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I Principi di Scienza Nuova di Giambattista Vico

Reinterpretare la storia

 

 

 

Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle Nazioni di Giambattista Vico, pubblicato in diverse edizioni tra il 1725 e il 1744, costituisce un punto di svolta nella storia del pensiero filosofico e storico dell’epoca moderna. Questo testo ridefinisce il ruolo della filosofia e della storia, introducendo un nuovo metodo di indagine sulla civiltà umana, basato su principi di variazione e ripetizione, che Vico chiama corsi e ricorsi storici.
Nel XVIII secolo, il contesto culturale europeo era dominato dal razionalismo cartesiano e dall’empirismo inglese, correnti che propugnavano la deduzione logica e l’esperienza sensoriale quali fonti principali della conoscenza. Vico propone un radicale cambiamento di prospettiva, ponendo l’accento sulla comprensione dell’umanità attraverso le fasi del suo sviluppo culturale e sociale. La sua visione contrappone un modello di conoscenza che valorizza la storia e la cultura come chiavi per interpretare la realtà.
Uno degli aspetti più rivoluzionari di Principi di Scienza Nuova è rappresentato dalla teoria dei corsi e ricorsi storici, secondo la quale la storia dell’umanità si sviluppa attraverso cicli di ascesa, declino e rinascita, riflettendo le leggi naturali della vita sociale. Questa teoria costituisce il portato più famoso e innovativo del pensiero vichiano. Il filosofo sostiene che la storia umana non progredisca in linea retta, ma si muova attraverso cicli ripetuti di ascesa, stasi e declino, che lui identifica con le tre età (degli dei, degli eroi e degli uomini). Ogni ciclo è un “corso”, che alla fine porta a un “ricorso”, ovvero una sorta di ripetizione o rinnovamento, che può anche comportare variazioni significative. In altre parole, i pattern storici tendono a ripetersi, ma ogni ripetizione porta con sé elementi nuovi che arricchiscono il tessuto culturale e sociale delle civiltà. Vico vede i corsi e ricorsi come meccanismi attraverso i quali le civiltà sorgono, fioriscono e poi cadono, solo per essere sostituite da nuove civiltà che, pur essendo diverse, passano attraverso fasi simili. Questo ciclo si osserva, secondo Vico, non solo in Europa ma in tutte le civiltà umane. Le leggi, che iniziano come norme religiose o mitiche, evolvono in codici eroici e, infine, in sistemi legali razionali. Questo processo di evoluzione si ripete ogni volta che una società collassa e si riforma. Anche il progresso tecnico e intellettuale segue un percorso ciclico, in cui la conoscenza si accumula, si perde e poi viene riscoperta o reinventata in nuove forme. Vico utilizza questi cicli per criticare l’idea illuminista di un progresso umano inarrestabile e lineare, proponendo, invece, una visione ricorrente del progresso, che riconosce l’importanza delle ripetizioni storiche e della memoria collettiva. Questo modello gli permette di integrare elementi di storia, filosofia, antropologia e psicologia in una sintesi che mira a comprendere la complessità del comportamento e dello sviluppo umano.
Anche teoria delle tre età della storia riflette la visione ciclica della storia, in cui ogni civiltà passa attraverso tre fasi distinte: l’età degli dei, l’età degli eroi e l’età degli uomini.
L’età degli dei si caratterizza per la predominanza del mondo religioso e mitologico. In questo periodo, la società è guidata dalla paura degli dèi e dalle credenze religiose, che sono utilizzate per spiegare la realtà. Le leggi sono percepite come divine e immutabili, imposte da entità sovrannaturali, e non esiste ancora una chiara distinzione tra il naturale e il soprannaturale. La conoscenza è tramandata attraverso miti e simboli, che hanno la funzione di conservare le norme sociali e morali. Segue l’età degli eroi, un periodo in cui emergono figure carismatiche e dominanti, che assumono il controllo delle comunità. Questi eroi, spesso visti come semi-divini o discendenti diretti degli dèi, stabiliscono gerarchie sociali rigide e sono i protagonisti di grandi gesta e conquiste. In questa fase si sviluppano le distinzioni di classe e le strutture feudali o monarchiche. Le leggi iniziano a essere codificate, ma mantengono un forte legame con l’autorità divina. L’ultima è l’età degli uomini, caratterizzata dallo sviluppo di istituzioni più democratiche e dall’affermazione del diritto civile. La religione perde il suo ruolo centralizzante e le leggi vengono viste come prodotti dell’intelletto umano e del consenso sociale, piuttosto che come imposizioni divine. In questa età, la società si organizza attorno ai principi di uguaglianza e di diritto comune, favorendo lo sviluppo delle repubbliche e delle forme di governo partecipativo. L’educazione si diffonde e con essa cresce l’importanza della scrittura e del dibattito pubblico nella vita civile.
Questo schema delle tre età non solo permette a Vico di analizzare la storia umana in termini di sviluppo e declino, ma offre anche uno strumento per comprendere come le società interpretano e integrano i cambiamenti.
Anche il concetto di provvidenza occupa un posto di prim’ordine nell’opera vichiana. La provvidenza divina non è intesa come un intervento miracolistico negli affari umani, ma piuttosto quale principio ordinatore che guida il corso della storia verso fini di giustizia e razionalità. Questa visione differisce radicalmente dall’interpretazione meccanicistica o completamente laica della storia, tipica di molti suoi contemporanei illuministi. Secondo Vico, la provvidenza agisce attraverso le azioni umane e i loro risultati, inserendo un ordine e un fine morale nel flusso degli eventi storici. La provvidenza non elimina il libero arbitrio, ma lo indirizza verso lo sviluppo di civiltà e istituzioni sempre più complesse e giuste.
Il filosofo, inoltre, critica il metodo matematico di Cartesio, proponendo un approccio basato sulla “fantasia”, che considera fondamentale per la comprensione delle istituzioni umane. La sua metodologia si fonda sulla “poetica”, intesa come la capacità di creare connessioni tra eventi storici attraverso narrazioni che rispecchiano le mentalità e i valori di un’epoca. In questo modo, Vico anticipa tecniche di interpretazione che saranno centrali nelle scienze umane moderne, come l’ermeneutica e la filologia.
Principi di Scienza Nuova ha avuto un impatto profondo su molti campi del sapere, influenzando pensatori come Hegel e Marx nella filosofia, Croce nella critica letteraria e Joyce nella narrativa modernista. La visione vichiana della storia come processo dinamico e culturalmente determinato ha aperto nuove strade per la comprensione del ruolo delle narrazioni e dei simboli nella vita sociale.
L’opera di Vico, pertanto, nonostante la complessità stilistica e la densità concettuale, rimane una pietra miliare nella storia del pensiero occidentale. Offrendo uno straordinario intreccio di analisi storica e riflessione filosofica, il testo invita a riconsiderare le nostre idee sulla conoscenza e sulla civiltà, proponendo una visione della storia umana come teatro di infinite possibilità interpretative e trasformative.

 

 

 

America Latina: democrazia, populismo e criminalità

di Giorgio Malfatti di Monte Tretto

 

 

Recensione di Riccardo Piroddi

 

 

 

America Latina: democrazia, populismo e criminalità, di Giorgio Malfatti di Monte Tretto (Eurilink University Press, 2024), ambasciatore e docente universitario, presenta una panoramica esaustiva delle dinamiche politiche, sociali ed economiche dell’America Latina. Il libro si distingue per un’approfondita analisi storica e contemporanea della regione, ponendo l’accento su temi cruciali quali, appunto, la democrazia, il populismo e la criminalità.
Il volume è diviso in due parti principali: la prima si concentra sull’analisi generale dell’America Latina, mentre la seconda consegna una sintesi dettagliata dei singoli Paesi della regione.
L’Autore principia dalla composizione etnica dell’America Latina, evidenziando la complessità e la diversità delle sue popolazioni. Viene tracciata una linea temporale che parte dalle origini indigene, passando per la colonizzazione europea, fino ad arrivare all’attuale combinazione etnica variegata.
Sono poi descritti il passaggio dal colonialismo all’indipendenza, le guerre di indipendenza e le figure chiave come Simón Bolívar e José de San Martín. Viene altresì evidenziato come la transizione abbia lasciato in eredità strutture sociali ed economiche fragili e disuguaglianze persistenti, anche a causa del ruolo predominante dei militari nelle politiche post-indipendenza, un fenomeno che ha contribuito all’instabilità generalizzata e alla formazione di governi autoritari. Viene anche mostrata l’influenza della Chiesa Cattolica nella storia della regione, dalla colonizzazione fino ai tempi moderni, sottolineando il suo ruolo nel mantenimento dell’ordine sociale e nella politica. L’Autore dipinge un quadro dell’America Latina contemporanea discutendo le problematiche attuali, come la disuguaglianza, la corruzione e la violenza, e fornendo una panoramica delle principali organizzazioni criminali che operano nella regione, il loro impatto sulla società e l’economia e le strategie di contrasto adottate dai governi locali.
La seconda parte del libro, invece, si concentra sull’indagine approfondita dei singoli Paesi, con l’esame della loro storia, della politica, dell’economia e le specifiche sfide che ciascuno deve affrontare. Tra i Paesi trattati vi sono Messico, America Centrale (inclusi Honduras, Guatemala, El Salvador, Belize, Costa Rica, Nicaragua, e Panama), i Caraibi (Cuba, Haiti, Repubblica Dominicana, Giamaica, e i territori d’oltremare della Francia), Colombia, Venezuela, Ecuador, Perù, Bolivia, Paraguay, Brasile, Argentina, Uruguay e Cile.
Il volume fornisce una dettagliata analisi storica e contemporanea dell’America Latina. L’Autore, infatti, collega gli eventi passati con le condizioni politiche, sociali ed economiche attuali, offrendo una prospettiva di lungo periodo sulle dinamiche che hanno plasmato l’America Latina.
Dovuta attenzione è data anche alle dinamiche politiche correnti, con un particolare focus sui temi della democrazia e del populismo. Malfatti analizza come questi fenomeni siano evoluti nel tempo, influenzando i sistemi di governo e la stabilità politica dei vari Paesi.
Scopo precipuo del libro è indagare il fenomeno del populismo in America Latina. L’Autore dimostra come questo sia emerso quale risposta alle disuguaglianze sociali e alle crisi economiche e come abbia condizionato la politica regionale. Vengono presentati i casi di vari leader populisti e i loro impatti sulle società latinoamericane.
Un altro obiettivo del volume è lo studio della criminalità organizzata nella regione. Vi è infatti esposta una panoramica delle principali organizzazioni criminali, i loro modus operandi e il loro impatto sulla stabilità sociale ed economica. Viene altresì analizzato il legame tra criminalità organizzata e politica e come questo influisca sullo sviluppo della regione.
Ampio risalto è dato anche all’analisi delle relazioni internazionali dell’America Latina, con un particolare focus sul rapporto con gli Stati Uniti e come questo abbia influenzato le dinamiche politiche ed economiche locali. L’Autore mostra pure il ruolo di altre potenze globali e le loro interazioni con i Paesi latinoamericani.
Anche le questioni socio-economiche che affliggono l’America Latina, come la povertà, le disuguaglianze sociali e la distribuzione del reddito, sono vagliate, in particolare, l’impatto delle politiche economiche neoliberiste e assistenzialiste e come queste abbiano influenzato il benessere delle popolazioni locali.
L’opera si distingue per il suo approccio esaustivo e critico, offrendo ai lettori una visione completa e informata delle problematiche storiche e contemporanee della regione. È un testo fondamentale per chiunque desideri comprendere le complesse dinamiche che caratterizzano l’America Latina perché, con la sua ricchezza di dettagli storici e analisi approfondite, consegna una visione completa e critica delle problematiche attuali della regione.

 

 

 

De Cive di Thomas Hobbes

Stato di natura, stato civile, contratto sociale, “Leviatano”

 

 

 

De Cive (Il Cittadino), pubblicato originariamente in latino, nel 1642 e, successivamente, in inglese, nel 1651, si colloca cronologicamente tra le due grandi opere di Thomas Hobbes, Leviatano (1651) e De Corpore (Il Corpo, 1655). Il contesto storico di De Cive è cruciale per comprenderne le tematiche. Hobbes scrive durante un periodo di instabilità in Inghilterra, caratterizzato dalla guerra civile (1642-1651). Il conflitto tra la monarchia di Carlo I e il Parlamento costituisce un retroscena di caos e incertezza, che influenza profondamente il pensiero di Hobbes. La sua speculazione filosofica è una risposta diretta al disordine e alla paura di anarchia che percepisce attorno a sé, cercando di trovare soluzioni teoriche per la pace e la stabilità sociale.
L’Autore sviluppa in quest’opera una visione del mondo radicalmente nuova e meccanicistica. L’uomo è visto come un corpo in movimento, guidato da appetiti e avversioni, le cui interazioni determinano la struttura della società. Nel trattare gli aspetti antropologici, Hobbes dipinge un ritratto dell’uomo mosso primariamente dall’istinto di autoconservazione. Questa concezione pessimistica dell’essere umano, essenzialmente egoista e trasportato dal desiderio di potere, è fondamentale per comprendere il suo appello a un’autorità assoluta.
Il filosofo introduce il concetto di stato di natura, in cui gli uomini sono liberi e uguali. Tale libertà, però, conduce inevitabilmente al conflitto. Da qui, l’esigenza di un potere sovrano che imponga l’ordine e garantisca la pace, attraverso il contratto sociale: gli individui cedono i loro diritti al sovrano in cambio di protezione, un’idea che avrebbe influenzato profondamente il pensiero politico successivo.
Hobbes approfondisce in modo significativo la distinzione tra lo stato di natura e lo stato civile, concetti fondamentali per la comprensione del suo pensiero politico e filosofico. Questi servono a fondare la sua rappresentazione del contratto sociale e a delineare la transizione necessaria dalla natura alla società, per garantire sicurezza e ordine civile.
Secondo Hobbes, lo stato di natura è una condizione ipotetica, in cui gli esseri umani vivono senza una struttura politico-legale superiore che regoli le loro interazioni. In De Cive, così come nel più celebre Leviatano, il filosofo descrive lo stato di natura con la famosa frase homo homini lupus (l’uomo è lupo per l’uomo). Non vi esistono leggi oltre ai desideri e alle paure individuali; è un ambiente in cui vigono il sospetto perpetuo e la paura della morte violenta. Tutti gli uomini sono uguali, nel senso che chiunque può uccidere chiunque altro, sia per proteggersi sia per prevenire potenziali danni. Di conseguenza, lo stato di natura è caratterizzato da una guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes), la vita è “solitaria, povera, brutale, brutta e breve”, come scriverà poi in Leviatano.


La transizione dallo stato di natura allo stato civile avviene mediante il contratto sociale, un’idea che Hobbes sviluppa per spiegare come gli individui possano uscire dallo stato di natura. Sostiene, infatti, che questi, mossi dalla razionale paura della morte violenta e dal desiderio di una vita più sicura e produttiva, decidano di istituire un’autorità sovrana a cui cedere il proprio diritto naturale di governarsi autonomamente. Questo sovrano, o “Leviatano”, è autorizzato a detenere il potere assoluto per imporre l’ordine; non è parte del contratto sociale e, quindi, non è soggetto alle leggi che impone. La sua autorità deriva dalla consapevolezza collettiva che senza un tale potere la società regredirebbe allo stato di natura. Gli individui accettano di vivere sotto un’autorità assoluta per evitare il caos e la violenza che altrimenti prevarrebbero.
La contrapposizione tra stato di natura e stato civile ha profonde implicazioni filosofiche e politiche. Hobbes sfida le nozioni precedenti di società governata dalla morale o dal diritto naturale, sostituendo questo modello con la necessità di un potere sovrano e indiscutibile per mantenere l’ordine. La visione hobbesiana del contratto sociale ha influenzato profondamente la teoria politica moderna, anticipando questioni di consenso, diritti individuali e natura del potere politico. La sua analisi rimane pertinente per le discussioni contemporanee sui fondamenti della legittimità del governo e sui diritti degli individui rispetto al potere statale. La dicotomia tra stato di natura e stato civile, in definitiva, costituisce anche una riflessione profonda sulla condizione umana e sulla società.
In De Cive, Hobbes articola una visione del mondo e una filosofia politica che riflettono le sue profonde preoccupazioni riguardo alla natura umana e alla necessità di ordine. In un’epoca di grandi turbamenti propone una soluzione radicale al problema della coesistenza umana, ponendo le basi per la moderna teoria politica. L’opera, quindi, non solo riflette il tumulto del suo tempo, ma offre anche spunti di riflessione ancora attuali sulla natura del potere e sulla condizione umana.

 

 

 

 

La nascita, nell’Europa medievale, delle scuole laiche
e delle Università, interpretata in maniera molto singolare

 

 

 

Tratto dal mio “La Letteratura Italiana – Dalle origini al primo Novecento”, Eurilink University Press, 2022, pp. 42-43

 

“…Verso la metà dell’XI secolo, tuttavia, qualcosa cominciò a cambiare. Qualcuno decise di mettersi in concorrenza con la Chiesa. “Perché devono essere solo loro a insegnare, a scegliere le materie e i programmi? Perché la Bibbia deve essere l’unico manuale in uso di storia, geografia, letteratura, lingua, psicologia, fisica, chimica, architettura, ingegneria, astronomia, religione e pure educazione fisica?”.
Molti uomini, allora, estranei ai ranghi ecclesiastici, quando si incontravano all’osteria, la sera, dopo cena, cominciarono a discutere di filosofia aristotelica la quale, anche attraverso le traduzioni e i commenti dei dotti arabi Avicenna e Averroè, era giunta in Occidente. Così, parla oggi, discuti domani, leggiti il libro per dopodomani, i conversanti aumentavano sempre di più. Gli osti facevano affari d’oro, perché avevano messo la consumazione obbligatoria e, quando si faceva tardi, fittavano pure qualche camera per la notte con la prima colazione compresa. La cuccagna, per i gestori di osterie e taverne, però, durò poco. Ben presto, in tanti decisero di riunirsi in luoghi più adatti alle discussioni, alla lettura e allo studio.
Ed ecco che nacquero le Università e, in due secoli, dall’XI al XIII, ne sorsero in tutta Europa. Ogni città importante aveva la propria. Vi si poteva studiare la filosofia, le lettere, il diritto e le cosiddette arti liberali, fondamento di tutta l’istruzione dei secoli precedenti: la grammatica, la retorica, la dialettica, la musica, l’astronomia, l’aritmetica e la geometria. Tutto era molto ben organizzato: gli studenti, dopo aver letto i testi consigliati dai maestri, sceglievano quale corso seguire e in che materia diventare dotti.
Essi, inoltre, erano liberi di discettare con i docenti, senza dover sostenere esami, né scritti, né orali, ma, semplicemente, confrontando il loro pensiero con quello degli antichi, come, ad esempio, Aristotele e tanti altri, e con i compagni di banco. Era, dunque, un metodo di insegnamento e apprendimento molto particolare. Se oggi fosse ancora così, molti studentelli ne approfitterebbero e non imparerebbero un bel niente…”.

 

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part VIII

To conclude

 

Globalization and technological advancement have stripped States of significant portions of sovereignty, undermining their ability to independently exercise legislative power, a fundamental aspect in tax regulation. Cyberspace eradicates physical barriers, making borders permeable and creating spaces unregulated by any State authority, floating between the territorial realities defined by countries. This gives rise to de-territorialised digital environments, characterized by a widespread lack of physical tax identity and the virtualization of tax bases, escaping traditional tax logic. In this context, profits generated beyond national borders become nearly unreachable for State taxes. Thus, the internet is configured as a lawless territory, where State sovereignty seems to lose its grip, leaving room for a new order to be built. While the State attempts to maintain control over the remnants of sovereignty eroded by the digital, projecting them onto static taxpayers, mobile incomes, and capitals benefit from the elimination of geographical distances thanks to technology, moving silently and without leaving tangible traces.
The advent of the internet has posed new challenges to State taxation, pushing towards an adaptation of sovereignty principles to the dynamics of e-commerce. Internationally, efforts have been made to create a uniform legal framework that balances the fiscal needs of States with the development of digital commerce, through international cooperation and the renegotiation of traditional tax principles.
The issue of regulating the web legally calls for a radical change in perspective, rising above the earthly and traditional conceptions of law and its violation. Globalization challenges the linearity of legal thought, inviting a vertical reflection that can accommodate the complexities of the digital world. In this scenario, the law takes on a new dimension, seeking to give shape and limits to transgression, distinguishing itself from a purely moral approach and trying to establish a balance between the fluidity of digital relations and the need for a legal order that can regulate them effectively.

 

 

 

 

La società aperta e i suoi nemici
di Karl Popper

Il manifesto razionale di libertà

 

 

 

 

La società aperta e i suoi nemici, pubblicata da Karl Popper in due volumi, tra il 1943 e il 1945, presenta una critica radicale al totalitarismo e difende con passione il valore delle società democratiche e liberali. La sua analisi si estende attraverso la filosofia, la storia e la politica, rendendola una pietra miliare nel pensiero del XX secolo.
Il testo fu redatto durante gli anni della Seconda guerra mondiale. Popper stesso, originario di Vienna e di famiglia ebraica, visse gli orrori del totalitarismo nazista prima di fuggire in Nuova Zelanda, dove poi scrisse l’opera. Il contesto storico è fondamentale per comprendere l’urgenza e l’impeto con cui l’Autore attacca quelle teorie filosofiche che, secondo lui, avevano pavimentato la via ai regimi totalitari.
Il filosofo descrive la società aperta come un sistema sociale caratterizzato dalla flessibilità, dalla capacità di auto-correzione e dal governo attraverso decisioni consensuali piuttosto che coercitive. La società aperta promuove l’innovazione e il cambiamento continuo, incoraggiando il dibattito, la critica e la diversità di opinioni. La sua essenza sta nell’abilità degli individui di vivere senza imposizioni da parte dell’autorità e di partecipare attivamente alla formazione delle politiche pubbliche. Per meglio comprendere la società aperta è utile considerare il suo opposto: la società chiusa. Questa è caratterizzata da strutture statiche e gerarchiche, dove il cambiamento è percepito come una minaccia all’ordine sociale stabilito. Le società chiuse spesso mitizzano il passato e aderiscono a ideologie rigidamente deterministiche, che giustificano il controllo autoritario e la limitazione delle libertà individuali. Popper vede tali caratteristiche proprio nei regimi totalitari del suo tempo, che sfruttano tali ideologie per sopprimere il dissenso e mantenere il potere.
Il filosofo critica aspramente le teorie storico-deterministiche di Platone, Hegel e Marx, accusandoli di essere “nemici” della società aperta, a causa delle loro visioni utopiche e totalitarie, che sostengono una inevitabile marcia verso determinati ideali politici, giustificando così il sacrificio degli individui per obiettivi collettivi supposti. Egli sostiene che questa visione della storia sia scientificamente infondata e pericolosamente vicina a giustificare i peggiori eccessi dei regimi autoritari. La storia, al contrario, è fatta di scelte imprevedibili e l’azione umana è caratterizzata da una responsabilità morale individuale, non da traiettorie prefissate. Per questo, propone ciò che chiama “razionalismo critico”, un approccio che valorizza la discussione aperta e il miglioramento incrementale della società attraverso la scienza e la critica piuttosto che con rivoluzioni violente.
Popper stigmatizza Platone per il suo idealismo e la sua teoria dello Stato governato da filosofi-re, che giudica come l’antitesi della democrazia. Il modello platonico promuove una società chiusa e statica, dove il cambiamento è inteso quale corruzione dell’ordine ideale. Attacca Hegel per il suo orientamento assolutista e la sua filosofia della storia, che presenta uno sviluppo dialettico verso uno stato finale di libertà assoluta, riscontrandovi addirittura l’antecedente ideologico del nazionalsocialismo tedesco e del fascismo italiano, valutazione che si estende anche a teorie che predicono inevitabili conclusioni storiche, compreso il marxismo. Anche riconosce in Marx un’intenzione morale di migliorare le condizioni delle classi lavoratrici, disapprova il suo determinismo economico, sostenendo che, nonostante le sue intenzioni, finisca per fornire una giustificazione filosofica all’autocrazia rivoluzionaria, che si presume agisca nel nome dell’inevitabile marcia della storia verso il comunismo.La parte conclusiva dell’opera è dedicata alla difesa della società aperta, che Popper identifica con la democrazia liberale, interpretata non solo come un sistema politico, ma come ethos culturale che valorizza la libertà individuale, il pluralismo e il cambiamento progressivo attraverso metodi pacifici e razionali. La democrazia liberale è innanzitutto un processo. Non è statica né definita da una particolare configurazione istituzionale, ma è un sistema dinamico che consente il cambiamento e l’adattamento. Il filosofo critica le visioni utopiche che vedono la politica come ricerca di un ordine ideale e immutabile. Al contrario, asserisce che la società aperta sia caratterizzata da “una disposizione a imparare dall’errore”, qualità che permette alle società democratiche liberali di correggersi e migliorarsi continuamente. Eleva il concetto di tolleranza a principio fondamentale della società aperta, pur avvertendo contro il “paradosso della tolleranza”: infatti, la tolleranza illimitata può portare alla distruzione della tolleranza stessa, se si permette ai tolleranti di sfruttare la libertà offerta per sopprimere i diritti altrui. In una società aperta, la tolleranza richiede un equilibrio attivo, a cui i limiti sono posti per prevenire l’ascesa di forze intolleranti e autoritarie. Un aspetto risolutivo della democrazia liberale è costituito dall’importanza del disaccordo e del dibattito aperto. Popper sostiene che il progresso scientifico e sociale si verifichi per mezzo di un costante processo di congettura e confutazione, dove le teorie sono proposte, testate e spesso confutate. Analogamente, la democrazia deve operare attraverso un dialogo aperto e critico, in cui le politiche sono proposte, discusse e modificate in risposta ai giudizi e ai cambiamenti delle circostanze. Infine, pone una forte enfasi sui diritti individuali quale fondamento della democrazia liberale. La loro protezione non è solo una questione di giustizia legale o morale ma è essenziale per la creazione di un ambiente in cui gli individui possono pensare, esprimersi e agire senza paura di repressione, considerando ciò essenziale per il mantenimento di una società aperta e per il progresso continuo verso una migliore condizione umana.
La società aperta e i suoi nemici, quindi, non è solo un testo di filosofia politica, ma anche un appello accorato alla vigilanza e alla responsabilità individuale nelle società democratiche. L’analisi di Popper rimane estremamente rilevante oggi, in un’epoca in cui le democrazie sono nuovamente messe alla prova da forze autoritarie e populiste. La sua visione della società aperta offre un quadro prezioso per comprendere e affrontare le sfide contemporanee nel mondo politico e sociale. In un’era di crescente polarizzazione, populismo e attacchi alle istituzioni democratiche, il modello di società aperta di Popper serve come promemoria dell’importanza di mantenere e difendere i principi di apertura, tolleranza e dialogo democratico. La sua teoria rimane un potente strumento analitico per i difensori della libertà e della democrazia in tutto il mondo, esortando a non dare mai per scontata quella libertà e a combattere continuamente per la trasparenza, la comprensione e il dialogo, pilastri di ogni società veramente aperta.

 

 

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part VI

On Hegel again

 

The market narrative transforms into a tale of synchronism, capturing the temporal reality of individuals and propelling them into an electronic and offshore dimension where spatial and State boundaries dissolve. This process occurs in a context where anchorage becomes purely formal on a legal level and deeply meaningful economically. At the heart of market dynamics lies its very essence, outlined by a sphere where competition and the repetition of competitive challenges find their place. However, the existence of the market presupposes a legal and institutional framework, manifested through a set of laws, regulations, principles, and practices, thus inviting the State to participate, in a relationship where the market law becomes a matter for the State, sometimes in competition with other State entities.
In the global context, the uninterrupted presence of financial technology dominates, opening doors to new possibilities. The modern lex mercatorum operates in a globally undifferentiated and spatially de-qualified market, but still characterized by the political division into different States, aiming to overcome legal discontinuities and regulate uniformly the spatial deformity of territories, reconciling the needs of the stateless mercantile society with those of national States.
This situation introduces a dilemma between universality and multiplicity, renewing the concept of nomos, which no longer identifies with the unification of law and territory, but reflects the interdependence and independence of actors from the State, highlighting a permanent friction between States and markets. Consequently, the law finds itself weakened between the limited territoriality of norms and the universality of economic relations, challenging the old narratives of State.
This new dynamic sets Earth and Sea as symbols of the different potentialities of existence and contrasting scenarios of human history, where the Earth is seen as the mother of law and the Sea as a domain free from juridical and spatial boundaries, symbolizing infinite freedom.
Finally, the ancient act of land occupation, nomos, clashes with the universalism of economic exchanges, leading to the necessity of a new legal category that can rationalize the chaotic space of globalization. This need leads to the conception of a law that transcends terrestrial constraints, offering new perspectives to regulate the vast and indeterminate space of major economic exchanges, with technology emerging as a regulating principle. In this scenario, the law adapts to regulate the digital and transnational economy, challenging the traditional opposition between territorial law and global economy.
The rhetorical figure of the owl associated with Minerva is often invoked to attribute to Hegel and his philosophical thought a belated, almost posthumous role: that of intervening in reality only to confirm and ratify events that have already occurred. In this interpretation, Hegel’s philosophy would be reduced to an ideology that retroactively legitimizes what has already happened, thus representing a historical narrative written by the victors, emerging at twilight similarly to the appearance of an owl.
However, Hegel’s assertion that “what is real is rational, and what is rational is real” invites us to view the present through a conceptual lens, allowing the intellect to become an active agent in shaping reality. Consequently, the symbolism of the owl should not be interpreted as mere legitimization of the existing state of affairs, but rather as a call for thought to embark on a gradual and profound process of understanding, in order to mould the future. The task of conceptual elaboration thus proves essential for mediating and resolving conflicts, organizing them into a dynamic unity that, despite its cohesion, does not erase the distinctive peculiarities of each position.
Hegel thus emerges as the architect of thoughtful mediation, strongly opposing any attempt at immediate or superficial solutions. He criticizes the pursuit of intuitive and spontaneous genius, as well as rejects any form of mystical ecstasy or charisma, abhorring the presumption of those who claim to be direct spokespersons of divinity or interpreters of the absolute through altered states of consciousness. Dialectics, for Hegel, is precisely that method of thought capable of organizing and synthesizing conflict through careful and gradual elaboration, merging universality with the vital needs of every single component.

 

 

 

 

 

Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza
tra gli uomini

di Jean-Jacques Rousseau

Un terreno recintato e la società civile

 

 

 

 

Jean-Jacques Rousseau, nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, pubblicato nel 1755, esamina le radici profonde e le conseguenze della diseguaglianza umana, presentando una critica serrata alle società moderne, basate sulle istituzioni e sulla proprietà privata. Quest’opera si distingue quale uno dei testi fondamentali nella storia della filosofia politica e sociale, proponendo una riflessione profonda che interpella ancora oggi il lettore su temi di bruciante attualità.
Il Discorso è stato scritto in un’epoca di grande fermento intellettuale, il cosiddetto “secolo dei Lumi”, durante il quale in Europa si principiò a mettere in discussione le strutture tradizionali del sapere e del potere. Rousseau si inserisce in questo dibattito con una posizione originale e spesso in contrasto con altri pensatori illuministi, come Voltaire e Diderot, critici nei suoi confronti. Il suo pensiero si fa portavoce di un ritorno alla natura e alla semplicità originaria dell’uomo, concetti che prefigurano i temi romantici e rivoluzionari successivi.
Il trattato è diviso in due parti principali. Nella prima, è descritto lo stato di natura dell’uomo, un periodo ideale in cui gli individui vivevano isolati, pacifici e in armonia con la natura, liberi da bisogni artificiali e dalla corruzione morale. Questa condizione utopica è segnata da una perfetta eguaglianza tra gli uomini, in netto contrasto con lo stato attuale. Nella seconda parte, è analizzato come l’umanità sia passata da questo stato di natura a quello di società civile. “Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri così ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avesse gridato ai suoi simili: «Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!»”, scrive Rousseau, ponendo l’accento sul ruolo della proprietà privata come origine principale delle diseguaglianze: con l’accumulo e la delimitazione della proprietà, si sviluppano invidia, competizione e, di conseguenza, il governo e le leggi come mezzi di protezione delle ricchezze acquisite. Questa transizione segna per Rousseau la perdita dell’originaria libertà e uguaglianza, dando vita a un’infelicità diffusa e a conflitti continui.
Uno dei pilastri filosofici del Discorso è proprio la riflessione su come la proprietà privata sia la radice delle diseguaglianze. Rousseau sostiene che, con la sua introduzione, gli esseri umani siano diventati competitivi, gelosi e aggressivi. Questa idea ha influenzato le successive teorie filosofiche e politiche, ponendo le basi per le discussioni moderne sul capitalismo e sul comunismo.


Rousseau, poi, esamina la relazione tra libertà individuale e accettazione del potere politico, interrogandosi sulla legittimità delle istituzioni che privano l’individuo della libertà a favore dell’ordine sociale. Questo dibattito, tra l’altro, è fondamentale nella storia della filosofia politica e continua a influenzare il pensiero liberale e democratico.
Il filosofo ginevrino è chiaro nel distinguere le diseguaglianze naturali (di forza o intelligenza) da quelle sociali, che derivano da convenzioni umane, come la legge e la proprietà. La sua opera spinge anche a riflettere su come le strutture sociali modellino e, talvolta, distorcano le relazioni umane.
Sebbene Rousseau sia stato un filosofo dell’Illuminismo, molte sue idee conducono una critica radicale del concetto di progresso tecnologico e culturale che altri suoi contemporanei celebravano. Infatti, vede proprio nel progresso la causa di nuove diseguaglianze e dipendenze, una visione che prefigura le moderne critiche al neoliberismo e alla globalizzazione. La sua visione di un’armonia perduta tra l’uomo e la natura è diventata un riferimento per i movimenti ecologisti, mentre la sua critica delle diseguaglianze alimenta il dibattito sulla redistribuzione delle risorse e sulla giustizia economica.
L’analisi di Rousseau, quindi, invita a una riflessione critica sulle basi stesse delle nostre società moderne. Egli suggerisce che le diseguaglianze non siano un inevitabile prodotto naturale ma il risultato di scelte politiche e sociali, spesso radicate in istituzioni ingiuste. La sua critica alla proprietà privata e il suo ideale di un ritorno a uno stato più naturale e egualitario continuano a influenzare le discussioni contemporanee su giustizia sociale, diritti umani e ambientalismo.
Nel Discorso, Rousseau non solo traccia un ritratto critico dell’evoluzione sociale dell’umanità ma pone anche le fondamenta per una filosofia della libertà e dell’eguaglianza. Le sue considerazioni filosofiche e sociali continuano a essere di straordinaria attualità, sfidando le nostre concezioni di giustizia, potere e umanità. La sua opera, quindi, rimane una lettura essenziale per chiunque sia interessato a comprendere le radici filosofiche delle diseguaglianze sociali ed economiche.
La capacità di Rousseau di connettere la filosofia con le questioni sociali concrete rende il suo lavoro immortale, provocatorio e profondamente umano, offrendo spunti di riflessione validi ancora oggi, in un’epoca in cui le diseguaglianze continuano a essere al centro del dibattito politico e sociale globale.

 

 

 

Utopia di Thomas More

L’isola che non c’è

 

 

 

Utopia, pubblicata nel 1516 da Thomas More, è un’opera che non solo ha introdotto un nuovo genere letterario, quello della letteratura utopica, ma ha anche offerto uno spaccato profondo delle tensioni politiche e filosofiche del Cinquecento inglese ed europeo. Attraverso la descrizione di un’isola immaginaria e della sua società ideale, More esplora temi di giustizia sociale, organizzazione politica e morale individuale.
L’Autore scrive Utopia nel contesto dell’Inghilterra del XVI secolo, un periodo di grandi cambiamenti e di instabilità politica. L’Europa è attraversata dalle prime ondate di Riforma protestante e dalla dissoluzione dei monopoli ecclesiastici, mentre i regni si trovano a navigare le complesse dinamiche del capitalismo nascente. In questo quadro, More, uomo di legge e Lord Cancelliere sotto Enrico VIII, propone un modello di convivenza che critica tanto le monarchie assolute quanto le tensioni economiche prodotte dall’emergente mercantilismo.
Il libro è diviso in due parti: la prima contiene una critica pungente delle politiche europee dell’epoca, specialmente quelle inglesi, mentre la seconda descrive l’isola di Utopia. Questa divisione riflette la doppia visione di More che, da un lato, denuncia le ingiustizie del suo tempo e, dall’altro, propone un modello alternativo basato su principi di equità e comunanza delle risorse.
Utopia è rappresentata come una società che ha abolito la proprietà privata, dove i beni sono condivisi e l’avidità è vista come un vizio non solo morale ma anche sociale. Il lavoro è obbligatorio per tutti, garantendo che nessuno possa accumulare ricchezze a discapito di altri. More introduce anche un sistema educativo avanzato e inclusivo, mirato al miglioramento morale oltre che intellettuale.
L’opera è ricca di implicazioni filosofiche che non solo delineano una critica sociale, ma invitano anche a un esame delle basi etiche e dei principi su cui si potrebbe costruire una società ideale.
La nozione di bene comune è centrale in Utopia. More immagina una società dove la proprietà privata non esista; tutti i beni sono di proprietà comune e gestiti dallo Stato. Ciò elimina non solo la povertà, ma anche l’invidia e il crimine che, secondo l’Autore, sono spesso prodotti dalla disuguaglianza economica. Questa visione utopica riflette influenze platoniche, in particolare l’idea della proprietà comune tra i guardiani nel dialogo Repubblica. More utilizza questo modello per criticare le ingiustizie del capitalismo nascente, proponendo un’alternativa radicale che oggi potremmo associare al comunismo utopico.


Il lavoro, poi, è obbligatorio per tutti i cittadini e si basa su un’etica che valorizza il contributo individuale al bene comune. Questo non solo assicura che ogni individuo contribuisca alla società, ma promuove anche un senso di solidarietà e cooperazione. L’obbligo di lavorare riduce la dipendenza da servitù o schiavitù, concetti molto presenti nell’Europa del XVI secolo. La visione di More sul lavoro come dovere sociale e fonte di realizzazione individuale anticipa discussioni moderne sull’etica del lavoro e sul suo ruolo nell’autorealizzazione.
L’approccio di More alla legalità è notevolmente progressista. Le leggi sono poche e semplici, progettate per essere facilmente comprensibili da tutti i cittadini, evitando così la corruzione e l’abuso di potere, che spesso accompagnano sistemi legali complessi e arcuati. Inoltre, il sistema giuridico di Utopia è orientato più alla prevenzione del crimine e alla rieducazione del criminale che non al suo semplice castigo. Questa visione riformista della legge come strumento di giustizia sociale riflette le idee dell’Autore sulla moralità applicata alla legislazione, dove le pene severe sono rare e considerate contrarie all’etica della rieducazione.
More, inoltre, propone un modello di tolleranza religiosa che è eccezionale per il suo tempo. L’isola accoglie una varietà di credenze religiose e i conflitti teologici sono risolti attraverso il dialogo e la persuasione piuttosto che la coercizione. Questo pluralismo non solo critica la tendenza dell’Europa coeva di risolvere le differenze religiose attraverso la violenza, ma propone anche un modello di coesistenza pacifica che prefigura le moderne società laiche.
Le proposte di More, pertanto, sebbene idealizzate, fungono da critica alle strutture di potere del suo tempo e offrono spunti ancora rilevanti per le discussioni contemporanee su come costruire società più giuste e equilibrate. Utopia, quindi, non è solo un’opera di critica sociale, ma un manifesto filosofico che interroga i fondamenti stessi della società umana. Sebbene l’isola di Utopia possa apparire come un’ideale irraggiungibile, le questioni che solleva sono di straordinaria attualità. L’opera invita a un esame critico delle strutture di potere e delle disuguaglianze, mostrando come la letteratura possa fungere da catalizzatore per il cambiamento sociale e culturale. La visione di More non offre solo una fuga dall’iniquità, ma una mappa per una rifondazione della società basata su principi di equità e giustizia condivisa.

 

 

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part IV

Hegel’s political legacy

 

The titanic struggle between the Lord and the Servant, interpreted through the Marxist lens, highlights the parallel between the feudal lord and the capitalist master. Just as the feudal lord appropriates the products of the Servant’s labour by consuming them directly, the capitalist master strips away the material labour of the worker, converting it into the abstract form of surplus value, the source of his profit. Consequently, the entrepreneur emerges as the adversary of community fabric and its ethical closeness, introducing the cold distance of the abstraction of exchange value.
This analysis overlooks the fact that every trend toward a new feudalism, observable in every projection that privileges the tangible in an era dominated by the abstract, is inherently anachronistic. It presupposes a return to borders in a boundless age, to land in the epoch of space, reinstating demarcations in a universe devoid of constant reference points.
The contemporary reaction to globalization, which inclines towards the recovery of national and community identity, the rediscovery of ethical authenticity devoid of external comparisons, the valorisation of the tangible devoid of commercial exchanges, and of relations devoid of political commitment, reflects a strong political inclination. In this context of total mobilization, the opposition to globalism does not offer a path to emancipation but rather anticipates the birth of new dominators who, exploiting abstraction, leave the current and future Servants to fight for a soil and an existence unalienated: 1) a soil made unproductive not by domination, but by the obsolescence of a thought that seeks legitimacy exclusively in the land; 2) an aspiration to non-alienation that, at the heart of the system, highlights a theft, the alienation of real labour for the gain of capital.
The challenge of globalization cannot be addressed by simply opposing and attempting to reverse positions in the name of values, since even values fit into the logic of the same domain being critiqued. Capitalism is based not so much on the exchange value and the importance of the consumer but on the remuneration of risk and the capacity for entrepreneurial initiative.
The real dynamic between State and market lies in the mutuality of services, a relationship that encompasses the economic, legal, and relational. Contrary to the isolation of the subject theorized by neoclassical economics, the actors in the enterprise are those who enter into a relationship of mutual openness in the market. And on this particular point, the philosophical debate on the relationship between Lord and Servant has much more to explore.
The renewal of the Hegelian conflict between the dominant and the subaltern manifests in the contrast between mobile and globalized individuals and those static, confined to a State or territory. On one side are the Lords who can choose the legal conditions most advantageous to them, on the other are the Servants, anchored to a territory, who therefore suffer increased taxation by impoverished States.
Hegel had already interpreted this conflict as a confrontation between the abstract and the tangible: the Lord, having at his disposal money and language, dispenses with the concreteness of things, substituting them with symbols, just as money does. Instead, the Servant, devoid of substance, possesses only a language and a dialect, incapable of communicating on a universal scale. While the Servants remain anonymous and without public recognition, the Lord, not even needing a surname, is universally recognized.
Money and language emerge from the willingness to risk physical presence, including one’s life. This courage characterizes the entrepreneurial bourgeoisie, admired by Hegel, who celebrates the maritime peoples pioneering in risky trade, such as the Dutch, the English, and the future nation of the United States of America, born from a sea journey. Hegel also admires the Revolution for its capacity to form a state of Servants emancipated from feudal subjection through enterprise rather than arms, introducing intelligence (Geist) into the traditional economy, tied to the land and agriculture. The State thus becomes an expression of this intelligence, overcoming the individualism of particular interests.
Hegel’s reflection on politics and law, filtered through Marxism, identifies the Lord as the master of capital and the Servant as the worker, reduced to a new serf by economic exploitation. However, according to Hegel, emancipation does not occur by replacing the Servant with the Master, a move that historically has generated new Masters, but by breaking the determinism of Marxism through the unpredictability of entrepreneurial initiative. In this perspective, the market reveals itself not as a mere arena of exploitation but as a space where the abstraction of finance can expand the entrepreneurial capacities and social wealth, overcoming the predation of the globalized economy.
Finally, globalization should not be seen merely as a predatory dynamic but rather as the stage on which such a dynamic unfolds, serving as the means through which the predatory action manifests and nourishes itself. The war of techno-finance is not fought through traditional conflicts between States but rather through strategies that exploit States for personal advantages, operations that go beyond traditional territorial boundaries, acting in a parallel cybernetic dimension, without the need for physical movements or advanced armaments.