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La metamorfosi del reale

Il potere del digitale e dell’Intelligenza Artificiale
nel rimodellare l’essenza dell’esistenza 

 

 

 

Negli ultimi decenni, la nostra società ha vissuto una trasformazione profonda, tanto evidente quanto difficile da comprendere nella sua totalità. Il digitale e l’Intelligenza Artificiale (IA) non stanno solo mutando le dinamiche della nostra vita quotidiana, ma sembrano anche incidere sulla stessa struttura ontologica della realtà. Non si tratta più soltanto di come noi, in quanto esseri umani, interpretiamo e comprendiamo il mondo, ma di un vero e proprio sconvolgimento che coinvolge l’essenza del reale. In questo contesto, ci troviamo di fronte a un cambiamento che investe le fondamenta stesse di ciò che consideriamo come “reale”.
Fino a non molto tempo fa, la realtà era concepita come qualcosa di statico, un insieme di fatti e fenomeni esterni a noi, che esistono indipendentemente dalla nostra percezione. Questo modello realistico, che ha dominato la filosofia occidentale fin dall’antichità, vedeva la realtà come un dato, qualcosa di oggettivo e immutabile. L’avvento del digitale ha iniziato a mettere in discussione questa prospettiva.
Con la digitalizzazione, le interazioni umane, la conoscenza e persino l’esperienza stessa si sono progressivamente smaterializzate. Pensiamo alla nostra presenza online: profili social, avatar nei mondi virtuali, simulazioni e modelli digitali. Questi nuovi modi di essere e interagire generano interrogativi sul confine tra ciò che è “reale” e ciò che è “virtuale”. Il virtuale non è più solo una copia o una rappresentazione del reale, ma diventa un nuovo tipo di realtà, con proprie regole e leggi, capace di influenzare il mondo fisico e la nostra percezione di esso.
L’Intelligenza Artificiale aggiunge un ulteriore livello di complessità a questa trasformazione. Non solo ci permette di elaborare e comprendere enormi quantità di dati, ma, in molti casi, produce delle realtà che sono autonome rispetto al controllo umano. Gli algoritmi di machine learning, ad esempio, non si limitano a replicare modelli già esistenti: sono capaci di creare nuove strutture, di “apprendere” e di fare previsioni che modificano il mondo che ci circonda. Ciò porta a un cambiamento profondo nel nostro rapporto con la realtà. Non siamo più i soli a costruire il significato del mondo: le macchine contribuiscono in modo attivo a creare la nostra esperienza del reale. Ciò che era visto come un compito esclusivo della mente umana – l’interpretazione e l’organizzazione dei fenomeni – è ora condiviso con entità digitali autonome. Questa co-creazione solleva domande di natura ontologica: cosa significa “essere reale” in un mondo dove l’IA genera soluzioni, previsioni e persino emozioni artificiali?


Uno degli aspetti più evidenti di questo cambiamento ontologico è la crescente fluidità della realtà. Il concetto di identità, sia a livello personale che sociale, è messo alla prova dalla capacità delle tecnologie digitali di manipolare, replicare e ridefinire l’informazione. Gli esseri umani interagiscono quotidianamente con simulazioni di sé stessi, con versioni virtuali che possono essere modificate a piacimento. Il confine tra l’autenticità e la simulazione diventa sempre più labile. Inoltre, con l’avvento delle tecnologie immersive come la realtà aumentata e virtuale e con lo sviluppo di algoritmi capaci di generare contenuti sempre più indistinguibili dalla realtà, il mondo virtuale non è più un semplice riflesso del mondo fisico. La differenza tra ciò che è “vero” e ciò che è “falso” diventa più sfumata. Si vive, si lavora e si interagisce in una realtà ibrida, dove l’informazione digitale e fisica si fondono in un continuum che rende difficile stabilire punti fermi ontologici.
In questo nuovo scenario, la realtà non può più essere vista come qualcosa di stabile e predefinito, quanto piuttosto quale processo dinamico in continuo divenire. Il digitale e l’Intelligenza Artificiale non si limitano a sconvolgere la nostra percezione della realtà, ma ne ridefiniscono attivamente le strutture. L’idea che la realtà sia una costruzione fissa, eterna, sta cedendo il passo a una visione più fluida e malleabile, dove le tecnologie non solo interpretano il mondo, ma contribuiscono a plasmarlo.
La natura stessa del reale si trasforma in qualcosa di contingente e malleabile, influenzata da forze artificiali che non rispondono più solo ai criteri della percezione umana. Le leggi che governano la realtà, come il tempo, lo spazio e la causalità, possono essere reinterpretate o ridefinite attraverso la tecnologia, come accade con gli algoritmi predittivi o i modelli di simulazione avanzata.
Il cambiamento ontologico della realtà solleva inevitabilmente questioni etiche e filosofiche, che approfondirò in un prossimo articolo dedicato. Se la realtà può essere manipolata e ricostruita attraverso la tecnologia, quali sono i limiti? Chi detiene il potere di determinare cosa è reale e cosa no? Come cambia la nostra responsabilità morale in un mondo dove le macchine partecipano attivamente alla creazione della realtà?
Le risposte a queste domande non sono semplici. Tuttavia, è chiaro che ci troviamo di fronte a una svolta storica. Il digitale e l’Intelligenza Artificiale non solo ampliano la nostra capacità di conoscere e intervenire nel mondo, ma alterano le stesse basi del nostro essere nel mondo. La realtà, in definitiva, non è più un dato, ma un processo che si evolve insieme alle tecnologie che la mediano.
Il cambiamento ontologico della realtà, indotto dalle tecnologie digitali e dall’Intelligenza Artificiale, rappresenta una delle sfide filosofiche e culturali più significative del nostro tempo. Non ci troviamo più semplicemente a dover comprendere una realtà esterna attraverso i nostri strumenti cognitivi, ma siamo chiamati a ripensare cosa significhi essere, esistere e conoscere in un mondo dove la tecnologia gioca un ruolo attivo nella costruzione del reale. La realtà non è più una struttura statica, ma un campo di forze dinamiche, costantemente ridefinite dall’interazione tra umano e artificiale.

 

 

 

Il paradosso del “nulla”

Come il vuoto dà forma all’universo

 

 

 

Il concetto di “nulla” è da sempre al centro di numerose riflessioni filosofiche, costituendo un tema di grande complessità concettuale. Il “nulla” non è semplicemente l’assenza di qualcosa, ma una vera e propria astrazione, difficile da definire in termini concreti. Uno dei più celebri tentativi di definizione lo dobbiamo al filosofo presocratico Parmenide, il quale lo contrappone radicalmente all’essere: “L’essere è, e non può non essere; il non-essere non è, e non può in alcun modo essere”. Questa affermazione esprime la convinzione che il nulla, inteso come totale assenza di esistenza, sia impensabile. Parmenide, infatti, nega la possibilità stessa del nulla: solo l’essere è, mentre il non-essere, ovvero il nulla, non ha alcuna possibilità di esistenza o di pensiero. Questa visione ha dominato gran parte della filosofia occidentale, stabilendo una dicotomia tra l’essere, percepibile e concreto, e il nulla, un concetto astratto e paradossale.
Nonostante l’apparente similitudine tra il nulla e il vuoto, questi due concetti non sono sinonimi. Il vuoto, infatti, ha una lunga storia di sviluppo, sia in ambito filosofico sia scientifico, e ha sempre mantenuto una certa distanza dal nulla parmenideo. In particolare, nell’immaginario occidentale moderno, si è spesso associato il vuoto al nulla, specialmente a partire dalla tradizione giudaico-cristiana, che afferma che l’universo sia stato creato “ex nihilo”, cioè dal nulla. Questa visione ha influenzato profondamente il pensiero culturale e cosmologico per secoli.
Tuttavia, nella fisica contemporanea, il vuoto non è affatto assimilabile al nulla. Al contrario, il vuoto è una realtà fisica ben definita: non si tratta di uno spazio completamente privo di materia o energia, ma piuttosto di una condizione in cui esistono fluttuazioni quantistiche e particelle virtuali che emergono e scompaiono in modo imprevedibile. La fisica quantistica, infatti, descrive il vuoto come un campo in cui le particelle possono apparire spontaneamente per brevi istanti di tempo, generando una certa quantità di energia. Quindi, il vuoto è tutt’altro che un’assenza totale: è una realtà dinamica e complessa, che rende possibile l’emergere della materia e delle forze fondamentali dell’universo.
Il concetto di vuoto, inoltre, ha profondi legami con lo zero, un’altra astrazione che ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della scienza e della matematica. Il termine “zero” deriva dal latino zephirum, che a sua volta è stato adattato dal termine arabo ṣifr, grazie ai contatti culturali tra il mondo occidentale e quello islamico. Tuttavia, furono gli indiani i primi a formulare il concetto di zero come una quantità matematica precisa, associata al vuoto.
Il primo uso documentato del concetto di zero-vuoto risale al 458 d.C., in un testo sanscrito chiamato Lokavibhaga, il cui significato letterale è “Le parti dell’universo”. È interessante notare come questo antico testo trattasse di cosmologia, suggerendo che fin dalle origini vi fosse una stretta connessione tra il concetto di vuoto e la nascita dell’universo. Questa associazione rifletteva una comprensione del vuoto non come un’assenza completa, ma come un terreno fertile dal quale poteva emergere la creazione. Nella visione indiana, lo zero non era qualcosa di negativo o di pericoloso, ma un elemento fondamentale per comprendere la struttura dell’universo, un concetto che avrebbe influenzato profondamente la scienza e la matematica nei secoli successivi.


Mentre nelle culture indiana e araba il vuoto e lo zero erano visti come concetti utili e perfino necessari, la filosofia greca antica aveva una visione molto diversa. Per i greci, l’idea di vuoto, così come quella di infinito e zero, era profondamente inquietante. Aristotele, per esempio, negava l’esistenza del vuoto, sostenendo che la natura “aborrisce il vuoto” (horror vacui). Questa paura del vuoto era legata alla convinzione che uno spazio privo di materia fosse illogico e destabilizzante per l’ordine cosmico.
Anche lo zero era visto con sospetto. Platone e Aristotele, tra gli altri, consideravano pericolosi quei concetti che sfidavano la logica lineare e razionale della filosofia greca. Per questo, lo zero e il vuoto furono relegati a un ruolo marginale nel pensiero occidentale per molti secoli. Solo con l’introduzione del pensiero scientifico moderno, a partire dal Rinascimento, queste idee furono rivalutate.
Tale diffidenza per lo zero e il vuoto ha avuto conseguenze durature nella cultura occidentale. La loro esclusione dal pensiero dominante è stata in parte responsabile di un ritardo nello sviluppo di concetti scientifici fondamentali, come l’infinito matematico e le teorie sull’origine dell’universo. Il pregiudizio culturale contro il vuoto e lo zero, in fondo, ha impedito per molto tempo una piena comprensione di come funzionano le leggi fisiche dell’universo.
Oggi, per comprendere pienamente il funzionamento dell’universo, è necessario superare questi pregiudizi culturali. La scienza moderna ha dimostrato che l’universo può emergere dal vuoto, grazie ai princìpi della fisica quantistica. Il modello cosmologico del “Big Bang”, ad esempio, suggerisce che tutto ciò che conosciamo è emerso da uno stato di densità infinita e spazio vuoto. Questa teoria rivoluzionaria sfida la visione tradizionale di un universo statico e immutabile e ci invita a ripensare il vuoto non come assenza, ma come potenziale creativo.
Il vuoto, dunque, è ben lontano dall’essere un concetto inutile o temuto. Esso rappresenta una condizione necessaria per il divenire, per la nascita e l’evoluzione dell’universo. L’idea che l’universo possa nascere dal vuoto non è solo una teoria scientifica, ma una profonda riflessione filosofica che ci porta a riconsiderare il nostro rapporto con l’esistenza e il nulla. Intendere questo concetto significa abbandonare le paure e i pregiudizi culturali che per millenni hanno limitato la nostra comprensione, aprendo nuove possibilità per sondare i misteri dell’universo e della realtà stessa.

 

 

 

De l’infinito, universo et mondi di Giordano Bruno

Nel cuore dell’infinito: dialoghi sull’universo senza confini
e sull’uomo nell’abbraccio del cosmo

 

 

 

De l’infinito, universo et mondi (1584) costituisce una delle opere più affascinanti e radicali di Giordano Bruno, in cui il filosofo sviluppa le sue teorie cosmologiche, metafisiche e filosofiche. Questo testo, composto dall’autore nel suo “periodo londinese”, si articola come un dialogo suddiviso, a sua volta, in cinque dialoghi, una forma letteraria che riflette l’intento del filosofo di far convergere più voci, idee e prospettive, creando un discorso dinamico e interattivo. Bruno non si limita a esporre le sue dottrine, ma le mette in discussione attraverso le interazioni tra i vari personaggi e interlocutori, seguendo la tradizione dei dialoghi platonici.
Il primo tema cardine, che emerge già nel titolo, è quello dell’infinito. Bruno critica la concezione aristotelico-tolemaica di un universo finito e chiuso, limitato dalle sfere cristalline e governato da leggi statiche e immutabili. Propone, invece, un cosmo senza limiti, un’infinità che non solo sovverte le leggi della fisica del suo tempo, ma sfida anche le visioni religiose dominanti. Rifiuta l’idea di un mondo diviso tra la perfezione delle sfere celesti e l’imperfezione del mondo sublunare, affermando che l’infinito è ovunque e in ogni cosa. Non c’è un luogo “più elevato” rispetto a un altro; tutto è parte di una medesima realtà infinita. L’universo, quindi, non ha un centro e non ha confini, ma è un continuo, in cui ogni stella è un mondo e ogni mondo è abitato. Il primo dialogo, quindi, si snoda come una riflessione filosofica che, sebbene mascherata da questioni cosmologiche, nasconde una profonda implicazione metafisica: l’infinito non è solo spaziale, ma anche ontologico, un modo di pensare l’essere senza confini e senza gerarchie.


Il secondo grande tema di De l’infinito, universo et mondi è la teoria della pluralità dei mondi. Bruno rifiuta con forza l’idea che esista un solo mondo abitato, quello terrestre. I mondi sono infiniti, così come infiniti sono gli esseri che li abitano. Questa concezione non è soltanto una visione cosmologica rivoluzionaria, ma una sfida aperta alla teologia cristiana del tempo, che poneva la Terra e l’uomo al centro della creazione divina. Nella struttura dialogica dell’opera, l’autore non si limita a una mera esposizione scientifica; egli tratta la pluralità dei mondi come un’allegoria filosofica: la molteplicità del reale è specchio dell’infinita creatività dell’universo. Ogni mondo ha la sua propria natura, le sue leggi, i suoi abitanti, eppure tutti fanno parte dello stesso ordine universale. È come se Bruno intendesse dire che non esiste un “modello unico” di realtà, ma molteplici forme dell’essere, tutte ugualmente valide e degne di considerazione.
Altro aspetto centrale dell’opera è la critica all’antropocentrismo. Il filosofo smonta l’idea che l’uomo sia il fine ultimo della creazione o il punto focale dell’universo. Se l’universo è infinito, l’uomo non può essere il centro né il più importante tra gli esseri. Al contrario, è soltanto una parte di un cosmo immenso, in cui infiniti altri esseri vivono e si evolvono secondo leggi proprie. In questa visione, Bruno anticipa una nuova concezione dell’uomo e della sua posizione nel mondo, molto più umile e consapevole dei propri limiti. L’antropocentrismo crolla sotto il peso dell’infinità cosmica e della pluralità dei mondi, lasciando spazio a una visione più ecumenica, in cui tutte le forme di vita partecipano alla stessa grandezza dell’universo. Questo concetto è legato a una profonda riflessione etica e spirituale: l’uomo deve riconoscere la propria “piccolezza” e comprendere che la sua esistenza è parte di un ordine cosmico più vasto. La visione bruniana è quella di un cosmo vivente, in cui ogni cosa, ogni essere, è espressione di una divinità che pervade tutto, ma che non si manifesta in una forma rigida e prescrittiva, come nelle teologie tradizionali.
Un altro elemento fondamentale dell’opera è la dottrina panteistica, che Bruno sviluppa con grande forza nei vari dialoghi. Per lui, Dio è l’anima stessa dell’universo, non un’entità trascendente, ma una forza immanente che permea ogni cosa. Dio non è separato dalla creazione, ma è la sostanza stessa dell’infinito. Questa visione ribalta la tradizionale distinzione tra Creatore e creazione, tipica della teologia cristiana. Bruno non teme di propinare una visione eretica per il suo tempo: la divinità non è un re distante che governa dall’alto, ma è il principio vitale che scorre in ogni atomo, in ogni stella, in ogni essere vivente. L’infinito cosmico è, in un certo senso, la manifestazione del divino, ed è qui che si scorge il profondo spirito mistico che anima la sua filosofia.
Infine, Bruno conclude il suo percorso con una riflessione etica. Se l’universo è infinito e ogni essere fa parte di questo immenso organismo cosmico, allora ogni atto umano deve essere orientato verso l’armonia con l’universo stesso. La vera saggezza consiste nel riconoscere l’unità del tutto e nel vivere in accordo con la natura infinita dell’universo. L’uomo non deve più agire per imporre il suo dominio su una natura inferiore, ma per inserirsi in essa con rispetto e consapevolezza.
Con De l’infinito, universo et mondi, Giordano Bruno ci consegna un’opera complessa e rivoluzionaria, che non solo sfida le concezioni cosmologiche del suo tempo, ma sostiene una visione radicalmente nuova dell’essere umano, della natura e del divino. Con la sua struttura dialogica e le sue dottrine innovative, Bruno non solo anticipa molte delle teorie scientifiche moderne, ma apre la strada a una riflessione esistenziale che ci invita a ripensare il nostro posto nell’universo, non più come dominatori, ma come partecipanti di un infinito meraviglioso e misterioso.

 

 

 

 

La metamorfosi del rapporto tra filosofia e scienza

 Dalla metafisica seicentesca ai mondi creati dalla tecnica

 

 

di Riccardo Piroddi

 

 

 

Nel Seicento, all’interno dei grandi sistemi filosofici di Spinoza e Leibniz, la metafisica occupava una posizione centrale e privilegiata, costituendo il fondamento per ogni altra forma di conoscenza, compresa la scienza. La filosofia non si limitava a riflettere sui princìpi primi, ma forniva anche un quadro complessivo entro il quale la scienza trovava il suo posto. La metafisica, in altre parole, comprendeva ancora al suo interno lo scientifico, considerandolo come uno dei suoi rami. In questa prospettiva, la scienza era come una branca dell’albero secolare della filosofia, con la metafisica che fungeva da radice e tronco. Tuttavia, questo schema unitario iniziò a frantumarsi con la filosofia di Kant e i suoi sviluppi successivi.
Con Kant, infatti, si verificò una svolta decisiva: la filosofia perse il ruolo di fondamento ontologico della scienza e si trasformò in una riflessione sui presupposti del sapere scientifico. Kant cercò di comprendere e illuminare le basi dell’indagine scientifica, sforzandosi di trovare un’unità tra le varie manifestazioni del sapere. Tuttavia, l’approccio kantiano segnò il passaggio a una nuova epoca, in cui la filosofia non poté più pretendere di fondare la scienza in modo totalizzante. Non vi era più un unico tronco metafisico dal quale diramavano le scienze, ma piuttosto una molteplicità di rami, sempre più complessi e specializzati, che la filosofia cercava di comprendere. L’obiettivo della filosofia diventò, quindi, sempre più conoscitivo, ovvero un tentativo di trovare un senso e un ordine nelle diverse branche della scienza, senza, però, avere il potere di unificarle sotto un unico principio metafisico.
Il compito della filosofia si fece, allora, maggiormente arduo, e forse impossibile, man mano che le scienze progredivano e si frammentavano in specializzazioni più minute e indipendenti tra loro. Oggi, i rami delle scienze sembrano essersi distaccati dal tronco, rendendo difficoltoso alla filosofia riunirli e dare loro un significato complessivo. La scienza, con i suoi sviluppi tecnici e le sue molteplici applicazioni, si è emancipata dalla filosofia, creando mondi artificiali che spesso sostituiscono il mondo naturale, come dimostra il progresso tecnologico, che ha trasformato radicalmente le nostre vite. Si pensi, per esempio, a una stazione spaziale, dove ogni oggetto è il frutto di una produzione tecnica umana, lontana dalla natura originaria.


Questa emancipazione della scienza dalla filosofia si è consolidata con la Rivoluzione Industriale, nel Settecento, un periodo in cui la scienza iniziò a mostrare il suo volto tecnico e produttivo, non limitandosi più a essere un sapere teorico. La scienza non solo spiegava il mondo, ma, attraverso la tecnica, iniziava a costruire nuovi mondi. Questo cambiamento epocale portò a un’inversione di ruoli tra scienza e filosofia. Se un tempo la scienza derivava dalla filosofia, oggi è la filosofia che deve confrontarsi con le innovazioni prodotte dalla scienza. I mondi creati dalla tecnica non sono soltanto nuovi oggetti, ma trasformano profondamente le strutture sociali, economiche, politiche e ambientali, ridefinendo le condizioni di vita dell’uomo. La scienza non si limita più a esplorare il mondo, ma lo modifica profondamente, generando nuovi contesti di esistenza che la filosofia è chiamata a interpretare e comprendere.
Questa trasformazione della filosofia si riflette nel modo in cui grandi pensatori del Novecento, come Heidegger, si sono allontanati dalle vecchie forme sistematiche della metafisica per cercare il senso dell’esistenza umana attraverso il dialogo con la poesia. Il linguaggio filosofico è divenuto più agile, intuitivo e libero, meno rigido e deduttivo rispetto al passato. Filosofi come Pascal, con i suoi Pensieri, e Nietzsche, con il suo uso dell’aforisma, avevano già indicato questa strada, prediligendo un linguaggio capace di esprimere intuizioni profonde senza essere intrappolato in rigidi schemi logici. La filosofia si è aperta, così, a linguaggi più poetici e metaforici, dialogando con grandi poeti come Leopardi, Rilke e Trakl, per cercare risposte a domande esistenziali che le scienze non possono affrontare.
In questo nuovo ruolo, la filosofia accetta la sua condizione di riflessività, riconoscendo che la scienza ha ormai ereditato il linguaggio razionale e logico che un tempo apparteneva alla metafisica tradizionale. La filosofia, liberata dal compito di unificare il sapere scientifico, diventa lo spazio in cui l’essere umano può interrogarsi sul significato profondo delle trasformazioni indotte dalla scienza, esplorando nuovi modi di esistenza e cercando risposte alle domande più profonde sul senso della vita e del mondo.

 

 

 

 

Il Tractatus Logico-Philosophicus
di Ludwig Wittgenstein

Linguaggio logico e realtà

 

 

 

 

Il Tractatus Logico-Philosophicus di Ludwig Wittgenstein, filosofo che ha segnato profondamente il pensiero del XX secolo, fu pubblicato nel 1921. Volume molto denso, intreccia logica, linguaggio e realtà e ha influenzato la filosofia coeva e il successivo sviluppo della linguistica e delle scienze cognitive.
Il Tractatus fu scritto durante gli anni della Prima guerra mondiale, quando Wittgenstein si arruolò nell’esercito austriaco, partecipando attivamente al conflitto. Gli eventi bellici condizionarono la sua visione del mondo, spingendolo a cercare una forma di espressione che potesse catturare l’essenza della realtà in modo chiaro e inequivocabile. Il lavoro risentì anche dei suoi studi con Bertrand Russell a Cambridge e delle teorie logiche di Gottlob Frege, pur distanziandosi significativamente dai loro approcci più tradizionali alla filosofia del linguaggio.
Il nucleo filosofico del Tractatus è costituito dalla relazione tra linguaggio e mondo. Wittgenstein propone una struttura logica del linguaggio che riflette quella della realtà. Il famoso principio “Il limite del mio linguaggio significa il limite del mio mondo” suggerisce che si possa parlare solo di ciò che si possa pensare; tutto quanto è al di fuori del linguaggio è ineffabile. Il filosofo introduce anche l’idea che la filosofia non debba generare teorie o dottrine, ma piuttosto chiarire i pensieri: il suo scopo è terapeutico e non teoretico.
Dal punto di vista logico, il Tractatus indaga i fondamenti della logica e del pensiero. Wittgenstein utilizza la notazione logica per costruire e dimostrare le sue proposizioni, argomentando che quelle del linguaggio abbiano valore solo in quanto rappresentazioni logiche di fatti del mondo. Questo punto di vista ha dato un contributo fondamentale alla filosofia analitica e alla logica matematica, ispirando, in seguito, movimenti quali il Positivismo Logico del Circolo di Vienna, che cercava di ridurre la filosofia all’analisi logica del linguaggio.
L’opera presenta una struttura rigorosamente organizzata, che riflette l’ambizione dell’Autore di catturare l’essenza della logica e della realtà attraverso il linguaggio. La sua composizione è tanto logica quanto filosofica, ordinata in una serie di proposizioni numerate che si sviluppano in modo gerarchico e deduttivo.
Il Tractatus è diviso in sette proposizioni principali, ciascuna delle quali è espansa da sottoproposizioni numerate in modo decimale. Questa impostazione permette a Wittgenstein di costruire argomenti complessi in modo progressivo e strutturato.
1. Il mondo è tutto ciò che accade
Questa proposizione contempla il concetto di mondo come totalità dei fatti, non delle cose, inteso dal filosofo quale insieme di tutti gli eventi o situazioni fattuali, non una collezione di oggetti.
2. Ciò che accade, i fatti, è il sussistere degli stati di cose
Qui Wittgenstein introduce l’idea degli “stati di cose” (Sachverhalt), combinazioni specifiche di oggetti (Sachen) che possono sussistere o meno. Un fatto è, quindi, una configurazione di oggetti connessi in un modo particolare che esiste nel mondo.
3. Il pensiero logico è l’immagine riflessiva del mondo
Il pensiero è rilevato quale rappresentazione (Bild) del mondo. Tali rappresentazioni hanno una configurazione logica che corrisponde a quella dei fatti che rappresentano. Il pensiero può essere vero o falso, a seconda che abbia o meno un corrispettivo nella realtà.


4. Il pensiero deve occuparsi di ciò che è pensabile e ciò deve essere possibile
Il pensiero deve essere realizzabile nella realtà. La proposizione estende il concetto di logica del pensiero, sostenendo che il pensiero valido deve avere una possibile applicazione pratica o esistenziale.
5. La proposizione è una funzione di verità degli elementi
Le proposizioni sono espressioni del nostro linguaggio che possono essere vere o false. Wittgenstein postula il concetto di “funzione di verità”, suggerendo che il valore di verità di una proposizione dipenda dalle condizioni di verità degli elementi (proposizioni elementari) che la compongono.
6. La forma generale della funzione di verità è: [p, ξ, N(ξ)]
Questa proposizione complessa dettaglia l’idea che ogni proposizione possa essere vista come una funzione di verità e che esista una forma generale per queste funzioni. Il simbolismo utilizzato è tecnico, indicando una funzione che coinvolge proposizioni (p), variabili (ξ) e negazioni (N). Questa è una delle parti più tecniche del trattato, collegando direttamente la logica alla filosofia del linguaggio.
7. Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere
La celebre conclusione del Tractatus traccia un confine epistemologico ed etico. Wittgenstein delimita il territorio della filosofia a ciò che può essere chiaramente espresso attraverso il linguaggio logico. Tutto ciò che ne è al di fuori – valori etici, estetici, metafisici – dev’essere lasciato al silenzio, non perché sia meno importante, ma perché trascende i limiti del linguaggio.
Ogni proposizione principale ha sotto di sé una serie di proposizioni secondarie, che approfondiscono e chiariscono i contenuti delle prime. Questa struttura numerica non è solo un metodo di disposizione, ma anche un mezzo per mostrare come ciascun pensiero sia logicamente collegato al precedente e prepari il terreno al il successivo. Wittgenstein utilizza questa sistemazione proprio per esplorare e definire i limiti del linguaggio e del pensiero. Ogni proposizione, infatti, mira a delimitare cosa possa essere detto chiaramente – ciò che può essere espresso logicamente – e ciò che, invece, sfugge alla capacità descrittiva del linguaggio, come l’etica e l’estetica, che secondo il filosofo si collocano al di là dei confini del linguaggio.
Il Tractatus Logico-Philosophicus rimane un volume profondo anche se a tratti enigmatico. Sebbene Wittgenstein stesso, n alcune sue opere successive, principalmente in Ricerche Filosofiche, ne abbia criticato talune conclusioni, continua a essere un testo imprescindibile per chiunque sia interessato alla filosofia del linguaggio, alla logica e alla relazione tra linguaggio e realtà. Attraverso la sua concisa e talvolta criptica scrittura, Wittgenstein sfida a riflettere sulle limitazioni del linguaggio e sull’essenza della comunicazione umana.

 

 

 

 

Novum Organum di Francis Bacon

“Sapere è potere!”

 

 

 

Il Novum Organum, pubblicato nel 1620, costituisce, senza dubbio, una pietra miliare nella storia del pensiero scientifico e filosofico. Francis Bacon, in quest’opera, non solo critica i metodi di conoscenza allora dominanti, ereditati dalla tradizione aristotelica e scolastica, ma propone anche un nuovo metodo, basato sull’induzione e sulla sperimentazione empirica. La sua visione mira a riformare il processo di acquisizione della conoscenza per avanzare nel progresso tecnico e scientifico.
Uno degli aspetti centrali del Novum Organum è rappresentato dall’introduzione del metodo induttivo. Contrariamente al metodo deduttivo aristotelico, che parte da premesse generali per arrivare a conclusioni specifiche, il metodo baconiano suggerisce di partire dall’osservazione di fatti particolari per generalizzare le leggi della natura. Bacon critica aspramente la logica aristotelica, ritenendola inadeguata per la scoperta di nuove verità. Il suo approccio è rivoluzionario, perché propone di costruire il sapere sulla base di dati empirici, organizzati attraverso tavole di presenza, assenza e gradi.
Bacon anticipa l’importanza del progresso tecnologico quale frutto della scienza applicata, mettendo in luce come la conoscenza accurata della natura possa condurre al miglioramento delle condizioni umane attraverso invenzioni e scoperte. Immagina, altresì, una scienza che sia utile e produttiva, non solo speculativa, visione che prefigura lo sviluppo della metodologia scientifica moderna e pone le basi per la futura rivoluzione industriale.
Dal punto di vista logico, Bacon introduce la teoria degli “idola”, termine latino che si riferisce a false nozioni o idoli, che ingannano l’intelletto umano. Gli idola rappresentano pregiudizi o errori sistematici di pensiero, che distorcono la percezione della realtà e ostacolano la scoperta della verità attraverso il metodo scientifico. Il filosofo identifica quattro categorie principali di idola, ognuna delle quali contribuisce in modo diverso alla corruzione della mente umana.
Gli idola tribus sono gli idoli associati alla natura umana in generale. Bacon sostiene che questi pregiudizi siano innati nella mente e derivino dalla sua tendenza a percepire più ordine e regolarità nella natura di quanto in realtà esista. Ad esempio, gli esseri umani tendono a vedere causalità in eventi coincidentali o a percepire modelli e significati anche dove non ne esistono. Questo tipo di errore logico può portare a conclusioni errate e impedire un’indagine oggettiva della realtà. Gli idola specus si riferiscono agli “idoli della caverna”, ovvero ai pregiudizi personali che ogni individuo sviluppa in base alla propria educazione, ambiente, esperienze e inclinazioni personali. Questi idoli sono paragonabili a preferenze personali che possono colorare il modo in cui si interpretano e filtrano le informazioni. Ad esempio, uno scienziato potrebbe favorire teorie che si allineano meglio con la sua formazione specialistica, ignorando o minimizzando l’importanza di dati che supportano teorie alternative. Gli idola fori sono gli “idoli del mercato”, derivanti dall’uso improprio del linguaggio e delle parole. Bacon sostiene che il linguaggio, essendo un costrutto umano, sia intrinsecamente impreciso e spesso carico di ambiguità e connotazioni che avrebbero potuto portare a misconoscimenti e malintesi. Le parole sono spesso inadeguate per descrivere la realtà in modo esatto e possono distorcere la comprensione. Infine, gli idola theatri sono gli “idoli del teatro”, che derivano dalle dottrine filosofiche e dai principi errati delle scienze e delle arti. Questi idoli includono le fallacie che emergono dalle teorie non verificate e dai sistemi filosofici accettati senza questioni. Tali sistemi sono paragonati a “produzioni teatrali”, che presentano una versione della realtà distorta e sceneggiata, lontana dalla verità empirica e oggettiva. La teoria degli idola ha importanti implicazioni per il metodo scientifico. Essa mette in guardia contro il pericolo di affidarsi troppo alla percezione sensoriale e intellettuale non critica. Invece, suggerisce la necessità di un approccio sistematico e meticoloso nella raccolta e analisi dei dati, libero da pregiudizi personali, linguistici e culturali. Bacon propone, quindi, un metodo di indagine che miri a purificare la mente da questi idoli attraverso la sperimentazione ripetuta e l’osservazione accurata, ponendo così le basi per la scienza moderna. La teoria degli idola, quindi, costituisce una critica radicale alla conoscenza umana tradizionale e un appello alla vigilanza epistemologica nell’indagine scientifica. Bacon sottolinea l’importanza di superare questi ostacoli epistemologici per raggiungere una vera comprensione della natura, promuovendo un approccio più rigoroso e sistematico alla scienza.


Il Novum Organum si inserisce in un contesto filosofico dominato dal razionalismo e dall’empirismo, influenzando profondamente entrambe le correnti. Bacon, pur non essendo un empirista nel senso stretto, promuove un’indagine della realtà basata sull’esperienza sensoriale come antidoto alle false nozioni e ai pregiudizi che, secondo lui, ostacolano la conoscenza vera. La sua critica verso le autorità del passato, come Aristotele, e la sua sfiducia nei confronti della pura deduzione razionale lo collocano in un movimento di pensiero che cercò di liberare la ricerca scientifica dalle catene della tradizione e della superstizione.
L’opera, perciò, costituisce molto più di un semplice trattato di metodologia scientifica; è un manifesto che chiama a un nuovo ordine cognitivo in cui la scienza diventa il motore del progresso materiale e morale dell’umanità. Riflette e contribuisce a una trasformazione epocale nella concezione del sapere, promuovendo una visione pragmatica e utilitaristica della conoscenza. Bacon, con la sua logica induttiva e l’enfasi sull’importanza delle scoperte tecnologiche, non solo ha disegnato il contorno del moderno metodo scientifico, ma ha anche preparato il terreno per la rivoluzione scientifica che avrebbe preso piede nel corso del secolo successivo.
Il Novum Organum, pertanto, rimane un testo fondamentale per comprendere l’evoluzione del pensiero scientifico e la sua interazione con le correnti filosofiche del Seicento, evidenziando come la scienza possa essere strumentalizzata per il miglioramento sociale e tecnologico.

 

 

 

La filosofia inglese e le sue leggi “concrete”

 

Perché gli inglesi hanno dominato il mondo per almeno quattro secoli

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Gli inglesi, per quel che concerne la storia del pensiero, si sono distinti dagli altri popoli europei, antichi e moderni, a causa di quella impronta, ad essi del tutto peculiare, tendenzialmente antimetafisica ed essenzialmente pragmatica. A scorrere rapidamente quella storia, infatti, ciò può essere facilmente notato: quando il Medioevo volgeva ormai al termine, mentre nelle scuole del resto d’Europa i dotti erano ancora impelagati nelle dispute scolastiche sulle prove dell’esistenza di Dio, sugli universali, sulla Trinità e sui quodlibeta, Roger Bacon, filosofo, scienziato e mago, il doctor mirabilis (dottore dei miracoli), fondava la gnoseologia empirica, secondo la quale l’esperienza sia il vero e unico mezzo per acquisire conoscenza del mondo. Tre erano, secondo il filosofo, i modi con cui l’uomo potesse comprendere la verità: con la conoscenza interna, data da Dio tramite l’illuminazione; con la ragione, la quale, però, non è bastevole, e, infine, con l’esperienza sensibile, ovvero tramite i cinque sensi, il non plus ultra di cui esso possa disporre e che gli consente di avvicinarsi alla reale conoscenza delle cose. Il frate francescano William of Ockham, il doctor invincibilis (dottore invincibile), con il suo famosissimo rasoio, semplificò al massimo la spiegazione dei fenomeni, mostrando l’inutilità di moltiplicare le cause e di introdurre enti al di là della fisica: “Frustra fit per plura, quod fieri potest per pauciora” (è inutile fare con più, ciò che si può fare con meno). Francis Bacon, il filosofo dell’adagio “Sapere è potere”, padre della rivoluzione scientifica e del metodo scientifico nell’osservazione e nello studio dei fenomeni attraverso l’induzione, meglio definita e rinnovata rispetto a quella aristotelica, fu avversatore dei pregiudizi, da lui chiamati idola (idoli o immagini), che impedivano la reale conoscenza e intelligenza della natura, e fu ispiratore di un’altra grande mente inglese, Isaac Newton, lo scienziato-osservatore empirico per eccellenza. Thomas Hobbes diede spiegazione a tutti gli aspetti della realtà col suo materialismo meccanicistico, annullando la res cogitans (sostanza pensante) di Cartesio e il suo ambiguo rapporto con la res extensa (sostanza materiale), retroterra sul quale basò la sua concezione della natura umana, della condizione di guerra di tutti contro tutti (l’homo homini lupus), del patto di unione e del patto di società, dai quali sarebbero poi nati, rispettivamente, la civiltà e, attraverso la rinuncia da parte di ogni uomo al suo diritto su tutto e la cessione di questo al sovrano, lo Stato, il Leviathan (Leviatano). John Locke, l’empirista, l’autore di An essay concerning human under standing (Saggio sull’intelletto umano), sosteneva che tutta la conoscenza umana derivasse dai sensi. Indagò le idee e i processi conoscitivi della mente, criticando l’innatismo cartesiano e leibniziano e, tra l’altro, fu strenuo propugnatore del liberalismo politico e della tolleranza religiosa. David Hume, l’estremo dell’empirismo inglese, asseriva, come Locke, che la conoscenza non fosse innata, ma scaturisse dall’esperienza. Egli negò sia la sostanza materiale che quella spirituale, tutto riducendo a sensazione e stato di coscienza. Demolì il concetto di causa, ritenendolo mero costume della mente, suscitato dall’abitudine, e postulò, quali conoscenze universali e necessarie, soltanto quelle della geometria, dell’algebra e dell’aritmetica. Adam Smith, filosofo ed economista, teorizzò l’idea che la concorrenza tra vari produttori e consumatori avrebbe generato la migliore distribuzione possibile di beni e servizi, poiché avrebbe incoraggiato gli individui a specializzarsi e migliorare il loro capitale, in modo da produrre più valore con lo stesso lavoro. E, infine, l’Utilitarismo di Jeremy Bentham e John Stuart Mill prima, con tutte le implicazioni morali (o moralmente inglesi), legate ai concetti di “utile” e di “felicità“, e quello di Henry Sidgwick, poi, col suo edonismo etico, mediante il quale aggiunse importanti precisazioni ai concetti dell’utilitarismo classico. Queste riflessioni filosofiche hanno certo corrispettivo pratico allorquando si osservano attentamente tutte le sfaccettature dell’English way of life e dei princìpi che, ancora oggi, lo animano. Il motivo per cui gli inglesi, fino a circa settant’anni fa, hanno realmente dominato il mondo (basti pensare al British Empire e al Commonwealth), ha le proprie basi nel pragmatismo che, dal 1200 in poi, ha caratterizzato le sue classi intellettuali e, di riflesso, quelle deputate all’azione. Un popolo non condizionato dalla religione, come lo sono stati, dal Medioevo alle soglie dell’età contemporanea, la maggior parte dei Paesi cattolici europei, libero di sottomettere altre genti, che non ha combattuto in nome di Dio ma degli uomini, era destinato ad avere il ruolo che ha avuto e che ancora ha. Del resto, negli stessi anni in cui un bardo venuto dalle Midlands incantava gli spettatori del Globe Theatre a Londra, mettendo in scena l’amore tra Romeo e Giulietta, la filosofia dell’essere e del non essere e la gelosia di Otello, la regina Elisabetta I nominava baronetto il più astuto e lesto pirata della storia: sir Francis Drake!

 

Sir Francis Bacon (1561-1626)

 

Pubblicato l’1 aprile 2017 su La Lumaca

 

Don Ferrante

La critica di Manzoni all’arroganza intellettuale del Seicento

 

 

 

 

Don Ferrante è uno dei personaggi secondari più incisivi de I Promessi Sposi, un esempio straordinario della maestria di Alessandro Manzoni nel delineare figure che, seppur marginali nell’intreccio narrativo, assumono un valore simbolico di grande portata. Don Ferrante incarna temi universali e profondamente significativi per comprendere la mentalità e la cultura del Seicento, attraverso cui Manzoni critica sottilmente e ironicamente la vacuità di un’erudizione scollegata dalla realtà, l’attaccamento a concezioni superate e l’incapacità di adattarsi al cambiamento.
La descrizione della biblioteca di don Ferrante e delle sue abitudini intellettuali diventa lo strumento manzoniano per tracciare il ritratto del personaggio, presentandolo come un intellettuale raffinato e amante dello studio, ma il cui sapere si fonda su paradigmi antiquati, ereditati dalla scolastica medievale e dalla cultura aristotelico-tolemaica, ormai sorpassati. Don Ferrante investe il suo tempo nello studio di discipline quali l’astrologia e la magia naturale, che considera scienze esatte, ignorando, invece, le scoperte moderne e le applicazioni pratiche del sapere. La sua biblioteca, ricca di volumi impolverati e inutilizzati, diventa il simbolo di una cultura sterile, un luogo che raccoglie conoscenze obsolete, incapaci di illuminare o guidare l’azione pratica. Manzoni sottolinea ironicamente come don Ferrante si consideri padrone di un sapere immenso, ma sia in realtà schiavo delle sue stesse illusioni.

Emblematico del suo approccio dogmatico è il celebre discorso sulla peste, in cui nega l’esistenza del morbo perché non conforme ai criteri della filosofia aristotelica. Secondo la sua logica (aristotelica), la peste non può essere né una “sostanza” né un “accidente” e, quindi, non esiste. Questa rigida adesione al pensiero teorico, incapace di confrontarsi con l’evidenza empirica, si traduce in un rifiuto della realtà. Qui l’ironia di Manzoni emerge con forza: don Ferrante, convinto della superiorità del proprio sistema di pensiero, diventa vittima della stessa peste che si ostina a negare. La sua morte, tragica e grottesca, rappresenta una punizione simbolica per la sua arroganza intellettuale e per l’incapacità di adeguare le proprie convinzioni all’esperienza.
Attraverso don Ferrante, Manzoni esprime una critica più ampia alla cultura dominante del Seicento, spesso caratterizzata da una miscela di pedanteria, superstizione e astrattezza. Tale cultura, priva di concretezza e di sensibilità verso i bisogni della società, si rifugiava in dispute teoriche e accademiche, lontane dalla vita reale. Don Ferrante rappresenta perfettamente questo tipo di intellettuale autoreferenziale, chiuso nella propria torre d’avorio, che usa il sapere come strumento di autocelebrazione piuttosto che come mezzo per il progresso e il benessere collettivo.
Manzoni accentua il messaggio della parabola di don Ferrante, ponendolo in contrapposizione con altre figure del romanzo. Fra Cristoforo, ad esempio, incarna una conoscenza pratica e umile, fondata sull’esperienza diretta e sulla fede. Il cardinale Borromeo, invece, rappresenta l’ideale dell’intellettuale illuminato, che mette il proprio sapere al servizio degli altri, guidato dalla carità e dalla capacità di comprendere le necessità concrete degli uomini. In questo confronto, don Ferrante si staglia come simbolo dell’arroganza intellettuale e del fallimento di un sapere che rifiuta il dialogo con l’esperienza.
La parabola di don Ferrante si conclude con una lezione amara e universale: la conoscenza, per essere autentica e valida, deve essere accompagnata dall’apertura mentale e dalla capacità di adattarsi al reale. La figura di don Ferrante, quindi, tratteggiata con un’ironia pungente e al tempo stesso malinconica, costituisce un monito contro i pericoli di un sapere autoreferenziale, incapace di trasformarsi in strumento di progresso e di servizio alla società. La sua morte per peste, l’epilogo inevitabile della sua incapacità di confrontarsi con la realtà, suggella il fallimento di un modello culturale sterile e superato, offrendo al lettore una riflessione sempre attuale sulla necessità di una conoscenza fondata sulla concretezza e sul senso del bene comune.

 

 

 

 

Cristianesimo ed evoluzione

 

di

Riccardo Sasso

 

 

Il primo a dare una risposta alla domanda “si può essere credenti ed evoluzionisti?” fu Charles Darwin in persona. Lo scienziato inglese (agnostico), in una lettera indirizzata a sir John Fordyce nel 1879, così scrive: «Mi sembra assurdo dubitare che un uomo possa essere un ardente teista e altrettanto ardente evoluzionista»…

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Critica della scienza dogmatica

 

di

Federico Ragazzi

 

 

Per evitare la dogmatizzazione della scienza dovremmo, innanzitutto, chiederci “che cosa è scienza?”. Così facendo potremmo forse, spinti da una sana umiltà intellettuale, ammettere di essere molto confusi a riguardo. La scienza non è una struttura monolitica ma, come spesso accade, la questione si rivela molto complicata e ricca di sfumature…

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