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La metamorfosi del reale

Implicazioni etiche e filosofiche sul potere del digitale
e dell’Intelligenza Artificiale
nel rimodellare l’essenza dell’esistenza

 

 

 

 

L’idea che il digitale e l’Intelligenza Artificiale – come ho evidenziato in un articolo precedente (leggi) – stiano trasformando l’essenza stessa della realtà, oltre che la nostra capacità di comprenderla, solleva una serie di questioni etiche e filosofiche di enorme portata. Non si tratta solo dell’uso di nuove tecnologie, ma di una ridefinizione della stessa ontologia del mondo: il modo in cui il reale viene esperito, creato e controllato. Le implicazioni etiche e filosofiche riguardano la nostra comprensione del potere, della responsabilità, della verità e dell’autenticità.
Uno dei primi problemi che emergono riguarda la natura stessa della verità. Se il digitale è in grado di creare mondi e realtà alternative, come possiamo distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è? La proliferazione di deepfake, modelli digitali e simulazioni sofisticate porta a una crisi del concetto di verità. In un mondo in cui l’Intelligenza Artificiale può generare immagini, testi e persino video credibili e difficilmente distinguibili da quelli reali, la linea di demarcazione tra verità e menzogna diventa sempre più sottile.
Questa crisi ha ripercussioni importanti su diverse sfere della nostra vita sociale. Ad esempio, nel contesto politico, la manipolazione della realtà può avere un impatto devastante. Le campagne di disinformazione basate su contenuti digitali falsi, ma convincenti, possono influenzare l’opinione pubblica e destabilizzare le democrazie. Allo stesso tempo, sul piano individuale, la possibilità di vivere in una realtà simulata solleva interrogativi sul significato dell’autenticità e della fiducia nelle nostre percezioni.
Un’altra questione di rilievo è la responsabilità morale degli agenti artificiali. L’AI, soprattutto quando è in grado di prendere decisioni autonomamente, introduce un nuovo soggetto morale nella scena etica. Se un algoritmo compie una scelta che ha conseguenze negative – ad esempio, in ambito sanitario, giudiziario o economico – chi ne è responsabile? Si tratta di una questione complessa, poiché gli algoritmi non sono dotati di coscienza o intenzionalità come gli esseri umani, seppure, allo stesso tempo, le loro decisioni influenzano profondamente la realtà.
Il problema della responsabilità diventa ancora più pressante quando parliamo di sistemi di IA che si auto-apprendono. Questi sistemi non sono limitati a eseguire compiti pre-programmati, ma imparano e modificano il loro comportamento in base ai dati che raccolgono. In tali contesti, non è più facile risalire a un’unica persona o ente responsabile. La responsabilità si diffonde tra chi ha progettato l’algoritmo, chi lo ha addestrato, chi lo ha utilizzato e lo stesso sistema, che opera in modo semi-autonomo.
L’accesso e il controllo delle tecnologie digitali e dell’Intelligenza Artificiale sollevano questioni di giustizia e potere. Chi detiene il potere di plasmare la realtà attraverso questi strumenti? Il controllo delle piattaforme digitali, dei dati e degli algoritmi è oggi nelle mani di poche grandi multinazionali. Questo crea una concentrazione di potere senza precedenti, poiché coloro che controllano la tecnologia hanno anche la capacità di modellare l’esperienza della realtà di miliardi di persone.


Questa dinamica introduce una disuguaglianza strutturale tra chi possiede i mezzi per influenzare e creare la realtà e chi subisce tale influenza. Non tutti hanno accesso agli strumenti per comprendere o partecipare attivamente alla costruzione della realtà digitale, il che porta a nuove forme di alienazione. Si sta creando una divisione tra chi può “governare” il mondo digitale e chi ne è semplicemente un consumatore passivo.
L’AI e le tecnologie digitali mettono in crisi anche il concetto di identità personale e autenticità. Nella società digitale, la nostra identità non è più solo il risultato di un’esperienza di vita diretta, ma è modellata dalle nostre interazioni virtuali, dai dati che generiamo e dalla rappresentazione di noi stessi che costruiamo online. Se la nostra immagine digitale può essere manipolata, replicata o addirittura migliorata da tecnologie come la realtà aumentata o i deepfake, la domanda diventa: cosa significa essere autentici? La nostra identità rimane la stessa nel mondo digitale o diventa fluida, adattabile e malleabile? Inoltre, l’esistenza di avatar virtuali o repliche digitali di sé potrebbe condurre a una frammentazione dell’identità personale, dove una persona “esiste” simultaneamente in più forme e in più luoghi, in un modo che sfida la comprensione tradizionale dell’essere umano come entità unica e indivisibile.
Un ulteriore rischio legato all’AI la disumanizzazione. Se le tecnologie assumono un ruolo sempre più centrale nella nostra vita, potremmo iniziare a vedere il mondo attraverso una lente algoritmica. Questo non solo riduce la nostra esperienza a un insieme di dati, ma potrebbe portare a un allontanamento dagli aspetti più profondi dell’esperienza umana, come l’empatia, la creatività e la morale. In un mondo dove le decisioni importanti sono affidate a sistemi artificiali c’è il rischio di una progressiva perdita della nostra capacità di giudizio morale e di interazione autentica con gli altri.
Le IA, basate su processi statistici e algoritmici, possono mancare di comprensione delle sfumature etiche o emotive delle decisioni umane. Questo rischia di ridurre la complessità della vita umana a qualcosa di troppo semplificato, con gravi conseguenze per la società. In alcuni contesti, come il lavoro o la giustizia, si potrebbe vedere una riduzione delle persone a meri numeri, valutate non per il loro valore intrinseco, ma per ciò che i dati e gli algoritmi dicono di loro.
Le implicazioni etiche e filosofiche del cambiamento ontologico della realtà, causato dal digitale e dall’AI, sono profondamente complesse. La ridefinizione della realtà attraverso questi mezzi ci pone di fronte a dilemmi che riguardano non solo la verità e la giustizia, ma anche la nostra stessa comprensione dell’essere umano. La tecnologia non è più semplicemente uno strumento che usiamo: è diventata una forza attiva nel determinare cosa sia reale, chi siamo e come interagiamo con il mondo. Di fronte a questa rivoluzione, dobbiamo riflettere su come mantenere una dimensione autenticamente umana e morale all’interno di una realtà sempre più tecnologicamente mediata.

 

 

 

 

La metamorfosi del reale

Il potere del digitale e dell’Intelligenza Artificiale
nel rimodellare l’essenza dell’esistenza 

 

 

 

Negli ultimi decenni, la nostra società ha vissuto una trasformazione profonda, tanto evidente quanto difficile da comprendere nella sua totalità. Il digitale e l’Intelligenza Artificiale (IA) non stanno solo mutando le dinamiche della nostra vita quotidiana, ma sembrano anche incidere sulla stessa struttura ontologica della realtà. Non si tratta più soltanto di come noi, in quanto esseri umani, interpretiamo e comprendiamo il mondo, ma di un vero e proprio sconvolgimento che coinvolge l’essenza del reale. In questo contesto, ci troviamo di fronte a un cambiamento che investe le fondamenta stesse di ciò che consideriamo come “reale”.
Fino a non molto tempo fa, la realtà era concepita come qualcosa di statico, un insieme di fatti e fenomeni esterni a noi, che esistono indipendentemente dalla nostra percezione. Questo modello realistico, che ha dominato la filosofia occidentale fin dall’antichità, vedeva la realtà come un dato, qualcosa di oggettivo e immutabile. L’avvento del digitale ha iniziato a mettere in discussione questa prospettiva.
Con la digitalizzazione, le interazioni umane, la conoscenza e persino l’esperienza stessa si sono progressivamente smaterializzate. Pensiamo alla nostra presenza online: profili social, avatar nei mondi virtuali, simulazioni e modelli digitali. Questi nuovi modi di essere e interagire generano interrogativi sul confine tra ciò che è “reale” e ciò che è “virtuale”. Il virtuale non è più solo una copia o una rappresentazione del reale, ma diventa un nuovo tipo di realtà, con proprie regole e leggi, capace di influenzare il mondo fisico e la nostra percezione di esso.
L’Intelligenza Artificiale aggiunge un ulteriore livello di complessità a questa trasformazione. Non solo ci permette di elaborare e comprendere enormi quantità di dati, ma, in molti casi, produce delle realtà che sono autonome rispetto al controllo umano. Gli algoritmi di machine learning, ad esempio, non si limitano a replicare modelli già esistenti: sono capaci di creare nuove strutture, di “apprendere” e di fare previsioni che modificano il mondo che ci circonda. Ciò porta a un cambiamento profondo nel nostro rapporto con la realtà. Non siamo più i soli a costruire il significato del mondo: le macchine contribuiscono in modo attivo a creare la nostra esperienza del reale. Ciò che era visto come un compito esclusivo della mente umana – l’interpretazione e l’organizzazione dei fenomeni – è ora condiviso con entità digitali autonome. Questa co-creazione solleva domande di natura ontologica: cosa significa “essere reale” in un mondo dove l’IA genera soluzioni, previsioni e persino emozioni artificiali?


Uno degli aspetti più evidenti di questo cambiamento ontologico è la crescente fluidità della realtà. Il concetto di identità, sia a livello personale che sociale, è messo alla prova dalla capacità delle tecnologie digitali di manipolare, replicare e ridefinire l’informazione. Gli esseri umani interagiscono quotidianamente con simulazioni di sé stessi, con versioni virtuali che possono essere modificate a piacimento. Il confine tra l’autenticità e la simulazione diventa sempre più labile. Inoltre, con l’avvento delle tecnologie immersive come la realtà aumentata e virtuale e con lo sviluppo di algoritmi capaci di generare contenuti sempre più indistinguibili dalla realtà, il mondo virtuale non è più un semplice riflesso del mondo fisico. La differenza tra ciò che è “vero” e ciò che è “falso” diventa più sfumata. Si vive, si lavora e si interagisce in una realtà ibrida, dove l’informazione digitale e fisica si fondono in un continuum che rende difficile stabilire punti fermi ontologici.
In questo nuovo scenario, la realtà non può più essere vista come qualcosa di stabile e predefinito, quanto piuttosto quale processo dinamico in continuo divenire. Il digitale e l’Intelligenza Artificiale non si limitano a sconvolgere la nostra percezione della realtà, ma ne ridefiniscono attivamente le strutture. L’idea che la realtà sia una costruzione fissa, eterna, sta cedendo il passo a una visione più fluida e malleabile, dove le tecnologie non solo interpretano il mondo, ma contribuiscono a plasmarlo.
La natura stessa del reale si trasforma in qualcosa di contingente e malleabile, influenzata da forze artificiali che non rispondono più solo ai criteri della percezione umana. Le leggi che governano la realtà, come il tempo, lo spazio e la causalità, possono essere reinterpretate o ridefinite attraverso la tecnologia, come accade con gli algoritmi predittivi o i modelli di simulazione avanzata.
Il cambiamento ontologico della realtà solleva inevitabilmente questioni etiche e filosofiche, che approfondirò in un prossimo articolo dedicato. Se la realtà può essere manipolata e ricostruita attraverso la tecnologia, quali sono i limiti? Chi detiene il potere di determinare cosa è reale e cosa no? Come cambia la nostra responsabilità morale in un mondo dove le macchine partecipano attivamente alla creazione della realtà?
Le risposte a queste domande non sono semplici. Tuttavia, è chiaro che ci troviamo di fronte a una svolta storica. Il digitale e l’Intelligenza Artificiale non solo ampliano la nostra capacità di conoscere e intervenire nel mondo, ma alterano le stesse basi del nostro essere nel mondo. La realtà, in definitiva, non è più un dato, ma un processo che si evolve insieme alle tecnologie che la mediano.
Il cambiamento ontologico della realtà, indotto dalle tecnologie digitali e dall’Intelligenza Artificiale, rappresenta una delle sfide filosofiche e culturali più significative del nostro tempo. Non ci troviamo più semplicemente a dover comprendere una realtà esterna attraverso i nostri strumenti cognitivi, ma siamo chiamati a ripensare cosa significhi essere, esistere e conoscere in un mondo dove la tecnologia gioca un ruolo attivo nella costruzione del reale. La realtà non è più una struttura statica, ma un campo di forze dinamiche, costantemente ridefinite dall’interazione tra umano e artificiale.

 

 

 

Giambattista Vico e l’umana perfettibilità

La trasformazione delle passioni in virtù

 

 

 

 

Il concetto di “umana perfettibilità” costituisce una delle idee più affascinanti e complesse della filosofia, in quanto tocca le corde profonde della capacità dell’essere umano di migliorarsi, di evolvere, non solo sul piano materiale, ma soprattutto su quello spirituale e morale. Giambattista Vico, filosofo napoletano del XVIII secolo, è stato uno dei pensatori che meglio ha saputo interpretare questo processo di trasformazione dell’uomo, intrecciando la sua riflessione sulla storia con un’affermazione decisa del potenziale umano.
Secondo Vico, l’uomo è intrinsecamente legato alla sua storia e alla cultura che lo circonda. La perfettibilità umana non è un semplice miglioramento lineare e progressivo, come sostenevano molti dei filosofi illuministi suoi contemporanei, ma è il risultato di un percorso ciclico e complesso. Vico, nella sua opera Principj di una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni (1725), descrive lo sviluppo delle civiltà come un ciclo storico che attraversa tre stadi principali: l’età degli dèi, l’età degli eroi e l’età degli uomini. Questo ciclo non rappresenta una ripetizione meccanica della storia, ma un processo dinamico in cui l’umanità, attraverso la riflessione, l’azione e l’errore, è capace di apprendere e migliorarsi.
In questa visione, la perfettibilità umana non è quindi data una volta per tutte, ma è frutto di un processo di lotta continua tra spirito e natura, tra razionalità e passioni, tra caos e ordine. L’uomo, dice Vico, ha la capacità di trasformare le sue passioni in virtù, un’affermazione che contiene un potenziale etico straordinario. Le passioni, che spesso sono viste come forze negative o distruttive, possono invece essere canalizzate verso il bene, diventando il motore del progresso personale e collettivo.

Il concetto di “trionfo dello spirito sulle forze avverse della natura” in Vico assume una dimensione particolare. Per lui, la natura non è solo l’ambiente esterno, ma include anche le forze oscure che si agitano nell’animo umano, quelle pulsioni e passioni che possono portare alla corruzione o alla rovina. Ma proprio queste forze, se guidate dall’intelletto e dalla ragione, possono diventare fonti di virtù. L’uomo, pertanto, non è vittima passiva del mondo naturale o delle proprie passioni, ma possiede la capacità di dominare queste forze e di orientarle verso il bene.
Vico anticipa, in qualche modo, una visione che contrappone la spiritualità alla materialità, evidenziando come la vera grandezza dell’essere umano risieda nel suo spirito, nella sua capacità di riflettere, di creare, di dare significato al mondo. La “vittoria dello spirito sulla natura” rappresenta, pertanto, una forma di emancipazione non solo dal dominio delle forze naturali esterne, ma anche dal determinismo che ridurrebbe l’uomo a un semplice insieme di meccanismi biologici o economici, come avrebbero sostenuto i positivisti e i materialisti del XIX secolo.
Vico, inoltre, afferma con forza che la storia, la cultura e lo spirito umano non possono essere ridotti a semplici dati empirici o a spiegazioni puramente materiali. Egli vede nell’uomo un essere complesso, capace di creare significati, miti, lingue e leggi, che vanno oltre la semplice spiegazione scientifica. La “scienza nuova” che egli propone è una scienza della storia, una disciplina che cerca di comprendere l’evoluzione dell’umanità non solo attraverso fatti e numeri, ma attraverso le idee, le credenze e i simboli che l’uomo ha creato nel corso dei secoli.
Gli scettici tendono a mettere in dubbio la possibilità stessa di conoscere la verità. Per Vico, la verità non è qualcosa di esterno e oggettivo, ma è creata dall’uomo stesso nel suo interagire con il mondo e con gli altri. Egli coniò il famoso principio “verum ipsum factum” (il vero è il fatto), sostenendo che l’uomo può conoscere veramente solo ciò che ha fatto: la storia, la cultura, le istituzioni umane.
Il pensiero di Vico continua a essere rilevante anche nel mondo contemporaneo, in cui spesso si affronta la tensione tra il progresso tecnologico e scientifico e la dimensione umana e spirituale. La sua insistenza sulla capacità dell’uomo di trasformare il caos in ordine, di dare significato alla propria esperienza e di migliorarsi attraverso il conflitto tra passioni e ragione risuona fortemente in un’epoca in cui il rischio è quello di ridurre l’essere umano a una macchina priva di coscienza, dominata dalle leggi della produzione e del consumo.

 

 

 

 

Due trattati sul governo di John Locke

Vita, libertà e proprietà

 

 

 

Nel magnum opus Due trattati sul governo, pubblicata anonima nel 1690, John Locke tesse una tela intricata e raffinata di idee, che hanno plasmato i fondamenti del pensiero liberale moderno. Quest’opera non è un semplice trattato politico, ma attraversa l’essenza stessa della libertà e della legittimità politica, un inno ai diritti innati dell’individuo e alla sovranità del popolo.
Locke scrive contro il decoro di un’Inghilterra che si dibatte tra monarchia assoluta e le prime scintille di ribellione repubblicana. I suoi scritti emergono non solo come risposta alla tirannia, ma come luce guida verso un ordine basato sul consenso e sul riconoscimento dei diritti imprescindibili dell’uomo. Filosoficamente, Locke sfida l’idea del diritto divino dei re, sostenendo, invece, che il potere politico derivi dal consenso dei governati, un concetto rivoluzionario che ribaltava le strutture di potere esistenti.
Nel primo trattato, Locke intraprende una critica serrata e meticolosa delle teorie di Robert Filmer, un araldo del diritto divino dei re. Con una penna tanto incisiva quanto lo scalpello sul marmo, il filosofo decostruisce le argomentazioni di Filmer, mostrando come la sua visione sia non solo infondata, ma pericolosa per la costruzione di una società equa e giusta. Ma è nel secondo trattato che il cuore pulsante delle idee lockiane trova piena espressione. Lì, egli dipinge il ritratto di un governo ideale, radicato nel consenso e nella tutela dei diritti naturali. Quelle pagine rappresentano un manifesto per l’umanità, un chiaro promemoria che il vero scopo del governo sia il benessere dei suoi cittadini.
Locke è fermamente radicato nella tradizione del diritto naturale, che sostiene l’esistenza di diritti universali intrinseci all’essere umano, indipendenti da qualsiasi ordinamento statale. Questi diritti includono la vita, la libertà e la proprietà. Locke argomenta che ogni individuo abbia il diritto di proteggere questi aspetti fondamentali della propria esistenza e che sia compito primario del governo non solo rispettarli, ma garantirli. Se un governo fallisce nel proteggere questi diritti o, peggio, si rende autore di loro violazioni, il popolo non solo ha il diritto, ma il dovere morale di cambiare o rovesciare tale governo. Questa idea rappresenta una rottura radicale con le teorie del diritto divino e pone le basi per la moderna concezione della resistenza civile e della sovranità popolare.
Nel secondo trattato, inoltre, Locke delinea la sua visione del governo civile, ente creato dalla volontà collettiva dei cittadini, che si impegnano reciprocamente a rispettare e promuovere leggi fondate sulla ragione. Questo governo ha il dovere di essere imparziale e di agire nell’interesse del popolo, proteggendo i diritti individuali e promuovendo il bene comune.
Locke introduce anche il concetto di separazione dei poteri, una novità rispetto alla concezione più monolitica del potere tipica del suo tempo, che sarà poi sistematizzata da Montesquieu. Propone una distinzione tra il potere legislativo, il più importante per garantire leggi equanimi, e il potere esecutivo, responsabile dell’attuazione delle leggi. Questa distinzione mira a prevenire l’abuso di potere e a mantenere un equilibrio che protegga i diritti degli individui. Il governo, in questa visione, è limitato dalle leggi che esso stesso crea, un concetto rivoluzionario che anticipa le moderne democrazie costituzionali.

Uno degli aspetti più innovativi e influenti del pensiero di Locke riguarda la sua teoria della proprietà. Egli afferma che la proprietà nasca dal lavoro: utilizzando le proprie capacità e il proprio lavoro per trasformare le risorse naturali in beni utili, l’uomo acquisisce un diritto su di essi. Questa visione mette in luce il legame indissolubile tra libertà individuale e possesso, un concetto che ha profonde implicazioni politiche ed economiche, promuovendo l’idea di un mercato basato sui meriti individuali e sulla libertà.
Locke è stato spesso considerato quale strenuo sostenitore del contrattualismo, teoria che postula l’esistenza di un “contratto sociale” tra il governo e i governati. Questo contratto non è un accordo esplicito, ma un’intesa tacita secondo cui gli individui cedono una parte della loro libertà in cambio di protezione e ordine sociale. La legittimità di un governo, per Locke, dipende dalla sua capacità di salvaguardare i diritti fondamentali degli individui – come già accennato, la vita, la libertà e la proprietà – e dal consenso continuo dei governati. Al centro della filosofia di Locke, infatti, è la nozione dello stato di natura, un concetto filosofico in cui gli uomini vivono liberi e uguali, privi di un’autorità sovrana. Contrariamente a Thomas Hobbes, che descriveva lo stato di natura come una “guerra di tutti contro tutti”, Locke vede in esso una condizione di relativa pace e uguaglianza. Il passaggio dallo stato di natura al governo civile è motivato dalla necessità di proteggere i diritti individuali e di risolvere i conflitti che inevitabilmente emergono.
Locke non scrive in un vuoto teoretico, ma nel contesto della Gloriosa Rivoluzione del 1688 in Inghilterra, che vide l’abdicazione di Giacomo II e l’ascesa di Guglielmo d’Orange. Le sue teorie, quindi, non solo riflettevano le aspirazioni e le tensioni del suo tempo, ma offrivano anche una giustificazione filosofica per il cambiamento di regime, sostenendo il diritto del popolo a ribellarsi contro un sovrano tirannico che viola i diritti naturali.
La risonanza delle teorie lockiane non è relegata alle pagine di un libro o ai confini di un’epoca. Essa si estende attraverso i secoli, influenzando documenti fondamentali come la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti del 4 luglio 1776, e le costituzioni di governi democratici in tutto il mondo. Locke non solo ha scritto di governo, ha fornito le fondamenta per una nuova alba della civiltà occidentale, un’era dove il governo esiste per servire il popolo, non per dominarlo.
Due trattati sul governo è un’opera che continua a illuminare il cammino verso la libertà e la giustizia. Locke, con la sua visione penetrante, rimane un faro di saggezza nel tumultuoso mare delle teorie politiche.

 

 

 

Franca Florio

Splendore della rosa di Sicilia

 

 

 

 

Franca Florio, la regina senza corona di Palermo, una donna il cui splendore sfiorò l’eternità, ma il cui cuore conobbe l’amarezza della caducità. Nata Franca Jacona della Motta dei baroni di San Giuliano, nel 1873, il suo destino sembrava scritto tra le linee di antichi titoli nobiliari e raffinate eleganze. Eppure, la sua vera grandezza sarebbe emersa nell’incontro con Ignazio Florio, l’erede di una delle famiglie più ricche e influenti della Sicilia.
La loro unione fu l’alba di un’epoca: la Palermo della Belle Époque si specchiava in Franca, che divenne simbolo e musa della rinascita culturale e artistica della città. Il suo matrimonio con Ignazio la trasportò in un vortice di lussi, feste sfarzose e corti di artisti e intellettuali. I Florio erano gli imperatori non ufficiali della Sicilia, e Franca ne era la regina luminosa, splendente in ogni evento mondano, tra balli di gala e serate d’opera.


Ma non era soltanto un’icona di bellezza e stile, sebbene gli artisti dell’epoca la celebrassero come tale. Giovanni Boldini, il grande maestro del ritratto, catturò la sua figura in un dipinto che ancora oggi racconta il suo fascino immortale: il corpo snello, il volto nobile, i lunghi capelli corvini avvolti in un’aura di mistero. Quel ritratto, carico di movimento e sfavillio, è uno specchio del suo essere, ma anche un’ombra di ciò che avrebbe perso.
Franca fu al centro della scena, corteggiata dai più grandi del suo tempo: Gabriele D’Annunzio la chiamava “l’Unica”, riconoscendo in lei una bellezza non solo fisica, ma spirituale, una raffinatezza che parlava di antiche radici e di una modernità nascente. Ma al di là dei salotti e delle lodi, il cuore di Franca batteva sempre per il suo Ignazio, in una storia d’amore tanto gloriosa quanto dolorosa. Lontana dal solo ruolo di moglie, Franca fu complice e consigliera di Ignazio, condividendo con lui successi e disfatte, vedendo l’impero della famiglia crescere e, poi, inesorabilmente, sgretolarsi.
L’età dell’oro dei Florio non durò per sempre. Le difficoltà economiche, i rovesci di fortuna e le tragedie personali si abbatterono sulla famiglia. Franca assisté al declino del nome che tanto aveva contribuito a far brillare. Gli ultimi anni della sua vita furono segnati dalla malinconia, dal ricordo di un passato luminoso che sembrava svanire, come il sole al tramonto sul mare di Palermo. Eppure, persino nel crepuscolo della sua esistenza, rimase un simbolo di grazia e dignità, un esempio di resilienza.
Oggi, quando il vento soffia tra i viali di Villa Igiea o le onde accarezzano i moli del porto, sembra di percepire ancora la sua presenza, come un sussurro elegante che attraversa il tempo. Franca Florio è l’eco di un’epoca in cui la bellezza, l’amore e l’arte sembravano intrecciarsi indissolubilmente, per poi svanire come un sogno di cui rimane solo il ricordo, intriso di nostalgia e ammirazione.

 

 

 

 

I Principi di Scienza Nuova di Giambattista Vico

Reinterpretare la storia

 

 

 

Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle Nazioni di Giambattista Vico, pubblicato in diverse edizioni tra il 1725 e il 1744, costituisce un punto di svolta nella storia del pensiero filosofico e storico dell’epoca moderna. Questo testo ridefinisce il ruolo della filosofia e della storia, introducendo un nuovo metodo di indagine sulla civiltà umana, basato su principi di variazione e ripetizione, che Vico chiama corsi e ricorsi storici.
Nel XVIII secolo, il contesto culturale europeo era dominato dal razionalismo cartesiano e dall’empirismo inglese, correnti che propugnavano la deduzione logica e l’esperienza sensoriale quali fonti principali della conoscenza. Vico propone un radicale cambiamento di prospettiva, ponendo l’accento sulla comprensione dell’umanità attraverso le fasi del suo sviluppo culturale e sociale. La sua visione contrappone un modello di conoscenza che valorizza la storia e la cultura come chiavi per interpretare la realtà.
Uno degli aspetti più rivoluzionari di Principi di Scienza Nuova è rappresentato dalla teoria dei corsi e ricorsi storici, secondo la quale la storia dell’umanità si sviluppa attraverso cicli di ascesa, declino e rinascita, riflettendo le leggi naturali della vita sociale. Questa teoria costituisce il portato più famoso e innovativo del pensiero vichiano. Il filosofo sostiene che la storia umana non progredisca in linea retta, ma si muova attraverso cicli ripetuti di ascesa, stasi e declino, che lui identifica con le tre età (degli dei, degli eroi e degli uomini). Ogni ciclo è un “corso”, che alla fine porta a un “ricorso”, ovvero una sorta di ripetizione o rinnovamento, che può anche comportare variazioni significative. In altre parole, i pattern storici tendono a ripetersi, ma ogni ripetizione porta con sé elementi nuovi che arricchiscono il tessuto culturale e sociale delle civiltà. Vico vede i corsi e ricorsi come meccanismi attraverso i quali le civiltà sorgono, fioriscono e poi cadono, solo per essere sostituite da nuove civiltà che, pur essendo diverse, passano attraverso fasi simili. Questo ciclo si osserva, secondo Vico, non solo in Europa ma in tutte le civiltà umane. Le leggi, che iniziano come norme religiose o mitiche, evolvono in codici eroici e, infine, in sistemi legali razionali. Questo processo di evoluzione si ripete ogni volta che una società collassa e si riforma. Anche il progresso tecnico e intellettuale segue un percorso ciclico, in cui la conoscenza si accumula, si perde e poi viene riscoperta o reinventata in nuove forme. Vico utilizza questi cicli per criticare l’idea illuminista di un progresso umano inarrestabile e lineare, proponendo, invece, una visione ricorrente del progresso, che riconosce l’importanza delle ripetizioni storiche e della memoria collettiva. Questo modello gli permette di integrare elementi di storia, filosofia, antropologia e psicologia in una sintesi che mira a comprendere la complessità del comportamento e dello sviluppo umano.
Anche teoria delle tre età della storia riflette la visione ciclica della storia, in cui ogni civiltà passa attraverso tre fasi distinte: l’età degli dei, l’età degli eroi e l’età degli uomini.
L’età degli dei si caratterizza per la predominanza del mondo religioso e mitologico. In questo periodo, la società è guidata dalla paura degli dèi e dalle credenze religiose, che sono utilizzate per spiegare la realtà. Le leggi sono percepite come divine e immutabili, imposte da entità sovrannaturali, e non esiste ancora una chiara distinzione tra il naturale e il soprannaturale. La conoscenza è tramandata attraverso miti e simboli, che hanno la funzione di conservare le norme sociali e morali. Segue l’età degli eroi, un periodo in cui emergono figure carismatiche e dominanti, che assumono il controllo delle comunità. Questi eroi, spesso visti come semi-divini o discendenti diretti degli dèi, stabiliscono gerarchie sociali rigide e sono i protagonisti di grandi gesta e conquiste. In questa fase si sviluppano le distinzioni di classe e le strutture feudali o monarchiche. Le leggi iniziano a essere codificate, ma mantengono un forte legame con l’autorità divina. L’ultima è l’età degli uomini, caratterizzata dallo sviluppo di istituzioni più democratiche e dall’affermazione del diritto civile. La religione perde il suo ruolo centralizzante e le leggi vengono viste come prodotti dell’intelletto umano e del consenso sociale, piuttosto che come imposizioni divine. In questa età, la società si organizza attorno ai principi di uguaglianza e di diritto comune, favorendo lo sviluppo delle repubbliche e delle forme di governo partecipativo. L’educazione si diffonde e con essa cresce l’importanza della scrittura e del dibattito pubblico nella vita civile.
Questo schema delle tre età non solo permette a Vico di analizzare la storia umana in termini di sviluppo e declino, ma offre anche uno strumento per comprendere come le società interpretano e integrano i cambiamenti.
Anche il concetto di provvidenza occupa un posto di prim’ordine nell’opera vichiana. La provvidenza divina non è intesa come un intervento miracolistico negli affari umani, ma piuttosto quale principio ordinatore che guida il corso della storia verso fini di giustizia e razionalità. Questa visione differisce radicalmente dall’interpretazione meccanicistica o completamente laica della storia, tipica di molti suoi contemporanei illuministi. Secondo Vico, la provvidenza agisce attraverso le azioni umane e i loro risultati, inserendo un ordine e un fine morale nel flusso degli eventi storici. La provvidenza non elimina il libero arbitrio, ma lo indirizza verso lo sviluppo di civiltà e istituzioni sempre più complesse e giuste.
Il filosofo, inoltre, critica il metodo matematico di Cartesio, proponendo un approccio basato sulla “fantasia”, che considera fondamentale per la comprensione delle istituzioni umane. La sua metodologia si fonda sulla “poetica”, intesa come la capacità di creare connessioni tra eventi storici attraverso narrazioni che rispecchiano le mentalità e i valori di un’epoca. In questo modo, Vico anticipa tecniche di interpretazione che saranno centrali nelle scienze umane moderne, come l’ermeneutica e la filologia.
Principi di Scienza Nuova ha avuto un impatto profondo su molti campi del sapere, influenzando pensatori come Hegel e Marx nella filosofia, Croce nella critica letteraria e Joyce nella narrativa modernista. La visione vichiana della storia come processo dinamico e culturalmente determinato ha aperto nuove strade per la comprensione del ruolo delle narrazioni e dei simboli nella vita sociale.
L’opera di Vico, pertanto, nonostante la complessità stilistica e la densità concettuale, rimane una pietra miliare nella storia del pensiero occidentale. Offrendo uno straordinario intreccio di analisi storica e riflessione filosofica, il testo invita a riconsiderare le nostre idee sulla conoscenza e sulla civiltà, proponendo una visione della storia umana come teatro di infinite possibilità interpretative e trasformative.

 

 

 

Geopolitics: a Philosophical Approach

 

 

 

These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.

 

The Geo-Philosophy

Part IV

 

 

Geophilosophy, in itself and in relation to what produces it, is therefore, first of all, a thought of the outside. This is because it has in the “outside” the only philosophical ground from which to draw its start; such a “start” is “unique” because any other ground would be, and is in fact, precluded to it, from the exclusion from which it comes: the almost nothing of heterogeneous existence and provincial thoughtfulness. In trying to reach a certain understanding of its theoretical consistency and its cultural role, geophilosophy thus comes to think of the place of its Herkunft, which means both belonging and provenance, as the fruit of a meiotic activity within a space of immanence. The mechanisms of exclusion and removal proper to meiotic activity destine a part of being to rejection: it is meiosis that produces that secluded region that constitutes, within the totality of things seen, organized, transmissible, and sensible, a Mërtvogo doma, a dead house, a closed region of the heterogeneous that resembles nothing, with its own laws, its own customs, with a life that does not exist anywhere else, where one can suppose that there is no crime that does not have its representative there, where the existing forces, there cohabiting under duress, are put to work under the threat of the stick, but without such employment having any purpose, its only purpose being instead to deceive the wait. A house where one can therefore learn patience in anticipation of being either enabled to join the bright world beyond, or at least pointed out by it as a mere moral reminder. A dwelling in every way similar to that prison of which Dostoevsky not only sculpted the figures, but also the dynamics, the chemical reactions, the vital functions, and the global dysfunction—the Other, for geophilosophy, is not high (Evola), but low (Nietzsche). The zero degree of exclusion corresponds, however, to the groundlessness of the world and the sense and organization of collective life are directly in function of the degree of exclusion. In this way, the crisis of desynthesis of the West comes to express, in addition to what has already been said, the weakening of the mechanisms of self-recognition on the part of the homogeneous world, which indeed used the inside/outside relationship to determine the sense of the positive, of the good, and of the superior in relation to the negative, the bad, and the inferior. The positive and the homogeneous are the ‘inside,’ the heterogeneous, the negative, and the transcendent are the ‘outside’; the ‘inside’ is a free, evasive region, the ‘outside’ is a closed and secluded region; the inside is the part of sense, of reason, of man and of being, the outside is the part of insignificance, of being, of god, and of the beast; the inside is the organized, serviced, and productive urban space, the outside is “the consistency of a vague ensemble that opposes the law (or Polis) as a hinterland, a mountainside, or the vague expanse around the city.” The desynthesis of the West therefore corresponds to an increase in the disorganization of the world, and thus also to an increase in its insignificance. The degree of insignificance to which the world bends corresponds, however, to the degree of liberation of flows of uncoded thought.
In the face of theology as the perfection of philosophical thinking, geophilosophy, one might say, unfolds—in the sense that it hoists, as sails are hoisted—the imperfection of an absolute anthropology. This, unlike subjective anthropology, which assumed the earth as that sector of being that constitutes the subordinate complement of the sphere of transcendence, assumes the earth as the conclusive, extreme horizon, as an “absolute,” within which the terrestrial and the transcendent, being and being, the human and the divine, the ἱδιότηϛ and the πoλίτης exchange incessantly, in a regime of unlimited reversibility.

In the second place, geophilosophy is a “minor” thought. Being excluded from thought does not mean not being able to learn its features, but rather: not being able to utter a philosophically legitimate sentence unless overcoming within oneself the stammering of the ἱδιότηϛ. “Minor,” in the sense of professional and homogeneous philosophy, is that use of the mind that stammers in thought, that use of the mind that is without past and without future, where, precisely, only what has a past, and therefore a future, and therefore a History, is philosophically relevant. Stammering in thought, without past or future, is indeed the almost nothing of provincial thoughtfulness. Taken in the “geo-” sense, this “minority” is therefore, to use a Deleuzian image, the autonomy of the stammerer insofar as he has conquered the right to stammer.
Finally, geophilosophy is a provincial thought, in the sense that it operates starting from the almost nothing of provincial thoughtfulness and unfolds like a path through the fields.
It is not easy to say whether Heidegger’s famous Feldweg also has this sense, but it is certain that if a path through the fields is mentioned here, it is meant to allude to a path that winds far from the road network of professional philosophy, to a path whose destination is not known with precision nor whether it leads anywhere, and thus to a path that must be attempted before it can be mapped. The path through the fields is therefore first of all a “trial path” (Holzweg), then a relationship of orientation with space, with the landscape and places (Wegmarken)—and not with the history of homogeneous thought, at least not primarily—, then a journey delivered to the horizontal development of the earth’s surface; the spirit does not invert, is not something that rises and falls, but rather, as is clear in the preludes of the dream, it rather spreads “over the broad surfaces of the earth, itself mountain and field and earth…”. Why the sky makes sense writes Cesare Pavese, who is perhaps the greatest poet of the landscape and earthliness of our twentieth century you must sink well black roots into the dark and if light flows right into the earth, like a shock, then even the peasants have a sense and cover the hills, immobile as if they were centuries, with green, with fruit and with houses and every plant at dawn would be a life.
The spirit spreads and covers the surfaces, the timeless hills, within a “closed” that we might say, delimits the absolute terrestrial; not therefore “celestial earth,” as has also been said, but rather, on the contrary, terrestrial sky, in the sense that it is the earth that has a sky, and not vice versa.
Finally, this image of the path, refers to a dialectic between ‘locality’ and ‘dislocation’, between rooting and deterritorialization. In the very near future, every thought begins. The landscape determines our first meditations. Our thoughtfulness is initially perhaps nourished by nothing but landscape. In the landscape and in the mother tongue, our ancestral sensibility is preserved and transmitted. The earth, not as a unifying symbol, but as this concrete relationship with a particular place-territory, gathers and preserves what, eluding manipulability, is free from technique: the faces of the ancestors inscribed in the folds of the landscape, the small cemetery up on the coast, where the ancestors insist and things that last forever. But without a dialectic between rooting and deterritorialization, between remembrance and flight, between the Langhe and Turin or the southern seas (to remain with Pavese), the call to the earth is useless rhetoric. Provincial thought unfolds this dialectic. But this dialectic does not reconstruct the universal, does not restore the eternal, does not provide global solutions, does not console, does not expand knowledge, and does not legitimize political choices. It might be said that it, very imperfectly, articulates local truths and transient facts within a concrete morality, also constantly in transit, aimed at clearing the path for the journey of a restricted community, in search of autonomy and “property” in the drift of the West, in search of a possibility of coexistence in the continuum of conflict, in search of a right and a victimizing responsibility in the deflecting system of laws and universalistic ties, and, finally, perhaps, in search of a terrestrial religion in the decline of Transcendence.
Geophilosophy is thus not, strictly speaking, either a new theoretical proposal or political, even if it has its own theoretical consistency and politics to be carried out, but rather a way of giving itself to thought “from the lucid fury that smolders in the somber thoughtfulness of peripheral recesses.” As such, it is but a transitory and lateral phenomenon, exactly as brigandage was caught between the decline of the ancien régime and the advent of the new political organ, the liberal State.

 

 

 

Geopolitics: a Philosophical Approach

 

 

 

These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.

 

The Geo-Philosophy

Part III

 

 

Geophilosophy means first and foremost what its name suggests: geo-philosophy, philosophy of the earth. However, the sense of the genitive, which, as is well known, can be understood in a dual sense, remains unprejudiced. In a subjective sense, the expression “philosophy of the earth” is philosophically banal, as it refers to cosmology if by “earth” we mean the orb, or to natural philosophy or Physics if by “earth” we mean the phýsei onta, the beings that come from Phýsis and that are therefore determined by kínesis, or “motility,” or even to anthropology if by “earth” we mean that sector of being that constitutes the subordinate complement of the sphere of transcendence: ethics as the determination of the good, aesthetics as the determination of the beautiful, law as the determination of the just, and politics as the determination of the good life.
In an objective sense, “philosophy of the earth” can still mean two things:
the earth of philosophy, in an emphatic sense, that is, the homeland, or, as is said today under the influence of a great and controversial master like Heidegger, the Heimat, the native place or womb from which thought is placed or re-placed in the world;
or the being delivered (of thought) to the earth, the absolute terrestriality of thought, its prison, to put it with Nietzsche—if we rightly understand his appeal to fidelity to the earth—, and thus again anthropology, but in a very different sense from the one previously mentioned.
Taken in the objective sense, the expression “philosophy of the earth” can thus mean either a reference to the transcendence of being, which would be the true homeland-motherland of thought (thought is of being, it belongs to it, it is it that places it in the world), or a reference to a plane of “absolute immanence,” on which the human and the historical find consistency but where there is no longer any trace of Man or of History, in which the celestial is contemplated, but only as a possible dimension of an absolute terrestrial, the theological problem is admitted but only as a problem internal to the horizon of an absolute anthropological. Such a thought more than ascertains the fall of man into a closed system; it expresses it, is, so to speak, the symptomatic manifestation of it.
Taken in the objective sense, the expression “philosophy of the earth” thus refers to two irreconcilable things, of which only one is geophilosophy in the sense mentioned above, that is, a thought of local instances, a “Lutheran” use of the mind, and a thought of immanence. Every other meaning of the term refers instead, always anew, to the philosophical primacy of theology.


In general, philosophy is precisely the attempt to assume the earth in the cone of light of an “elevated” and “eternal” gaze capable of embracing everything with a single glance (Plato: synoptikós), or of thinking the whole or the conditions of possibility of the whole (Kant) and thus reflecting its elements and articulations in relation to God or its secularized substitute, the subject, who of God, as Deleuze wrote, conserves precisely the essential: the place. The metric of philosophizing therefore admits, as its only dimension, the verticality; its presupposition is that the whole is transparent in all senses; its perfection is theology; its movement a movement of seesawing between up and down: 1. elevatory perspective, aimed at comprehending all differences and their relationships; 2. descensio ordinatoria, tending to organize and distribute as much meaning as possible.
To make this step, to discover this path between the cracks and in the dysfunction of the Western project, is not, however, professional philosophy, but rather the instances that were traditionally excluded: feminine domestic thoughtfulness, the somber provincial disposition to obsessive fantasies. These instances, emancipated by the expansive movement of the West (urbanized, technologized, acculturated, deprovincialized), suddenly restored as much to the freedom of thought as to the truth of their origins, suffer here an essential shock: faced with the discovery of being nothing other than the silent reserve of the homogeneous world, of the legal and thought community, seized at the edges of historical existence, the primary gesture with which they make their entrance onto the undifferentiated plane of the human is a gesture of refusal or, to be more precise, of withdrawal, of flight toward the thicket. Such “withdrawal” is akin to what Jünger called “passing into the woods,” but it is also an ascent toward the dawn of civilization, toward the prehistoric point at which separation and exclusion have not yet occurred, toward that zero degree of the West in which thought, springing forth, can be founded only on the absence of authority and is therefore, to put it with Bataille, a sovereign gesture, toward the point at which events, occurring, show their radical gratuitousness and in which the state is present rather as pure and simple par-oikía, a system of neighborhood, a form of condominium: neither peace nor war it might be said, mere coexistence—after all, it must be considered that peace is a pure fiction, as it can occur only as the nullification of conflict, brutal subjugation, or annihilation of the enemy as enemy. Such “withdrawal” expresses the refusal to assimilate to the productive homogeneity of the philosophy of the State and the estrangement with respect to its system of legitimation, the derision of its pedagogical function, and the horror for its professionalism. It is for this reason that geophilosophy, at the exact point where it flows, presents itself with the features of a wild thought, not conforming to the educational standards of public philosophy and thus as an uneducated, non-orthopedicized, implausible thought, to which, by definition, the consent of the scientific community cannot go—and therefore also a thought “false” or a false thought and, finally, as an illegal thought, disrespectful of the protocols and legality of scientific practices. Its methodological approach will appear rather as brigandage—this is the meaning to be attributed to the expression “Lutheranism of the mind,” at least from the perspective of homogeneous philosophy: it involves the exercise of something like a “free examination” conducted on texts that the philosophical church transmits, in a sacralizing manner, within a consolidated magisterium; free examination that, in the most extreme situations, may also appear as wild textualism or a sort of methodological vampirism.
Geophilosophy as such arises from a withdrawal of thought, from a wilding, from an attempt to gain not an elevated point of view, but a point of departure as external, lateral, and foreign to the procedures of homogeneous thought as possible. This at least is its public image, its cultural image. From the “geo-” perspective, what here appears as an ensemble of implausible forms presents itself instead now as a fight against culture, now as a revolt against politics, now as a movement of secretion, disappearance, and impulse to autonomy, now as a victimizing philosophy (the assumption of the viewpoint of the victim and the criminal instead of that of the community and the state—the geophilosophy indicates, moreover, an absolute victim, a paradigm of victim: the ἱδιότηϛ, the excluded from common thought, but also the being that stands alone, the private, the domestic, the paysan, the woman, the excluded from the political community and finally the excluded from the historical community, that is, the being without past and future).

 

 

 

Geopolitics: a Philosophical Approach

 

 

 

These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.

 

The Geo-Philosophy

Part II

 

 

The phase of the maintenance of our form of civilization unfolds between two apparently opposite and incompatible moments: synthesis and desynthesis. However, the “expansion” of the system has ultimately led to an irreversible crisis. The “crisis” of the West is not due to the incursion of an allotropic element, but to the simple fact that, through expansion, the political grinds down all that is non-political, the metropolis relentlessly grinds down the provincial and the peripheral, urbanism swallows the countryside, the forest, the mountain…, the philosophical absorbs all that is non-philosophical (literature, art, cinema, television, the dream, madness…)—philosophy even amuses itself by producing its own deconstruction; while History grinds down all that is extra-historical, from peoples without history to the history of that which, not unfolding “in public,” would strictly be without history. Now, this expansion has resulted in what Baudrillard calls “implosion,” that is, the “chemical” suspension of all classic opposition in a solution of reversibility or random aggregation, or anyway, according to laws not reducible to any known reference. Such a suspended state is what I call “desynthesis.”
Desynthesis should be understood not as a sort of reflux, but as a movement of drift, like the expression “galactic drift” in the Big Bang theory. The mutual distancing of nebulae here corresponds to the mutual distancing of State, History, and Philosophy and their internal parts from each other; it involves the disarray of the Western system or, more specifically, the breakdown of the system of legitimation of the Western use of the mind, and thus also the dysfunction of the project that refers to that use.


That there is desynthesis can be inferred indirectly from what we might call the Doppler effect of Western civilization, a sort of “redshift” of the “light” emanating from various formations of the objective spirit in which State, History, and Philosophy are variously intertwined.
The Doppler effect we are discussing consists, for example, of the recording of the decline of the universalistic model of the European nation-state and, more specifically, in the shift of political and legal investments to the local and territorial, such that statehood seems to produce more as a multiplicity of subversive pushes than as a totalization of collective existence in the ethno-political universality of the nation. To biopolitics as the perfection of Western statehood (the subsumption of life as a biological fact under a power that acts with aesthetic nonchalance) is substituted a sort of geopolitics of territorial instances (the dissemination of the political in the folds of the concrete territoriality and domesticity of existence). Thus, philosophy no longer produces itself as a national educational project, but as a sort of concrete morality that articulates local truths and transient facts for the use of restricted communities. To the university philosophy, which untangled universal teachings for a community without particularistic divisions within it, and thus an ethnically, legally, and politically homogeneous community—which guaranteed the universality of education through a system of public degrees and certificates—is juxtaposed something like a thought that speaks without legitimation, without authority, without certifications, and therefore a thought ‘gone wild,’ or better said, ‘uncivilized,’ which moves from a retreat to territorial belonging rather than from an imperial investiture. To hermeneutics as the perfection of the public philosophy of the late twentieth century is substituted a thought of local instances, a geo-philosophy; to the image of the state professor, the meticulous philologist, the pedagogue, the jealous guardian of orthodoxy, and the accumulator of glosses is juxtaposed, precisely in the sense that it slips to the side, to the right, that of the corsair thinker or, better yet, pirate, vampyr, one who sucks the soul (the juice, the sap of a thought) introducing into bodies (his public image) a spirit that does not correspond (Wild textualism)—to the productivity and commensurability of philosophical work, typical moreover of every homogeneous formation, is substituted a sort of heterogeneous dissemination of the thinking function, a shift in the register of thought from accumulation to expenditure, from education to conspiracy, from capital to treasure, from universal power to transitory munificence. On this basis is forming another economy of thought that alongside the global governance of the mind affixes something like a liberalism or an anarchism of its use, to the catholicism of thought (revelation + tradition + magisterium) juxtaposes a mind unaware of the revelativity of philosophy, disacknowledging the magisterium of clerics and exercising a sort of free examination of tradition: Lutheranism of the mind.
(Finally, the same can be said for historicity. This no longer produces itself as the unisignificance of the world and facts. To the homogeneous and transferable spiritual heritage of nations is substituted the experience of discontinuity and rupture, to universal history the incommensurability of the historical experiences of concrete local communities.)

 

 

 

Geopolitics: a Philosophical Approach

 

 

 

These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.

 

The Geo-Philosophy

Part I

 

 

Philosophy no longer makes individuals wiser nor does it impart wisdom; it neither aids in making beneficial life decisions nor does it bring happiness. However, it certainly does not leave everything unchanged—it is not a futile endeavour. This can be demonstrated through indirect reasoning, for instance by examining how political power has repeatedly striven to seize it or control its discourse.
Yet, the issue is more intricate and simultaneously more straightforward than it appears. First, because philosophy is not merely prey to the political; and second, because the relationship among philosophy, politics, and history is highly complex. It is only through the interplay of this complexity, resembling the ever-changing patterns of a kaleidoscope, that we can glean insights into the characteristics of our way of life, our culture, traditionally referred to as the “West.”
It is thus possible to begin with the observation that philosophy is a fundamental and essential aspect of the “Western project.”
The need to define this term (“Western project”) necessitates first clarifying what “project” implies here. If by project we mean looking forward, the foresight of what will be done, and the structured plan of a construction, then it can be defined as the plan that allows us to foresee everything that needs to be done to then tackle a specific construction.
In general, the blueprint upon which our way of life was developed and built includes three constructive orders: the organization of coexistence, the continuity of events, and the certification of beliefs. The West is an ongoing construction whose unfolding is articulated as a combination of these three problem-solving constructs. On the plane of coexistence, the Western project unfolds as a state organization; on that of eventuality and its impermanence, it unfolds as History; and on that of belief and its uncertainty, it unfolds as Philosophy. The State organizes the community, History retains events, Philosophy transforms faith into truth.


One might wonder in what sense philosophy certifies belief, and the answer is that philosophy arises and establishes itself in opposition to myth. The struggle between philosophy and myth is authoritatively attested by Plato. This struggle is primarily a battle for control over the education system (Paideia) and unfolds in three ways: 1. the exclusion of poets, that is, the wise producers of myths, from the Polis; 2. the repositioning of mythical wisdom in a subordinate role to philosophical knowledge; 3. an unequivocal condemnation of the sophist, that is, the practitioner of a private and thus particularistic Paideia, and moreover in exchange for money.
Philosophy firstly rejects the mere faith-based nature of myth (that which is strongly believed is true) and its inability to establish itself as an exclusive sphere, thereby preemptively invalidating the emergence of other myths, and thus of different and conflicting truths. Philosophy counters the particular knowledge of myth and sophistry with the idea of a universal and incontrovertible knowledge. Now, the philosopher’s certainty of possessing absolutely certain knowledge is based on the acquisition of two notions: 1. truth as unveiling (Alétheia); 2. Being as totality (En-pan). By invoking these two notions, philosophy asserts itself as a total, exclusive faith: philosophy is the eternal and ubiquitous knowledge of the unveiled, that is, of that which, remaining unchangeably in the philosopher’s gaze, is always and everywhere true.
The extent to which this conviction is in turn a belief is something that, following the break from Hegelianism, will be categorically highlighted. Philosophy is no more a certain knowledge than myth was, with the difference that this myth, which is philosophy, has found in the coordination with the State and with History the means to suppress, disqualify, or annihilate any different use of the mind.
State, History, and philosophy are not independent magnitudes. Together, they constitute the response to the problems of the incompatibility of coexistence, the impermanence of events, and the uncertainty of belief, whose kaleidoscopic interplay forms the ever-changing, yet always unified, shape of Western civilization. It could be said that each of these magnitudes presupposes and inevitably refers back to the other two, and that none of the three would have the meaning they do outside of their mutual and triadic relationship, nor could they be separated from this relationship without compromising the entire system’s structure, thereby somehow causing its breakdown. This is a system of transparent planes, each bearing a design; their overlapping, in multiple combinations, gives us the complete design of Western Kultur. What allows the reading of the three planes as a civilization project is thus their very transparency. This system of complex overlays could be termed the Western synthesis, namely the union, the joint capacity for promotion, and the mobile connection of State, History, and Philosophy, along with the transparency of each plane relative to the others.
For instance, knowledge that sought certainty outside the constraints imposed by historical existence would be nothing more than the myth against which Plato fought to establish philosophy as the foundation of all public education. Moreover, if there were no centralized and singular control over the education system, if the Paideia presented itself as a multiplicity of conflicting and irreducible proposals, then there would not be a State, i.e., there would not be a single system of publicity and therefore not even a single system of meaning, there would not be that Einsinningkeit, that unisignificance of facts that is the foundation of the Western mind. In its place, we would have something like a plurality of private meanings and disparate images, and thus the possibility, always given, of their irreconcilable conflict; we would have something powerful, tyrannical, and at the same time inert, flaccid, treacherous, something both superstitious and simultaneously dazzling like a foggy lunar night, like a charming creature yet veiled in damp mists, dim, feverish, internally corrupt and contradictory like Madame Chaucaht.
Thus, the West is primarily a State, that is, the opening of a public space measured by Man, whose measure is Man but only insofar as he is philosophically educated—thus: Homo philosophicus and not “man” simply. The West, following the metaphors of the Magic Mountain, is the “clear day,” the “daylight” where things appear in their incontrovertible objectivity, and “cold,” that is, rational, and finally “glassy,” that is, transparent, unambiguous. This public space, rational, objective, and unambiguous is the realm of manifestation of meaningful events. The meaning of such events, for the philosophically educated being, is univocal, that is, universally comprehensible and transmissible. Such events are thus, so to speak, “eternal facts,” which precisely means: transmissible according to a single meaning. For this reason, they are said to belong to History. History is not the space of facts that simply happen and to which “man” simply conforms, but the realm of the happening of “eternal facts,” which are “facts” only for the Homo politico-philosophicus.