, come rituali scaramantici, oppure infiltrarsi in contesti più pericolosi, come teorie del complotto e credenze pseudoscientifiche. La permanenza della superstizione nel mondo moderno suggerisce che essa risponde a bisogni psicologici profondi: la ricerca di significato, il desiderio di controllo in un mondo caotico e l’affermazione di identità in un contesto collettivo. Le riflessioni dei filosofi offrono una chiave per comprendere come affrontare questa tendenza, promuovendo un’educazione alla razionalità, al pensiero critico e al dialogo aperto.
Pertanto, la superstizione rappresenta un punto d’incontro tra paura, potere, cultura e ragione. Gli insegnamenti di Seneca, Spinoza, Kant e Nietzsche ci esortano a vagliare non solo la natura delle nostre credenze, ma anche a riflettere su come queste influenzino la nostra vita individuale e collettiva. La sfida, oggi come allora, è quella di riconoscere le nostre tendenze superstiziose e contrastarle con la forza della ragione, della conoscenza e della libertà intellettuale.

 

 

 

 

 

David Hume e la supremazia delle passioni

La ragione come strumento al servizio dell’emozione

 

 

 

David Hume, uno dei più influenti filosofi dell’Illuminismo scozzese, elaborò una visione radicale e innovativa sulla relazione tra ragione e passioni, sfidando le concezioni tradizionali del pensiero filosofico. L’idea che “la ragione è, e deve essere, schiava delle passioni” sintetizza la sua teoria fondamentale, esposta nel Trattato sulla natura umana, secondo cui l’essere umano non agisce mosso principalmente dalla logica o dalla razionalità pura, ma dalle emozioni, dai desideri e dagli impulsi.
Per comprendere l’originalità del pensiero di Hume, è essenziale situarlo nel contesto filosofico dell’Illuminismo. I filosofi del tempo sottolineavano il potere della ragione come mezzo per accedere alla verità e controllare la realtà. Hume, invece, rovesciò questa prospettiva: mentre questi vedevano la ragione come guida sovrana della vita umana, Hume riconobbe il primato delle passioni come motore delle azioni umane. In questo quadro, la ragione non è altro che uno strumento che serve le passioni, il cui ruolo è subordinato alle emozioni che dominano le scelte individuali.
Hume distingue due tipi di conoscenza: conoscenze di relazioni tra idee e conoscenze di fatti. Le prime si riferiscono alle verità logico-matematiche, che sono universali e immutabili, mentre le seconde riguardano il mondo empirico e possono essere influenzate dalle percezioni sensoriali. Tuttavia, nessuna di queste conoscenze può motivare l’azione da sola; le passioni sono le vere forze propulsive. La ragione, quindi, ha la funzione di fornire le informazioni e i mezzi per raggiungere gli obiettivi determinati dalle passioni, ma non può generare il desiderio di agire autonomamente.
Hume approfondisce la sua analisi distinguendo tra passioni dirette e indirette. Le passioni dirette sono reazioni immediate a esperienze o sensazioni, come dolore, gioia, paura e speranza. Le passioni indirette, invece, sono più complesse e si sviluppano attraverso interazioni con la società, come l’orgoglio, la vergogna, l’amore e l’odio. Queste emozioni non solo influenzano, ma definiscono il modo in cui percepiamo il mondo e le nostre azioni.

Nella visione di Hume, la ragione svolge un ruolo di supporto. Può modulare le passioni e analizzare le conseguenze delle azioni, ma non è essa stessa a motivare l’agire umano. La ragione illumina il percorso, suggerendo strategie e soluzioni, ma la decisione di intraprendere un’azione è sempre radicata nel desiderio e nelle emozioni. Questa concezione sfida la visione più razionalista dell’epoca, che considerava la ragione come la guida suprema e indipendente delle scelte morali.
L’idea che la ragione sia schiava delle passioni ha profonde implicazioni in campo etico. Mentre i filosofi razionalisti come Immanuel Kant sostenevano che la moralità derivasse da principi universali e razionali, Hume argomentò che i giudizi morali fossero il risultato di sentimenti e reazioni emotive. Quando diciamo che qualcosa è “buono” o “cattivo”, non stiamo esprimendo un giudizio oggettivo basato sulla ragione, ma una reazione soggettiva. Le emozioni, dunque, sono la base della moralità, e i giudizi etici variano in base alle esperienze e ai sentimenti comuni all’umanità, piuttosto che seguire un rigido schema razionale.
La concezione di Hume della ragione come “schiava delle passioni” ha trasformato la comprensione della mente umana e del comportamento etico. Ha aperto la strada a una filosofia più empatica e realistica, riconoscendo l’essere umano come un’entità complessa guidata da un intreccio di emozioni e ragione. Questa prospettiva ha avuto un impatto duraturo non solo sulla filosofia, ma anche su psicologia, etica e scienze cognitive, influenzando il modo in cui comprendiamo la motivazione e il comportamento umano.

Il Fedro di Platone

L’anima ricorda e vola

 

 

 

Il Fedro, dialogo sublime di Platone, presumibilmente composto nel 370 a.C., si erge come una maestosa colonna nell’atrio del tempio della filosofia antica, intrecciando, con sapiente ardire, pensiero filosofico, religioso e mitologico. Tra le sue pagine, come in un giardino di allori divini, si passeggia fra discorsi sull’amore, sulla conoscenza e sull’arte retorica.
Platone vi dipana la trama dell’eros, il desiderio d’amore che muove l’anima verso il bello assoluto. Con slancio poetico, il filosofo eleva questo sentimento dal terreno fisico a quello delle Idee pure, dove l’amore si trasfigura in veicolo di ascensione filosofica. Questa visione è intimamente connessa alla teoria platonica delle Idee, secondo cui la conoscenza vera si raggiunge contemplando tali forme pure, accessibili solamente attraverso un processo di reminiscenza intellettuale. Questo processo, tema caro alla dottrina platonica, qui si colora di toni mistici: il ricordo delle verità eterne diventa un rito di passaggio, una rinascita dello spirito che ascende al cielo delle idee immutabili e può essere interpretato anche come un ritorno all’origine divina dell’anima, una sorta di pellegrinaggio spirituale verso la purificazione e l’illuminazione.
Il dialogo insinua l’idea che l’anima umana possa essere migliorata e redenta attraverso il potere dell’eros filosofico, che spinge l’individuo a una comprensione più profonda della realtà e della propria natura spirituale. Questo processo di ascesa è intricatamente legato al concetto di dialettica, un metodo di questionamento e argomentazione che Socrate, personaggio del dialogo, utilizza per guidare il suo interlocutore verso la verità, innalzando l’intelletto di questi dalla conoscenza sensibile a quella intellegibile.
Il Fedro è impregnato anche di riferimenti e simbolismi religiosi, che richiamano le credenze e le pratiche cultuali dell’antica Grecia. La preghiera iniziale a Pan e alle Naiadi serve sì da omaggio formale alle divinità, ma stabilisce altresì un contesto in cui il discorso può essere visto come un’offerta spirituale. Inoltre, il concetto di anima che Platone sviluppa riflette la visione religiosa greca dell’immortalità e della metempsicosi, ovvero la trasmigrazione delle anime.
Il mito della biga alata è forse l’immagine più potente e incisiva del dialogo. Questa allegoria riferisce di un auriga divino che guida due cavalli: uno nobile e l’altro ribelle, simbolo del conflitto interno tra ragione e desiderio, mentre l’auriga rappresenta l’elemento spirituale, il logistikon, che deve controllare i cavalli per mantenere la biga sulla giusta strada verso il cielo delle Idee, l’Iperuranio. La narrazione incanta per la sua vivida carica immaginifica e si spinge oltre, fungendo da metafora del viaggio dell’anima verso la conoscenza e la divinità. Il mito, così, non è semplice racconto ma epifania filosofica, che svela l’incessante lotta dell’essere per raggiungere l’armonia celeste. Tale mito sottolinea anche la tensione tra il destino divino dell’anima e le sue inclinazioni terrene. La biga alata, infatti, simboleggia il viaggio ascensionale dell’anima verso il divino, sforzandosi di superare l’attrazione gravitazionale delle passioni basse per ritornare alla sfera delle forme pure.


Nel Fedro, Platone non esplora solo tematiche filosofiche e mitologiche profonde, ma si immerge anche nella natura e nel valore dell’arte retorica. Attraverso il dialogo tra Socrate e Fedro, il filosofo ateniese critica le pratiche retoriche a lui coeve, spesso vuote e manipolative, proponendo un modello di retorica basato sulla verità e sulla giusta conoscenza. Due concetti fondamentali in questo contesto sono la synopsis e la dihairesis, ovvero la visione d’insieme e l’arte di dividere correttamente i concetti.
La synopsis rappresenta la capacità di vedere l’argomento nella sua interezza, di comprendere il quadro generale prima di procedere con un’analisi dettagliata. Per Platone è essenziale, perché permette all’oratore di non perdere di vista il contesto più ampio in cui si inserisce il discorso. Una vera comprensione degli argomenti richiede una visione olistica che colleghi le parti al tutto, assicurando che ogni pezzo del discorso sia allineato con il principio guida o la verità fondamentale che si vuol comunicare. La synopsis aiuta a evitare manipolazioni e sofismi, promuovendo una retorica persuasiva, eticamente fondata e intellettualmente rigorosa. La diairesis, invece, è il processo di suddivisione accurata di un argomento in categorie e sottocategorie, che permette di trattare ogni parte con precisione e dettaglio. Questa tecnica è cruciale per affrontare qualsiasi tema complesso, poiché organizza il materiale in modo che ogni elemento sia esaminato secondo criteri chiari e razionali. Nel dialogo, Platone usa la diairesis per distinguere tra diverse forme di amore, evidenziando come una vera comprensione dell’eros non possa prescindere dalla capacità di discernere i suoi aspetti nobili da quelli bassi. Analogamente, una retorica efficace deve poter identificare e isolare i diversi aspetti di un argomento per trattarli con la specificità che meritano. La combinazione di synopsis e diairesis forma la base di ciò che Platone considera l’arte della vera retorica: una disciplina che persuade, educa e migliora chi ascolta. Tale approccio eleva la retorica da semplice tecnica di persuasione a strumento di verità e giustizia, facendo dell’oratore non un mero istigatore, ma un maestro, un guidatore di anime. In questo modo, la retorica acquisisce un valore etico ed epistemologico: da arte di parlare bene, ad arte di pensare e agire correttamente.
Il Fedro, velo iridescente di parole e concetti, dove il filosofico, il religioso e il mitico danzano in un balletto celestiale, non è solo un trattato sull’amore o un manuale di retorica, ma un viaggio dell’anima che, tra le spirali dell’ascensione spirituale e i vortici del discorso logico, cerca di raggiungere la verità ultima. Lettura indispensabile per chi anela a comprendere non solo Platone ma la natura stessa del pensiero umano, rimane una stella polare nel firmamento della letteratura filosofica, guidando gli “astronauti del pensiero” attraverso i cieli tumultuosi della vita verso ciò che è al di là del cielo, l’Iperuranio della saggezza eterna.

 

 

 

Cosa rimane dell’anima

 

di

Antonio Martini

 

 

Nel Fedone di Platone, tra i vari concetti presi in esame, c’è quello di anima. Per chi non si occupa di filosofia questo termine potrebbe risultare obsoleto o mistico, in quanto nella nostra società non viene più usato, se non in alcune religioni. Ma perché non si parla più di anima e da che altra idea è stata rimpiazzata?

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Platone (428/427 a.C.–348/347 a.C.)

 

 

 

 

Sulla pre-supposta eternità degli affetti

 

di

Simone Santamato

 

 

Certamente non è segreto il fatto che nei confronti di un certo testo possa, l’autore, avere maggiore affettività, maggiore riconoscenza, passione, risonanza; non è poco comune come una produzione musicale possa essere per il musicista occasione di catarsi, di pulizia d’animo…

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David Hume.
Il problema dello scetticismo e la nascita del soggetto
come attività pratica

 

di

Anna Bagnato

 

 

La filosofia politico-morale di Hume è stata, spesso, messa in secondo piano rispetto alle innovazioni epistemologiche. Il nesso che lega epistemologia, morale e politica è stato oggetto di controversie che hanno favorito la collocazione dell’autore entro precise etichettature che non riflettono la complessità del suo pensiero. Il progetto di elaborare una scienza dell’uomo sufficientemente esaustiva…

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David Hume (1711-1776)

 

 

 

Brevi ragguagli sul concetto di “coscienza” nella storia della filosofia Occidentale

 

PARTE II

 

LA COSCIENZA COME CONOSCENZA (Ragion pura) E COME MORALE (Ragion pratica)

downloadImmanuel Kant, nella sua monumentale opera filosofica, dà al concetto di coscienza una duplice attenzione: una gnoseologica, relativa ai processi della conoscenza, l’altra morale, relativa alla sfera comportamentale. Per quanto riguarda il primo aspetto, considerò la coscienza come appercezione (Leibniz), pur rimanendo nella convinzione dell’esistenza del mondo esterno alla coscienza. Il filosofo di Königsberg (immagine a destra) distinse, poi, le appercezioni in pure trascendentali (chiamate anche “Io penso“), il vertice della conoscenza critica, in quanto fornisce senso alle rappresentazioni della realtà esterna; e in empiriche, l’esperienza interna, variabile e soggettiva. Entrambe le appercezioni e, quindi, la coscienza di esse, concorrono alla formazione dei processi cognitivi. In merito all’aspetto comportamentale, Kant considerò la coscienza come l’elemento che garantisce il valore assoluto della legge morale. La moralità è la somma ultima dei comandamenti della ragione, o imperativi, dai quali l’uomo deriva tutti gli obblighi e i doveri. Kant definisce la morale “Ragione pura pratica“, concependola come un’attività razionale a priori, che risulta sufficiente, da sola, a determinare la volontà. (Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica).

 

HEGEL: LA COSCIENZA PREMESSA DELL’AUTOCOSCIENZA CHE NON RICERCA L’ASSOLUTO PERCHE’ E’ PARTE DI ESSO

GeorgWilhelmFriedrichHegelAl concetto di coscienza, inteso in molteplici significati, il filosofo tedesco George Wilhelm Hegel (immagine a sinistra) dedicò un’intera opera: La fenomenologia dello Spirito. Nella Fenomenologia è tracciato il cammino che la coscienza umana, detta anche individuale, deve compiere per giungere all’Assoluto. La prima tappa è costituita dall’indagine sulla coscienza: l’individuo, attraverso il confronto sensibile con la realtà circostante, ha contezza e, quindi, coscienza della propria esistenza. Tale consapevolezza è generata dalla conoscenza sensibile, dalla percezione e dall’intelletto. Interiorizzata in sé la realtà, la coscienza diviene autocoscienza, seconda tappa. L’autocoscienza che riesce a raggiungere l’indipendenza crede di poter sussistere facendo a meno della realtà. La scissione tra l’autocoscienza e il tutto è chiamata da Hegelcoscienza infelice religiosa“, intesa come spaccatura che l’uomo avverte tra sé e Dio. Giunta al punto più basso di mortificazione e infelicità, l’autocoscienza si rende conto che è inutile ricercare l’Assoluto in quanto essa stessa è parte dell’Assoluto. Allora diviene Ragione, terza ed ultima tappa del percorso.

 

LA COSCIENZA COME RIFLESSO DELLA REALTA’ MATERIALE

220px-Karl_Marx_001Per Karl Marx (immagine a destra) la coscienza, come la produzione di idee e di rappresentazioni mentali, è direttamente collegata alle attività materiali degli uomini. Anche la produzione spirituale, che si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale e della religione, è una conseguenza dei comportamenti materiali. Gli uomini, intesi quali reali, operanti e condizionati dallo sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono, sono i produttori delle loro rappresentazioni. La coscienza, quindi, è l’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Gli uomini, sviluppando la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali, trasformano, insieme con la loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è, dunque, la coscienza a determinare la vita, ma la vita a determinare la coscienza  (Ideologia Tedesca).

 

LA COSCIENZA NEL PENSIERO FILOSOFICO CONTEMPORANEO

Con Edmund Husserl il concetto di coscienza, arricchito dalle dottrine dei filosofi dei secoli precedenti, conquista il passaggio verso il pensiero contemporaneo. Se per Hegel il termine Husserl-3fenomenologia aveva significato tracciare il cammino della coscienza, per Husserl (immagine a sinistra), invece, ineriva proprio lo studio della coscienza. Il filosofo prese le distanze dallo Spiritualismo del XIX secolo, per cui la coscienza era una sostanza, un ente, sostenendo che questa non fosse, appunto, un essenza, ma un’attività. In più, essa è anche intenzionalità, ovvero coscienza di qualcosa e si presenta in diversi modi: percepire, pensare, ricordare, immaginare. La coscienza, però – e qui c’è la rottura con tutta la tradizione precedente -, non si identifica col suo oggetto. Essa è totalmente soggettiva. Solo la coscienza può rivelare l’essere: essere è solo ciò che è per la coscienza. Da ciò, l’originale intreccio husserliano tra coscienza e filosofia: teoretica (filosofia di riflessione, di contemplazione, poiché riguarda sempre il soggetto conoscente); edetica (che si occupa delle essenze, non avendo un rapporto diretto con la realtà come essa è ma come appare alla coscienza); non oggettiva (l’approdo cui giungono le sue posizioni è estremamente soggettivo) (Ricerche logiche, Meditazioni cartesiane). Come Husserl, anche Martin Heidegger muove la sua analisi della coscienza Heideggerdalla soggettività di questa, mettendo, però, in luce che gli sforzi di Husserl non siano bastati, avendo questi non tenuto conto anche della finitezza e della esistenza storica. Il filosofo tedesco (immagine a destra) insiste sull’esigenza di connettere la coscienza alla concretezza dell’esistenza. L’essere, progettando il mondo, lo fa venire all’esistenza, in quanto coscienza trascendentale, trovandosi, quindi, ad essere a sua volta progettato. L’essere, avendo coscienza della propria esistenza si apre al mondo, uscendo dalla soggettività per entrare nell’universo della coesistenza fra le cose. Tale azione aliena l’essere da sé stesso. La conseguenza è l’appello alla coscienza, ma questa apre la prospettiva al nulla, al nichilismo (Essere e tempo). Jean Paul Sartre, ponendosi tra la fenomenologia di Husserl e l’esistenzialismo di Heidegger, trasforma la filosofia della coscienza in esistenzialismo ateo, negando l’esistenza dell’io nella coscienza e trasportandolo al di fuori di essa, come ente del mondo. L’esistenza è la nullificazione dell’essere, poiché l’essere è affetto da una frattura insanabile tra l’essere in sé, come totalità fuori dalla coscienza, e l’essere per sé, che è l’essere della coscienza stessa. L’essere non riesce mai ad afferrare sé stesso. Ha in sé la tara del nulla. Da qui, la nullificazione del mondo, poiché le cose sono quelle che sono in sé, ma non ne hanno coscienza. Esse non hanno senso, come non ha senso la coscienza umana; sono una realtà di fronte alla quale l’unico atteggiamento possibile della coscienza umana non può che essere la nausea (Saggi, La nausea). Con Sigmund Freud e la sua scuola il concetto di coscienza entra nella psicoanalisi moderna. Per esigenze di brevità, data la vastità del pensiero freudiano, mi limito a fornire accenni esplicativi sui più importanti contributi che lo psicoanalista austriaco ha fornito alla scienza contemporanea, con l’indagine della mente umana e dei suoi processi: i concetti di coscienza, preconscio e inconscio. La coscienza è downloadfacilmente accessibile perché in stretta e immediata connessione con la realtà che ci circonda: essa è sempre vigile, razionale, presente e non vive, perciò, di ricordi passati. Freud (immagine a sinistra) considera la coscienza come un dato dell’esperienza individuale. La assimila alla percezione, considera come essenza di quest’ultima la capacità di ricevere qualità sensibili e affida questa funzione di percezione-coscienza ad un sistema autonomo e funzionante in base a principi quantitativi. Tra la coscienza e l’inconscio, è collocato il preconscio. Esso incamera tutte le esperienze passate, che possono essere fatte emergere con facilità: attraverso uno sforzo, grande o piccolo, dipende dal ricordo, si può riscoprire qualcosa che è accaduto. Al preconscio, dunque, vi si può accedere grazie alla ragione, senza grosse difficoltà. L’inconscio. In esso risiedono desideri vergognosi, impulsi repressi, esperienze traumatiche rimosse. Tutto ciò che si vuole cancellare definitivamente e domare con la ragione si inabissa in questo spazio di ricordo eterno. Tutto ciò che accade o è accaduto in un passato, anche remotissimo, viene divorato dall’inconscio e mai viene dimenticato (L’interpretazione dei sogni).

 

Brevi ragguagli sul concetto di “coscienza” nella storia della filosofia Occidentale

 

PARTE I

 

LA COSCIENZA COME ANIMA 

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Secondo Platone (immagine a sinistra) la coscienza umana ha una funzione essenzialmente conoscitiva, collegata alla dottrina delle Idee, cardine della sua filosofia. Le Idee, infatti, oltre ad essere realtà ontologiche a sé stanti, immutabili ed eterne, che fungono da modello al Demiurgo per plasmare il mondo, ovvero forme con le quali è strutturata la realtà empirica, sono altresì presenti nella coscienza umana, come forme intellettuali, mediante le quali l’uomo comprende la dimensione sensibile dell’esistenza. La coscienza, quindi, nella dottrina platonica, corrisponde, sotto l’aspetto del mito, all’anima, la quale, avendo vissuto nell’Iperuranio, conserva in sé il ricordo delle Idee. Da ciò, scaturisce la concezione platonica della conoscenza innata, proprio perché già presente nell’anima e, quindi, nella coscienza di ogni essere umano (Fedone, Critone, Repubblica). Anche Aristotele identifica la coscienza con l’anima ma, a differenza di Platone, non strettamente nell’ambito della conoscenza, quanto piuttosto riguardo al concetto di tempo. Il filosofo di Stagira indaga sul rapporto tra il tempo e il movimento per far assumere ai due concetti una connotazione concreta. Il movimento è nel tempo e il tempo non può esistere senza movimento. Per Aristotele, infatti, il tempo è “il numero del movimento secondo il prima e il poi”, intendendo per numero la funzione del contare, che non è possibile senza avere coscienza della successione numerica. Dato che l’esistenza del tempo è empiricamente ovvia e chiaramente riscontrabile, la sua percezione è un fatto di coscienza. Per coscienza, dunque, Aristotele intende l’anima, unico ente in grado di determinare un prima e un poi in relazione alla vita del singolo individuo (Fisica, De Anima).

LA COSCIENZA COME INTERIORITA’/RIFLESSIONE SU DI SE’, PER GIUNGERE A DIO

Il filosofo Plotino sviluppa il concetto di coscienza non come consapevolezza di qualsivoglia proprio stato interno, ma come campo privilegiato in cui si manifestano, nella loro evidenza, le verità più alte cui l’uomo può giungere, e la fonte, o il principio stesso, di tali verità: Dio. Indicando la coscienza come introspezione o ascolto interiore, egli adopera espressioni quali “ritorno a sé stesso”, “ritorno alla interiorità”, “riflessione su di sé”, contrapponendo costantemente questo atteggiamento proprio del saggio a quanti, invece, per la condotta della propria vita, si basano unicamente sulla conoscenza delle cose esterne (Enneadi).

LA COSCIENZA COME MORALE 

Simone_Martini_003Con il Cristianesimo, a cominciare da San Paolo e dai Padri della Chiesa, il concetto di coscienza viene ricondotto a quello di morale. Ne è esempio l’espressione di uso comune “voce della coscienza” la quale dovrebbe suggerire come comportarsi e quali siano i principi certi che, in ogni uomo, lo guiderebbero sulla retta via, dalla quale esso devia a causa della debolezza umana. E inoltre, non a caso, la precettistica cristiana prescrive l’esame di coscienza come pratica per rintracciare i propri errori morali. Per Sant’Agostino  (immagine a destra) la coscienza è il luogo interiore dove l’uomo cerca e trova Dio, la Mens superior inhaerens Deo (mente superiore insita in Dio). Dio è per l’uomo Essere e Verità, Trascendenza e Rivelazione, Padre e Logos. In quanto Verità, Dio rivela all’uomo ciò che è, in contrasto al falso che fa apparire o credere ciò che non è. Dio-Verità è l’essere che si rivela, che illumina la coscienza umana della sua luce e le fornisce la norma di ogni giudizio, la misura di ogni valutazione. Dio si rivela come trascendenza all’uomo che incessantemente e amorevolmente lo cerca nella profondità del suo io, la coscienza (Confessioni, De vera religione). San Tommaso d’Aquino intende la coscienza sempre ed esclusivamente come coscienza morale. La sua stessa definizione (scienza con l’altro), secondo l’Aquinate, rivela l’ambito di una ricerca volta a definire la coscienza morale come un’applicazione della scienza morale al comportamento umano, al fine di valutarlo e direzionarlo. La coscienza è un atto della persona, che investe sia la sfera intelligibile che quella razionale. Essa applica ai casi concreti della vita l’oggettività e l’universalità della legge a cui si riferisce, la sinderesi, intesa come abito che contiene i precetti della legge naturale, i quali sono i primi principi delle azioni umane. La coscienza, pertanto, nella filosofia del Doctor Angelicus, non è un’altra facoltà (le facoltà sono due: intelletto e volontà), ma è l’uso della ragione per valutare cosa bisogna fare nella situazione concreta hic et nunc (qui e ora). Attraverso la ragione l’uomo applica le norme morali (Somma Teologica, De Veritate) .

LA COSCIENZA COME RAGIONE

Frans_Hals_-_Portret_van_René_DescartesCon l’età moderna, il concetto di coscienza si svincola da qualsiasi implicazione morale e religiosa e diviene il fulcro di tutte le dottrine cognitive e di tutti i processi di conoscenza. Il primo filosofo che muove la sua indagine in questo senso è Cartesio (immagine a sinistra). Egli ritiene che ogni operazione della mente sia accompagnata dalla coscienza di sentire o di ragionare, cioè dalla consapevolezza di possedere nella mente i propri contenuti mentali. La coscienza, per Cartesio, è la consapevolezza soggettiva di sentire e ragionare, perché il pensare implica il sapere di stare pensando. Le idee esistono nella mente, che ne ha coscienza, ma possono non corrispondere alla realtà esterna. Tra queste, ce n’è una privilegiata: l’idea del soggetto come mente, la quale è l’unica ad imporsi come certa vera e indubitabile (cogito ergo sum). Il cogito non è più l’atto pensante originario, da cui nasce il filosofare, ma diventa un pensato. L’evidenza o coscienza del cogito offre un metodo sicuro e infallibile di indagine razionale, tramite il quale poter distinguere il vero dal falso. Il cogito, inoltre, pone l’io esistente come  assolutamente indipendente dal corpo, non potendosi imporre come idea chiara se la mente pensante non fosse completamente separata dalla materia. La coscienza, nella filosofia cartesiana, è, dunque, equiparabile all’anima, intesa come res cogitans, distinta dal corpo, la res extensa (Principi di filosofia). Anche per il filosofo Gottfried Leibnitz il concetto di coscienza è strettamente legato ai processi della conoscenza. Questi, infatti, affida alla coscienza quella caratteristica che determina la capacità di percepire. Nell’uomo questa capacità è più elevata, rispetto agli altri esseri viventi, e le percezioni sono chiare e distinte. La loro consapevolezza o coscienza è l’appercezione, termine con il quale Leibnitz indica l’atto riflessivo attraverso cui l’uomo acquista consapevolezza, o coscienza, delle proprie percezioni, le quali, di per loro, potrebbero anche rimanere inavvertite. L’appercezione  è il fondamento ultimo della coscienza e dell’io (Monadologia).

LA COSCIENZA EMPIRICA 

John-Locke-painting-664x1024La concezione cartesiana di coscienza ispirò anche i filosofi dell’empirismo inglese. John Locke (immagine a destra) intese, infatti, la coscienza come la percezione di ciò che passa nella mente di un uomo, o meglio, le sue idee. Inoltre, egli, da empirista, rinviò alla coscienza ogni possibile esperienza delle cose esterne poiché, proprio da quelle, l’uomo forma dentro di sé le idee. La coscienza, quindi, è l’io che possiede e sviluppa tutte le attività mentali (Saggio sull’intelletto umano). George Berkeley  fu ancora più radicale di Locke, sostenendo che l’esistenza delle cose è in quanto queste sono percepite come esistenti (esse est percipi), ovvero quando si ha coscienza della loro esistenza, nonostante le sostanze materiali, le res extensae di Cartesio, siano soltanto proiezioni della mente cui dover rinunciare per attenersi unicamente alle pure sensazioni (Commentari filosofici).

 

Nietzsche interprete di Spinoza. Il tema degli affetti

 

di

Francesca Zappacosta

 

 

È possibile un confronto tra Nietzsche e Spinoza? Esiste qualche affinità tra il filosofo del conatus e il filosofo della volontà di potenza? È lo stesso Nietzsche a fornire la chiave interpretativa che permette di trovare una risposta a tali interrogativi. Il filosofo tedesco, infatti, dopo un primo entusiastico approccio alla filosofia di Spinoza, conosciuta attraverso la lettura di Kuno Fischer...

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Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900)

 

 

 

Sulla funzione catartica della bestemmia

 

 

2500 anni di dottissime e spesso astruse speculazioni filosofiche sulla natura della “catarsi” (il processo di liberazione dalle esperienze traumatizzanti o da situazioni conflittuali), da Aristotele alla contemporanea psicologia post-freudiana, non sono state in grado di mettere in luce come la più alta e praticata forma di catarsi, per il genere umano, sia la bestemmia, somma, seppure spesso soltanto momentanea, purificazione dell’animo dalle negatività che lo appesantiscono! Sarebbe proprio il caso di affermare: bestemmiate e la vita vi sorriderà!!!