“Nella Basilica di San Pietro, a Roma, non percepisco la presenza di Dio, ma venero il genio e la potenza dell’uomo” (R. P.)
Secondo la dottrina cattolica, contenuta nel Catechismo della Chiesa Cattolica, ecco la definizione di santo: “Canonizzando alcuni fedeli, ossia proclamando solennemente che tali fedeli hanno praticato in modo eroico le virtù e sono vissuti nella fedeltà alla grazia di Dio, la Chiesa riconosce la potenza dello Spirito di santità, che è in lei, e sostiene la speranza dei fedeli offrendo loro i santi quali modelli e intercessori”. I santi sono stati oggetto di devozione e di culto sin dai primissimi secoli della storia del Cristianesimo Un riadattamento di fondo degli eroi pagani? Forse, nonostante le molte differenze intercorrenti. La nuova religione popolare (Cristiana) ebbe certamente necessità di essere alimentata nella continuità con la precedente (pagana) e i primi ministri del culto secondarono questa persistenza. Cosa abbiano rappresentato e rappresentino, ancora oggi, i santi, nell’immaginario e nel quotidiano dell’Occidente cristiano, e di quali pratiche cultuali siano oggetto da parte dei fedeli, è più che noto e rientra in quel contenitore, sia semantico che pragmatico, denominato, tuttora, religione. Esiste, però, un altro tipo di religione, in questo modo impropriamente denominata, se non per renderne comprensibile la definizione: la religione laica o la religione della ragione. Due ossimori! (La ragione è tutto ciò che si contrappone alla religione!). Ebbene, anche nella religione della ragione è contemplato il culto dei santi. Esiste, altresì, un Catechismo della Ragione, che ne definisce la natura: “I santi hanno praticato in modo eroico la ragione e sono vissuti nella fedeltà all’intelletto umano, divenendo modello per lo sviluppo morale e materiale dell’umanità”. Capitoli del libro di questi santi e, in troppi casi, di martiri, sono le storie della Filosofia, della Scienza e della Tecnica!
LA LIBRERIA INDIPENDENTE DI SORRENTO OMAGGIA DANTE ALIGHIERI, NEL 695° ANNIVERSARIO DELLA MORTE, CON LA “LECTURA DANTIS: INFERNO. I PERSONAGGI”, REALIZZATA DA RICCARDO PIRODDI
In occasione del 695° anniversario della morte di Dante Alighieri (14 settembre 1321 – 14 settembre 2016), la Libreria Indipendente di Sorrento rende omaggio al sommo poeta con la videoproiezione della “Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi”, realizzata da Riccardo Piroddi, pubblicista, blogger e autore, nel 2011, del saggio dal titolo, “Storia (non troppo seria) della Letteratura Italiana”, Edizioni Albatros. L’evento culturale si terrà sabato 17 settembre 2016, alle ore 20.00, presso i locali della libreria, in Corso Italia, 258/c, a Sorrento. “Sin dai decenni immediatamente successivi alla morte di Dante – ha dichiarato Piroddi – cominciarono a tenersi pubbliche letture dei suoi versi, sovente accompagnate da interventi analitici di commentatori. Tra i primi, Giovanni Boccaccio, nel 1373, a Firenze. La grandezza e l’immutato fascino dell’opera di Dante si aprono, oggi, alla tecnologia, pur nella secolare tradizione della lectura espressiva e della lectura esegetica. Questo è lo spirito che anima la mia realizzazione. Immagini, musiche, effetti sonori e gli stessi versi danteschi, magistralmente interpretati dalla potente voce recitante di Giulio Iaccarino, danno vita ad alcuni tra i più celebri personaggi dell’Inferno, prima cantica del Divino Poema (Paolo e Francesca, Farinata degli Uberti, Pier delle Vigne, Ugolino della Gherardesca e altri), le cui vicende storiche e poetiche saranno oggetto di mie riflessioni nel corso della serata”.
Friedrich Nietzsche e Violetta Elvin: la poesia della gaia scienza e l’amore della gaia vita
“Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare. E quando ho visto il mio demonio, l’ho sempre trovato serio, radicale, profondo, solenne: era lo spirito di gravità, grazie a lui tutte le cose cadono. Non con la collera, col riso si uccide. Orsù, uccidiamo lo spirito di gravità. Ho imparato ad andare: da quel momento mi lascio correre. Ho imparato a volare: da quel momento non voglio più essere urtato per smuovermi. Adesso sono lieve, adesso io volo, adesso vedo al di sotto di me, adesso è un dio a danzare, se io danzo”.
Buona sera, buona sera a tutti. Le parole che ho appena recitato non sono mie. Lo fossero, ora sarei nell’olimpo dei pensatori di tutti i tempi. Sono di un personaggio della storia del pensiero universale di cui vi parlerò tra poco. Non ho bisogno di presentarmi, mi conoscete tutti. Mi considero ancora un giovane virgulto, figlio di questa terra meravigliosa, la terra massese. Non è un mistero che, da anni, collabori con il professor Lauro, per cui, di quest’opera, che presentiamo stasera, conosco anche l’esatta posizione delle virgole. Lo scorso anno quando, a pochi metri da qui, in piazza, presentammo il romanzo precedente del professor Lauro, “Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”, dedicai il mio intervento a donna Violetta. Stasera ella è qui, davanti a me e tra voi, e con il cuore tra le mani, voglio dire a lei che sto per offrirle, non soltanto questa mia relazione, ma la mia anima. Avrei voluto tenere, in questa occasione, un discorso nel quale raccontarvi l’incredibile storia che mi ha visto protagonista, in tutte le fasi che hanno portato alla pubblicazione di questo romanzo, dalle interviste a donna Violetta, alle quali ho avuto la gratificante possibilità di partecipare, in qualità di novizio di frate Guglielmo da Baskerville – Lauro, per citare il mio amato Umberto Eco, alla nostra amicizia, la quale è una medaglia d’onore che avrò appuntata sul petto fino alla fine dei miei giorni, alle nostre telefonate notturne, sovente in inglese, durante le quali parliamo di William Turner, di Dante Alighieri, di letteratura e delle ultime vicende politiche internazionali. Vorrei, ma come mi ha insegnato il filosofo ginevrino Jean Jacques Rousseau, a parlare di sé non si guadagna mai nulla! Ed ecco, allora, che per onorare secondo il massimo delle mie poche possibilità, questa donna straordinaria, ho deciso di indossare i miei abiti migliori, quelli dell’educazione sentimentale e culturale, e di riferirvi talune impressioni suscitatemi da questo bel romanzo, facendomi condurre per mano da uno dei più elevati spiriti dell’umanità, che io sommamente amo e al quale sono enormemente debitore, l’autore delle parole che ho pocanzi recitato: Friedrich Wilhelm Nietzsche.
Perché mai, proprio Nietzsche? Perché, credetemi, Violetta Elvin e Friedrich Wilhelm Nietzsche hanno molte caratteristiche in comune, non soltanto il medesimo amore per la danza. In Nietzsche, la danza è attività libera e liberatrice. E’ espressione, insieme con la musica, di quell’elemento dionisiaco oscuro, contrapposto all’apollineo luminoso. Per mostrarvi, dunque, queste caratteristiche comuni vorrei partire dall’occasione che, nel romanzo, mi ha suggerito questo percorso. Monte Comune, Vico Equense: in un afflato di incanto naturalistico, la giovane Violetta, immersa nell’estasi visiva del golfo di Napoli, ripercorre, in pochi attimi, cito: “Il grande cratere di fuoco, il prevalere delle acque, il consolidarsi di quell’armonia, un’opera d’arte, che anche il più convinto agnostico avrebbe faticato a non definire divina. Da quel punto di osservazione del mondo l’epopea della vita, la nascita di Venere pagana, che emerge dalla spuma delle onde, e il destino dell’umanità, tutto diventava più chiaro, intuitivamente, senza avere più bisogno di spiegazioni”.
La giovane Violetta, in quel momento, decide di riprendere in mano la propria vita, di darle una nuova forma e una nuova direzione. Un nuovo inizio, quindi, Una palingenesi.
Sils Maria, Engadina svizzera: in una notte estiva di luna, Nietzsche, mentre passeggia tra i laghetti che bagnano la località alpestre, ha l’intuizione di una teoria destinata a diventare uno dei capisaldi della sua dottrina filosofica: l’eterno ritorno all’uguale.
“Non essendoci un Dio creatore che ha dato inizio a un mondo composto di esseri finiti, allora il mondo non ha né inizio né fine, è eterno ed è composto di esseri infiniti”. “L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere! Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina”.
Queste ultime sono parole di Nietzsche da “La gaia scienza”, opera del 1882, che scrisse quando aveva circa la mia età e nella quale annunziò proprio questa teoria. Ecco, soffermiamoci un attimo su questa parola: gaia. E’ la chiave che mi ha consentito di rintracciare parallelismi tra le esistenze e la poietica di Violetta Elvin e Friedrich Wilhelm Nietzsche. Mi figuro la vita di donna Violetta come una vita gaia, proprio in senso nietzschiano. Nietzsche scrive “La gaia scienza”, opera che rappresenta il passaggio dalla fase cosiddetta dello spirito libero, verso le sommità mature del suo pensiero, influenzato da un luogo fisico, dall’ebbrezza della contemplazione di un paesaggio naturale. Allo stesso modo, Violetta opera, in un medesimo contesto spirituale, quella scelta di vita che le permetterà di chiudere un periodo, quello della danza, e di aprirne un altro, quello dell’amore: Dance The Love, appunto.
C’è dell’altro, però, su cui ho costruito la comparazione tra donna Violetta e Nietzsche e riguarda il mio approccio intimo e personale alle vicende dei due: il mio debito di gratitudine nei confronti di entrambi. Nietzsche è stato uno dei massimi formatori del mio pensiero. Io amo Nietzsche perché la sua filosofia è una filosofia gioiosa, una filosofia dello spiritus construens, una filosofia del futuro. Sono solito rispondere in questo modo alla domanda, che mi viene spesso posta, riguardo cosa ami parlare quando sono con una donna (i dialoghi con una donna sono, per un uomo, il più meraviglioso esercizio di dialettica della passione!). Io amo parlare del futuro. Con le donne io amo parlare del futuro! Questo me lo ha insegnato Nietzsche. Nietzsche ha liberato l’umanità dalle incrostazioni esiziali che la metafisica, da Platone a Hegel, aveva sedimentato nella storia del pensiero occidentale. Il suo celebre adagio, “Dio è morto”, riferibile non soltanto all’ambito religioso, ma, appunto, più in generale, a quello metafisico, è divenuto il suono delle campane che ha destato l’umanità, aprendole gli occhi ad una nuova era. Ne “Il crepuscolo degli idoli”, del 1888, il filosofo spiega, in sei punti, come “il mondo vero finì per diventare una favola”, posando, sulla metafisica occidentale, la più ironica, distruttiva e definitiva pietra tombale. Vi consiglio di leggerla, se siete preparati alla deflagrazione di tutte le vostre credenze. C’è un termine, ricorrente in molti punti dell’opera nietzschiana: antivitale. Egli lo riferisce, particolarmente, alle religioni e ai vecchi sistemi di credenze. Il mio amore per Nietzsche è germogliato grazie a questa parola perché lui, poi, ha saputo palesare cosa fosse e cosa significasse il contrario. Vitale, ciò che abbandona il vecchio e si proietta verso il futuro. L’uomo, infatti, ripudiati i sistemi mentali pregressi, che lo hanno costretto alla schiavitù morale, all’antivitale, adoperata e accettata la trasvalutazione dei valori, per usare la sua terminologia, diviene un essere vitale, proiettato verso il futuro, verso la libertà. Nietzsche ha mostrato a cosa dovesse tendere l’uomo e l’umanità. Nietzsche è stato certamente un uomo pieno d’amore. Un sistema filosofico come il suo ha necessariamente alla base una massiccia quantità di amore. Nella vita, però, da quel punto di vista, fu sfortunato. Amò una sua discepola, Lou Salomé, la quale rifiutò di sposarlo, precipitandolo in una crisi depressiva che, tuttavia, gli fu provvidenziale, in quanto gli ispirò la prima parte di “Così parlò Zarathustra”. E, ancora, nonostante non vi siano prove certe, l’innamoramento, sempre infelice, per Cosima Wagner, seconda moglie del famoso compositore Richard, con i quali, tra l’altro, fu qui, a visitare il monastero del Deserto, negli anni ’80 dell’Ottocento. Un grande uomo, un grande spirito, un’anima libera, un benefattore dell’umanità! Un pensatore cui oggi le giovani generazioni, come la mia, dovrebbero guardare. In un’epoca in cui quanti ci hanno preceduto non hanno lasciato a noi neppure le macerie con le quali poter costruire il nostro futuro, un filosofo il quale, dal punto di vista dottrinario, ha tracciato la via maestra per l’avvenire, deve essere venerato come una divinità! Altro che i falsi miti propinati oggi dai media!
Donna Violetta, adesso questo mio discorso entra nella parte più sentimentale, quella più difficile, per me, da enunciare, perché temo che lacrime di gioia possano rigare il mio viso e occludermi la gola, impedendomi finanche di parlare. Mi rivolgo direttamente a voi, per cercare di chiarire i motivi di questo accostamento della vostra persona e della vostra storia a Nietzsche: Nietzsche filosofo vitale, danzatore dello spirito, uomo d’amore, profeta della libertà, oracolo dell’avvenire. Voi, donna Violetta, artista vitale, danzatrice dello spirito, donna d’amore, profetessa della libertà, oracolo dell’avvenire. Io ho avuto il privilegio di poter ascoltare, dalla vostra viva voce, i racconti della vostra incredibile vita di bambina, di artista, di donna, di moglie e di madre. I lettori di questo bellissimo romanzo lo faranno attraverso le meravigliose pagine che il professor Lauro ha così bellamente costruito. Per cui, non vi indugio affatto. Donna Violetta, questo intervento è affiorato nella mia mente già mentre, un anno e mezzo fa, vi ascoltavo parlare di voi e della vostra storia. Immediatamente, vi ho legata al filosofo di cui ho esposto. Davanti ai miei occhi incantati di giovane avete portato in scena, come facevate al Teatro Bol’šoj di Mosca o alla Royal Opera House di Covent Garden, nella nostra amatissima Londra, la filosofia di Nietzsche. “Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare!” Donna Violetta, voi sapete danzare, eccome, e io credo in voi. Queste mie riflessioni siano un altare che io innalzo al vostro simulacro, al vostro esempio, alla vostra bellezza mai sfiorita. La vostra storia è la dimostrazione reale di quel vitalismo di cui parlava il Nietzsche, sostenuto dall’amore per la vita, per la danza, per l’arte, per un uomo, il vostro Fernando, per un figlio, il vostro Antonio, e per una terra, questa nostra Penisola Sorrentina e Vico Equense, in particolare, nella quale siete sbocciata come il fiore più prezioso, l’orchidea “Scarpetta di Venere”, la stessa scarpetta che indossavate in teatro, e come la Venere cantata da Foscolo nel sonetto “A Zacinto”, avete fatto feconda, o nella quale, come la Beatrice di Dante, siete venuta a miracol mostrare. Il miracolo della vostra stessa vita, che avete donato a questa terra e a noi, suoi abitanti. Donna Violetta, filosoficamente parlando, avete operato quella rivoluzione, non copernicana, come direbbe Immanuel Kant, ma nietzschiana. Avete superato l’oppressione di un regime dittatoriale, che per Nietzsche era la metafisica, aprendo le vostre ali verso la libertà, verso la vita. Avete fatto diventare quel mondo vero, che Lenin, Stalin e il comunismo avevano costruito, una favola. Anche voi avete operato e accettato la trasvalutazione dei valori, avendo la forza di rinunciare, non come Nietzsche, a qualcosa che vi rendeva schiava, ma ancor più difficilmente, a qualcosa che amavate, la danza, per abbracciare qualcuno che avreste amato ancora di più. Avete conquistato la vera libertà: quella di amare! Siete voi stessa diventata il simbolo della libertà. Donna Violetta, ai miei occhi incantati di giovane, spesso velati dalla malinconia dei poeti, voi siete sole splendente, trasfigurata, nietzschianamente trasvalorata, nel sole. “Vergine bella che di sol vestita”, cantava Francesco Petrarca. Come nelle muse dei poeti, io vedo in voi tutte le donne del mondo, tutte le madri del mondo. Nel vostro cuore c’è la storia del mondo. “Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare!”. Donna Violetta, guardano a voi, così regale, così bella, così meravigliosa, io penso alla donna che, spero, un giorno possa accompagnarmi nella vita e allora, quando l’avrò davanti, regale, bella e meravigliosa come voi, con il cuore e le gambe tremanti, come in questo momento, le dirò, pensando a voi, pensando al vostro esempio, pensando alla delicatezza e all’affetto che avete sempre mostrato nei miei confronti, che nel teatro del tempo io danzerò la mia vita: tu, sole, come luce di scena e l’eternità come sfondo! Grazie donna Violetta! Grazie a tutti!
Cominciamo con fornire qualche breve ragguaglio di ordine generale sulla Divina Commedia. Dante, innanzi tutto, non la titolò mai in questo modo, ma semplicemente Comedía. Fu Giovanni Boccaccio ad aggiungere, qualche tempo dopo la morte dell’Autore, l’aggettivo Divina, perché era Dio il padrone dei luoghi visitati dal poeta. Nella Divina Commedia è raccontato il viaggio che il sommo poeta immagina di compiere nei tre regni dell’Aldilà, tra anime dannate, spiriti penitenti e beati nella gloria del Signore. Il poema è diviso in tre cantiche, l’Inferno, il Purgatorioe il Paradiso, composte, ciascuna, di trentatré canti di terzine, tranne l’Inferno, che ne ha uno in più, fungente da prologo generale. Il cammino, cominciato il 7 aprile 1300, giovedì santo, e finito il successivo mercoledì 13, ha come intento principale quello di mostrare agli uomini come stessero le cose dal lato dei morti, a cosa si andasse incontro se si fosse disobbedito a Dio e quali fossero, invece, i premi, se si fosse fatta la sua volontà. Il pellegrino non è solo, perché nell’Inferno e nel Purgatorio è il grande letterato latino Virgilio ad accompagnarlo, mentre, dall’ingresso del Paradiso Terrestre,è Beatrice, la sua Beatrice, a guidarlo sino a Dio. L’Autore, sostituendo la sua giustizia a quella divina, riempie il mondo ultraterreno dei personaggi più diversi: dai re ai grandi condottieri, dagli scrittori antichi ai filosofi, dai protagonisti delle storie della Bibbiae della mitologia classica a quelli dei romanzi cortesi, fino ai concittadini, morti qualche anno prima che cominciasse a scrivere. Questo perché, i lettori, conoscendo di chi si trattava, rimanessero maggiormente impressionati in negativo o in positivo. Bene, ora possiamo andare all’inferno!
Dante si è perso in una selva oscura ed è già impaurito di suo, quando gli si parano davanti tre bestiacce: un leone, una lonza (lince) e una lupa. Il poveretto non sa più che pesci prendere, ma, per fortuna, arriva a salvarlo Virgilio e, insieme, cominciano a scendere verso il baratro. L’Inferno ha la forma di un cono, che arriva fino al centro della Terra, formatosi quando Dio buttò giù dal suo regno Lucifero, rimasto conficcato nel fondo alla voragine. Il luogo della dannazione infinita, tra burroni, precipizi, ripe, dirupi e fossi, è diviso in nove cerchi, nei quali i dannati pagano per le loro colpe: quanto più grossa l’hanno combinata durante la vita, tanto più giù scendono. Si comincia dall’antinferno, in cui sono quelli che vissero tanto per vivere, forse solo perché erano nati (gli ignavi). Oltrepassata la porta dalla scritta terribile della Città Dolente e il fiume Acheronte, dove il nocchiero Caronteprende a remate sulla schiena le animacce che non si muovono a salire sulla sua barca, si trova il Limbo, nel quale bambini e persone perbene nate prima di Cristosospirano e si struggono. Da lì, passando davanti a Minosse, il giudice infernale, il quale attorciglia la coda tante volte quante il numero del cerchio dove lo spiritaccio deve andare a scontare la sua pena, si trovano i veri maledetti da Dio. Nei primi sei cerchi ci sono i cosiddetti incontinenti: quelli che pensavano sempre alla stessa cosa (i lussuriosi); quelli che stavano sempre a masticare qualcosa e ad ingozzarsi (i golosi); quelli che avevano la mano corta, i genovesi e gli scozzesi(gli avari) e quelli che ce l’avevano bucata (i prodighi); quelli che si incazzavano per un nonnulla e quelli che se ne fregavano di ogni cosa per tutta la vita (gli iracondi e gli accidiosi). Nel settimo cerchio Dante trova i violenti contro il prossimo, i violenti contro se stessi e i violenti contro Dio, l’arte e la natura: quelli che dicevano la verità contro le bugie della Chiesa (gli eretici); quelli che avevano il grilletto facile e quelli che ti scamazzavano per rubarti pure le mutande e i calzini (gli assassini e i briganti); quelli che l’avevano fatta finita prima del tempo e quelli che guadagnavano duemila euro al mese e ne spendevano cinquemila (i suicidi e gli scialacquatori); quelli che nominavano Dio, la Madonna e i santi senza motivo, specialmente all’interno di volgari e colorite espressioni (i bestemmiatori); quelli che ti prestavano ventimila euro e dopo un mese ne volevano cinquantamila, sennò ti facevano incendiare il negozio (gli usurai); quegli uomini col vizio di andare con gli altri uomini (i sodomiti). Nell’ottavo cerchio, invece, ci sono i fraudolenti contro chi non si fida: quelli che cercavano di fregarti con il loro bell’aspetto (i seduttori); quelli che volevano imbrogliarti con le belle parole (i lusingatori); quelli che vendevano o compravano cose sacre fuori dalle sagrestie (i simoniaci); quelli che predicevano il futuro, pure se ci azzeccavano (gli indovini); quelli che vivevano facendo imbrogli e pacchi vari(i barattieri); quelli che davanti ti dicevano che eri bravo e dietro che non eri buon a niente (gli ipocriti); quelli che avevano le mani lunghe (i ladri); quelli che con i loro consigli ti sgarrupavano (i cattivi consiglieri); quelli che ti facevano fare a mazzate con tutti (i seminatori di discordia); quelli che stampavano e spacciavano soldi e monete false (i falsari). Infine, il nono cerchio, l’ultima zona, divisa in quattro parti, proprio la peggiore, patibolo eterno dei fraudolenti contro chi si fida: la Caina, con i traditori dei parenti, da Caino, che aveva ucciso il fratello Abele; l’Antenora, con i traditori della patria, da Antenore, che aveva venduto la città di Troia ai greci; la Tolomea, con i traditori degli ospiti, da Tolomeo, un sacerdote biblico che aveva fatto uccidere il suocero e i cognati dopo averli invitati a pranzo a casa sua; la Giudecca, con i traditori dei benefattori, da Giuda, il traditore di Cristo, sommo benefattore dell’umanità. Tutti questi disgraziati sono affogati nel fiume ghiacciato Cocito. E, nell’ultimo posto possibile, il buco del c..o del mondo, inficcatovi come un pecorone, Lucifero, un mostro con le ali di pipistrello e tre teste, nelle cui bocche maciulla i tre più schifosi peccatori di tutta la storia dell’umanità: Giuda, Brutoe Cassio, responsabili della morte dei due veri rappresentanti di quei poteri che, all’epoca di Dante, si dividevano il mondo: il religioso (Gesù) e il civile (Giulio Cesare).
Per comminare le pene alle anime infami, il poeta ricorre al sistema del contrappasso: in base a quello che di male avevano commesso nella vita, così pagheranno per l’eternità. I lussuriosi, ad esempio, lasciatisi trascinare dall’impeto delle passioni, sono sbattuti di qua e di là da venti fortissimi; i suicidi, che avevano voluto privarsi con violenza del loro corpo, sono imprigionati in alberelli secchi e brutti; i lusingatori, dopo aver coperto tutti di belle parole, false come loro, sono immersi nella merda, anche oltre il collo. Dante non si preoccupa affatto di usare un linguaggioadatto a questo luogo: bestemmie, male parole e mandate affanculo, lungo i canti, sono all’ordine del giorno, anzi, della notte, visto il posto. L’intera cantica, con i suoi dannati, è pervasa da una negatività, da un buio, da un rumore assordante e da una puzza così forte da apparire reale e da sembrare vera, soprattutto a quanti ne leggevano allora. Nonostante ciò, da questo vallone di pianti, di strilli e di tormenti vengono fuori, sublimate, figure memorabili, rimaste nella storia della letteratura mondiale: Paoloe Francesca, amanti anche nella dannazione, Farinata degli Uberti, valoroso nemico ghibellino dei guelfi di Dante, Pier delle Vigne, il consigliere dell’imperatore Federico II di Svevia, Brunetto Latini, il maestro di gioventù del poeta, Ulisse, che invitò i compagni a seguir virtute e canoscenza, e il conte Ugolino della Gherardesca, di cui colpisce, ancora oggi, la fine orrenda, insieme con i figli, nella Torre della Muda.
Eugenio Pacelli, asceso al soglio pontificio col nome di Pio XII, è stato il 260° papa della Chiesa Cattolica Romana. Nato a Roma, il 2 marzo 1876, fu eletto papa nel 1939. Segretario di Stato di Pio XI, tentò, in tutti i modi, di scongiurare la Seconda guerra mondiale. Morì il 9 ottobre 1958.
Il breve radiomessaggio Ecco alfine terminata fu trasmesso dalla Radio Vaticana due giorni dopo la resa della Germania nazista (7 maggio 1945) e la fine della guerra in Europa. Nel mondo, invece, essa si sarebbe conclusa soltanto nell’agosto successivo, dopo lo sganciamento delle prime bombe atomiche in Giappone, evento apocalittico, sul quale Pio XII non si pronunciò pubblicamente. Il messaggio costituì un sintetico bilancio delle distruzioni e degli orrori della guerra. Mancò un riferimento esplicito al dramma dell’Olocausto. Di qui, anche la polemica, mai spenta, sui silenzi e i dilemmi di Pio XII. La guerra, finalmente, era finita. Essa aveva accumulato un caos di rovine, materiali e morali. Bisognava, da quel momento, riedificare il mondo. Il primo elemento della restaurazione sarebbe dovuto essere il ritorno a casa, pronto e rapido, di tutti i prigionieri, degli internati, dei combattenti e dei civili. Ognuno si sarebbe dovuto mettere al lavoro per la ricostruzione, animato dal generoso e indistruttibile amore per il prossimo. Se ci si fosse limitati a considerare soltanto l’Europa, ci si sarebbe ritrovati dinanzi a problemi e difficoltà giganteschi, che era necessario superare, per aprire il cammino ad una pace vera, la sola che potesse essere duratura. Essa, infatti, non sarebbe potuta fiorire, se non in un’atmosfera di giustizia e di lealtà, congiunte con la fiducia e la comprensione reciproche. Il mondo avrebbe evitato il ritorno della guerra, vi avrebbero regneranno la vera e stabile fratellanza universale e la pace soltanto se gli uomini avessero avuto un cuore nuovo e un nuovo spirito, seguendo i precetti della legge di Dio e mettendoli in pratica. Il radiomessaggio natalizio La coesistenza nel timore, nell’errore e nella verità rappresentò una delle riflessioni più approfondite e coerenti di Pio XII sulla guerra fredda, in cui, talvolta, fu accusato dalla stampa socialcomunista di essere coinvolto, e, più in generale, sui rapporti tra i due blocchi. Il radiomessaggio, pur senza espliciti riferimenti, tenne conto del passaggio dalla guerra fredda alla pace fredda, cioè, dalla prima timida distensione internazionale, a seguito della morte di Stalin, nel 1953. Il pontefice rivendicò il compito di offrire un ponte spirituale e cristiano di collegamento fra le due opposte sponde dell’Europa. Criticò, con decisione, la coesistenza nel timore, così come la coesistenza nell’errore, che finivano per pregiudicare la possibilità stessa di una coesistenza nella verità. Nel sedicesimo Natale del proprio pontificato, secondo quanto era assicurato da molti, alla guerra fredda si era sostituito un periodo di distensione chiamato, non senza ironia, pace fredda. Questo, però, rappresentava soltanto un breve passo, nella faticosa maturazione della pace. Nel mondo della politica, per pace fredda si intendeva la mera coesistenza di popoli diversi, sostenuta dal vicendevole timore e dal disinganno reciproco. La semplice coesistenza non meritava il nome di pace. La pace fredda rappresentava soltanto una calma provvisoria, la cui durata era condizionata dalla sensazione mutevole del timore e dal calcolo oscillante delle forze presenti. Esaminando le manchevolezze, che impedivano alla pace fredda di essere pace vera e duratura emergevano: La coesistenza del timore: il fondamento su cui poggiava lo stato di relativa calma era il timore. Ciascuno dei gruppi nei quali era diviso il mondo, tollerava che esistesse l’altro, perché non voleva perire egli stesso. Evitando, così, il rischio di una guerra totale, ambedue i gruppi non convivevano, ma esistevano. Non era uno stato di guerra, ma neppure di pace: una fredda calma. In ciascuno dei due gruppi era assillante il timore per la potenza militare ed economica dell’altro, e vivissima l’apprensione per gli effetti catastrofici delle nuovissime armi. L’assurdo più evidente, che emergeva da questa situazione era che la prassi politica, pur paventando la guerra, le concedeva tutto il credito, come se fosse l’unico espediente per sussistere e l’unica regolatrice dei rapporti internazionali. Appariva assurda quella dottrina secondo la quale la guerra fosse lo sbocco necessario degli insanabili dissensi tra due Paesi. Essa era stata considerata come un dado, da giocare con maggiori o minori cautela e destrezza, non come un fatto morale, che impegnava la coscienza e le superiori responsabilità. Occorsero le rovine prodotte dalla Seconda guerra mondiale perché mostrasse il suo vero volto. La coesistenza nel timore aveva soltanto due prospettive dinanzi a sé: o si sarebbe contratta sempre di più in una paralisi glaciale della vita internazionale, i cui gravi pericoli erano immediatamente prevedibili, oppure si sarebbe innalzata a coesistenza nel timore di Dio, e, poi, a pace vera, ispirata e vagliata dal suo ordine morale. La coesistenza dell’errore: nonostante la guerra fredda, e, allo stesso modo, la pace fredda, mantenessero il mondo in una dannosa scissione, ciò non impedì che pulsasse, in esso, un intenso ritmo di vita, che si svolgeva, quasi esclusivamente, nel campo economico. Era innegabile che l’economia, avvalendosi dell’incalzante progresso della ricerca moderna, avesse raggiunto sorprendenti risultati, tali da far prevedere una trasformazione profonda della vita dei popoli. Ma era altrettanto vero che essa, con la sua capacità apparente di produrre beni illimitati, esercitasse sui contemporanei un fascino superiore alle sue possibilità. L’errore di una simile fiducia, riposta nella moderna economia, accomunava, ancora una volta, le due parti in cui era diviso il mondo. In una di esse si insegnava che, se l’uomo aveva dimostrato tanto potere da creare il meraviglioso complesso tecnico-economico di cui si vantava, avrebbe avuto anche le capacità di organizzare la liberazione della vita umana da tutte le privazioni e da tutti i mali di cui soffriva; dall’altra parte, invece, guadagnava terreno la concezione che dall’economia e, in particolare, dal libero scambio, si dovesse attendere la soluzione del problema della pace. Entrambe le dottrine apparivano, a Pio XII, infondate e il corso degli eventi aveva dimostrato quanto fosse ingannevole l’illusione di confidare la pace al solo libero scambio. In una delle parti coesistenti nella pace fredda, la libertà economica, tanto esaltata, ancora non esisteva; nell’altra, era addirittura rigettata come principio assurdo. A prescindere da queste considerazioni, però, era necessario persuadersi che le relazioni economiche sarebbero stati fattori di pace, in quanto obbedienti alle norme del diritto internazionale. La coesistenza nella verità: benché fosse triste notare come la frattura della famiglia umana si fosse prodotta, dall’inizio, tra uomini che conoscevano e adoravano il medesimo Salvatore, nondimeno c’era fiducia che nel Suo nome, si potesse gettare un ponte di pace tra le opposte sponde e ristabilire il vincolo comune spezzato. Il pontefice sperava che la coesistenza avvicinasse l’umanità alla pace e, per giustificare questa attesa, dovesse essere, in qualche modo, una coesistenza nella verità. Non si poteva costruire, nella verità, un ponte tra questi due mondi separati, se non appoggiandosi sugli uomini che vivevano nell’uno e nell’altro, e non sui loro regimi e sistemi sociali. Molti si offrivano per preparare la base dell’unità umana, ma, poiché essa sarebbe dovuta essere di natura spirituale, non erano certamente qualificati per questa opera gli scettici e i cinici, che riconducevano le più anguste verità e i più alti valori spirituali alla scuola di un materialismo, più o meno velato. Né lo erano quelli che non riconoscevano verità assolute e non accettavano obblighi morali, sul terreno della vita sociale. Nell’attesa che il ponte spirituale cristiano, già esistente tra le due sponde, prendesse più efficace consistenza, i cristiani dei Paesi dove si godeva ancora del dono della pace, dovevano fare il possibile per affrettare l’ora del suo ristabilimento universale. Essi dovevano persuadersi che la verità dovesse essere vissuta e applicata in tutti i campi della vita, non restare chiusa in loro stessi. Più gravi conseguenze, concluse Pio XII, avrebbe causato all’ordine sociale e politico, la condotta dei cristiani che non avessero osservato i propri obblighi sociali nel maneggio dei loro affari economici.
Eugenio Pacelli, asceso al soglio pontificio col nome di Pio XII, è stato il 260° papa della Chiesa Cattolica Romana. Nato a Roma, il 2 marzo 1876, fu eletto papa nel 1939. Segretario di Statodi Pio XI, tentò, in tutti i modi, di scongiurare la Seconda guerra mondiale. Morì il 9 ottobre 1958.
Il radiomessaggio di Pio XII del 24 dicembre 1941 è conosciuto anche con l’espressione Il nuovo ordine internazionale. Il mezzo radiofonico permise al pontefice di comunicare con il mondo intero. Il contenuto, quindi, ancor più che il linguaggio, ne furono, in qualche modo, condizionati. Il radiomessaggio si collocò nel contesto del terribile inverno di una guerra, ormai estesa all’intera Europa, particolarmente violenta e sanguinosa nell’area orientale e balcanica. In una prospettiva di pace e di nuovo ordine internazionale, cinque erano, secondo il pontefice, gli elementi che sarebbero dovuti essere superati: la mortificazione dei diritti dei popoli; l’oppressione delle minoranze nazionali; gli accaparramenti e i monopoli economici; la guerra totale e la corsa agli armamenti e, infine, la persecuzione religiosa. Il nuovo ordinamento, che tutti i popoli desideravano fosse attuato, dopo le rovine della guerra, si sarebbe dovuto innalzare sulla vetta incrollabile e immutabile della legge morale, manifestata da Dio attraverso l’ordine naturale, da lui scolpita nei cuori degli uomini e la cui osservanza sarebbe dovuta essere promossa dall’opinione pubblica di tutte le Nazioni e di tutti gli Stati, con tale unanimità di voce e di forza, che nessuno potesse più osare di porla in dubbio o attenuarne il vincolo obbligante. Ecco, desunti dal messaggio del papa, i presupposti essenziali di un ordine internazionale che, assicurando a tutti i popoli una pace giusta e duratura, arrecasse benessere e prosperità. Nel campo di un nuovo ordinamento, fondato sui principi morali, non vi era posto per la lesione della libertà, dell’integrità e della sicurezza di altre Nazioni, qualunque fosse la loro estensione territoriale o la loro capacità di difesa. Se era inevitabile che i grandi Stati tracciassero il cammino per la costituzione di gruppi economici tra essi e le Nazioni più piccole e deboli, appariva incontestabile il diritto di queste ultime al rispetto della loro libertà nel campo politico, alla efficace custodia di quella neutralità nelle contese fra gli Stati, alla tutela del loro sviluppo economico, poiché soltanto in questo modo avrebbero potuto conseguire adeguatamente il bene comune e il benessere materiale e spirituale dei popoli. Inoltre, in questo nuovo ordinamento, non ci sarebbe stato posto per l’oppressione aperta e subdola delle peculiarità culturali e linguistiche delle minoranze nazionali, per l’impedimento e la contrazione delle loro capacità economiche, per la limitazione o l’abolizione della loro naturale produttività. Quanto più coscienziosamente l’autorità dello Stato avesse rispettato i diritti delle minoranze, tanto più certamente ed efficacemente avrebbe potuto esigere dai loro membri il leale compimento dei doveri civili, comunicagli altri cittadini. Né avrebbero trovato posto i calcoli egoistici, tendenti ad accaparrarsi le risorse economiche e le materie di uso comune, in modo che le Nazioni meno favorite dalla natura, ne restassero sprovviste. A tale proposito, si palesava necessario che una soluzione equa a questa questione, decisiva per l’economia del mondo, fosse trovata metodicamente e progressivamente, con le garanzie necessarie, traendo insegnamenti dalle mancanze e dalle omissioni del passato. Se nella pace futura non si fosse affrontata questa questione, sarebbe rimasta, nelle relazioni tra i popoli, la radice del contrasto, che avrebbe portato, inevitabilmente, a nuovi conflitti. Ancora, non ci sarebbe stato posto, una volta eliminati i più pericolosi focolai di conflitti armati, per una guerra totale, né per una sfrenata corsa agli armamenti. La sciagura di una guerra mondiale, con le sue rovine economiche e sociali e le sue aberrazioni morali, non avrebbe dovuto rovesciarsi sull’umanità per la terza volta. Per tutelare l’umanità da questo pericolo, sarebbe stato necessario procedere ad una limitazione progressiva e adeguata degli armamenti. Lo squilibrio tra un esagerato armamento degli Stati potenti e il deficiente armamento dei deboli, creava un pericolo per la conservazione della pace tra i popoli e consigliava di scendere ad un ampio e proporzionato limite nella fabbricazione e nel possesso di armi offensive. Infine, nel nuovo ordinamento prospettato dal papa, non ci sarebbe dovuta essere alcuna persecuzione della religione e della Chiesa. Dalla fede in Dio era generata la vigoria morale che investiva tutto il corso della vita. La fede non rappresentava soltanto una virtù ma era la porta attraverso la quale entravano nell’anima tutte le virtù. La fede era necessaria ai governanti così come ai semplici cittadini, per costruire una nuova Europa e un nuovo mondo, dopo la guerra. Per quanto riguardava le questioni sociali, che, a guerra terminata, si presentarono più acute, Pio XII, così come i suoi predecessori, individuò delle soluzioni le quali, però, avrebbero potuto portare i loro pieni frutti, soltanto se uomini di Stato e popoli, datori di lavoro e operai, fossero stati animati dalla fede in Dio.
A Napoli abbiamo un detto: “La vacca si è tirata le zizze”, quando vogliamo significare la fine di una qualsiasi situazione che provocava profitto, godimento o felicità. Lo strapotere della Chiesa Cattolica Romana, che durava sin dai primi secoli del Medioevo, dovette pur finire e l’inizio della fine cominciò in Germania, detta, dagli inizi del ‘500, la mucca personale del papa, perché nei suoi territori, grazie alla vendita delle indulgenze, i successori di San Pietro e i loro dipendenti, stavano raccogliendo la maggior parte dei danari per la costruzione dell’imponente basilica, dedicata al principe degli apostoli, a Roma. Ecco perché, il richiamo al detto napoletano. Chi fu, dunque, a tirare le zizze alla vacca? Fu un monaco agostiniano, chiamato Martin Lutero. Martin Luther (immagine a destra), questi il nome e cognome in tedesco, nacque a Eisleben, l’1 novembre 1483. Studiò all’Università di Erfurt e, a 22 anni, entrò in convento. Qui, si fece subito notare per l’acume e la vis polemica e fu segnalato dai suoi superiori al principe di Sassonia Federico III, che cercava professori per la nuova Università a Wittenberg. Lutero vi insegnò dialettica e fisica fino a che, inviato a Roma per risolvere questioni interne al suo ordine, ebbe modo di constatare quanto fosse in rovina la Chiesa, nel senso che sembrava tutto tranne un’istituzione quale sarebbe dovuta essere agli occhi di Dio e degli uomini e, consapevolmente o inconsapevolmente, cambiò la storia sociale, politica e religiosa del mondo. La goccia che fece traboccare il vaso fu la questione delle indulgenze. Cosa era successo: per racimolare i soldi per finanziare la costruzione della Basilica di San Pietro a Roma, i papi promettevano la remissione dei peccati per i vivi e gli sconti in Purgatorio per i morti, a quanti avessero pagato somme di danaro in proporzione alle proprie colpe. L’affare era molto redditizio, perché la raccolta delle indulgenze era data in appalto ai potenti locali, che ingaggiarono predicatori molto furbi e abili a raggirare i fedeli. Il caso più eclatante fu quello di Alberto di Hohenzollern, principe di Brandeburgo, il quale aveva pagato diecimila ducati al papa per avere l’arcivescovato di Magonza e che, dalla vendita delle indulgenze, avrebbe ricavato il necessario da restituire a chi gli aveva prestato i soldi, più un’altra consistentissima offerta per la basilica. Questi, poté contare sul più abile ciarlatano e truffatore di tutta la Germania del tempo, migliore di Vanna Marchi e della figlia messe insieme: il frate domenicano Johann Tetzel. Fu così bravo a vendere “perdoni su misura” che i principi confinanti con il regno del suo datore di lavoro gli impedirono di entrare nei loro territori, perché anch’essi stavano allattando alla grande la mucca delle indulgenze. Un giorno, il domenicano raggiunse alcune parrocchie vicine a quella di Lutero per vendere le indulgenze ai suoi parrocchiani. Quando questi si presentarono da lui con la pergamena benedetta, dicendogli che non avrebbero dovuto più pentirsi e confessarsi, perché tanto era stato messo tutto a posto con qualche soldo, Lutero non ci vide più e, il 31 ottobre 1517, affisse sulla porta della Cattedrale di Wittenberg le famose 95 Tesi contro le indulgenze. Guai, però, a interferire negli affari della Chiesa Cattolica!, Nonostante le Tesi luterane fossero soltanto contro le indulgenze e non contro il papa o la Chiesa, i tuoni da Roma non tardarono ad arrivare. Sulle prime, papa Leone X fece solo un richiamo ufficiale ai superiori di Lutero, affinché lo tenessero buono e lasciassero che i traffici proseguissero in santa pace ma, poi, qualche tempo dopo, lo fece chiamare a Roma per discutere, de visu, delle sue idee. Per intervento del principe Federico, che lo proteggeva, il processo al monaco fu trasferito in Germani. Le cose, tuttavia, non cambiarono, perché Lutero non ritrattò un bel niente davanti al vicario del papa. Leone X (immagine a destra) non perse tempo e, nel 1520, emanò una bolla, Exurge Domine, con la quale invitava Lutero a ritrattare e a presentarsi a Roma, pena la scomunica. Il riformatore, per tutta risposta, la bruciò pubblicamente, insieme con libri di diritto canonico. La miccia era stata accesa e la Germania era in subbugli. Il nuovo imperatore Carlo V appoggiò la politica del papa, il quale, nel frattempo, aveva scomunicato Lutero, e, nella dieta di Worms, lo giudicò eretico, nemico del popolo, mise al bando tutte le sue dottrine e, in più, chi l’avesse ucciso non sarebbe andato in galera. La situazione, per lui, si fece pericolosissima, tanto che il suo protettore ne inscenò il rapimento, nascondendolo nel suo castello e facendolo stare tranquillo per un po’. Le idee di Lutero contagiarono anche principi, nobili senza feudo, cavalieri senza cavallo e morti di fame. Ci furono guerre e battaglie, con numerosissimi morti e feriti. Lutero, dal canto suo, disapprovò queste violenze, si dedicò alla scrittura, abbandonò l’abito monacale, sposò una ex suora, ebbe sei figli e costruì tutto l’impianto dottrinale del luteranesimo o protestantesimo. La rottura con la Chiesa di Roma fu definitiva. Questa, però, tentò di riorganizzarsi e, alla Riforma Protestante, fece seguire la Controriforma Cattolica. Come si dispose, quali misure adottò, come cercò di contrastare i protestanti? L’atto più importante e significativo fu la convocazione del Concilio di Trento. Nel 1545, papa Paolo III aprì questa commissione di cardinali, riunitasi per cambiare tutto quello che non andava e per riaffermare quello che a loro parere doveva rimanere com’era. In prima istanza, il Concilio sconfessò tutte le dottrine dei protestanti, giudicandoli eretici e dichiarando loro guerra. Per quel che riguardava se stessa, serrò i ranghi, pretese una maggiore istruzione, a cominciare dai preti di campagna che spesso non conoscevano il latino e, in materia teologica, erano molto debili, obbligò i vescovi a risiedere nelle proprie diocesi, confermò l’assolutezza di alcuni dogmi, come la transustanziazione, ovvero quel miracolo secondo cui l’ostia e il vino nel calice diventano veramente il corpo e il sangue di Cristo, ribadì il valore dei sacramenti, che pure erano stati messi in dubbio da Lutero, e rinvigorì il culto dei santi, delle reliquie e della Madonna. Cercò, poi, di porre fine alle oscenità che erano perpetrate alla corte dei papi, come durante il periodo di papa Borgia e altri. Il successore, papa Paolo IV, fu molto più pratico, rafforzò l’Inquisizione, diretta da sei cardinali e presieduta dal pontefice stesso, con i suoi tribunali sparsi dovunque, e stilò il primo Indice dei libri proibiti nel 1559: in questo catalogo furono inseriti il Decameron di Giovanni Boccaccio, il De Monarchia di Dante, tutte le opere di Niccolò Machiavelli e Pietro Aretino, le novelle di Masuccio Salernitano, tutte le Bibbie tradotte in volgare, le poesie di Luigi Pulci e Francesco Berni eccetera, eccetera, eccetera. Ho citato solo alcuni tra i più famosi ma, in verità, la lista dell’Indice era più lunga di quella degli iscritti alla P2. Torture e roghi furono distribuiti in tutta Europa con precisione scientifica. Un’altra importante misura fu la creazione di nuovi ordini monastici: i Cappuccini, i Teatini, i Somaschi, i Barnabiti, le Orsoline e i Gesuiti, ordine fondato da Ignazio di Loyola, con l’intento di essere da modello di vita per i fedeli, di istruirli e di essere più vicini alle loro esigenze. Per quanto riguarda la letteratura, chi si mise a scrivere da quel momento in poi dovette stare molto attento. Bastava, infatti, soltanto possedere un libro proibito, che le bestie dell’Inquisizione intentavano un processo, torturavano e bruciavano vivi. L’elenco dei martiri sarebbe troppo lungo, ma vorrei ricordare Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galileo Galilei, assassinati o torturati per le loro idee. Il mestiere di esprimere le proprie idee le quali, guarda caso, il più delle volte erano contrarie, se non antitetiche, a quelle di Santa Romana Chiesa, divenne più pericoloso di quello del soldato, come se quasi si morisse più facilmente pensando e scrivendo che combattendo, ma, nonostante ciò, ci fu ci continuò a usare la ragione, a voce o per iscritto. A questi uomini, che furono e sono i veri santi, devono andare le nostre preghiere e le nostre lodi. In questa cupa, tremenda, terribile, infame e angosciosa desolazione culturale voluta dalla censura della Chiesa Cattolica, contrapposta all’oro e alle decorazioni barocche degli edifici sacri, che si andavano costruendo in quegli anni, vi sono stati autori dei quali vi parlerò certamente in qualche altra occasione. Queste mie ultime parole, sicuramente forti, non devono, però, essere prese alla lettera: la desolazione culturale non vi fu neppure nel Medioevo, figuratevi nel Rinascimento. Ma, come ho già detto, il Vaticano condizionò così tanto la vita culturale europea di quel periodo, che, per lo meno, tardò l’esplosione delle nuove idee, quelle che saranno il lievito della Rivoluzione scientifica e, più tardi, dell’Illuminismo. Come vedete, per fortuna, il corso del pensiero e della ragione non poté essere arrestato, neppure da una mappata di… beh, lasciamo perdere!