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I Papi, la guerra e la pace

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Cominciano, con questo articolo introduttivo, una serie di mie riflessioni storiche, politiche e culturali, sugli atteggiamenti di alcuni papi della Chiesa Cattolica Romana, nei confronti della guerra e della pace, attraverso la meditazione di encicliche, di lettere pastorali, di allocuzioni e di messaggi radiofonici, in quell’arco di tempo che va dal pontificato di Leone XIII (1878-1903) a quello di Giovanni XXIII (1958-1963).

 

Tra gli “inventori” della pace, come è stato definito dallo storico militare Michael Howard, bisogna certamente annoverare Leone XIII, il cui insegnamento, per la universale notorietà dell’enciclica Rerum Novarum, è spesso riduttivamente limitato alle questioni sociali. Un documento di grande rilevanza, nell’ambito che interessa alla mia riflessione, è la lettera apostolica Principibus populisque universis, del 1894, nella quale furono rappresentate forti perplessità sul semplice possesso delle armi, prima ancora del loro uso. Il pontefice scrisse come, da molti anni, si vivesse una pace più apparente che reale e le nazioni, colte da mutui sospetti, potenziassero febbrilmente i propri armamenti. La gioventù era spinta alla vita militare,leonepa il dispendio di risorse economiche, immenso, e stremava le ricchezze nazionali. Lo stato di pace armata era divenuto intollerabile. Leone XIII (immagine a sinistra) definì un concetto di grande attualità: la pace non può essere armata, implica una discussione del sistema di guerra e, per essere positiva, ma anche possibile, deve rinviare ad un ordinamento sociale e politico che sia giusto e venga percepito come tale. L’idea di fondo era che la pace non potesse essere soltanto un periodo in cui la guerra non fosse effettivamente combattuta o imminente. Non pace negativa, ma positiva, interiorizzata. Non semplice aspirazione di idealisti, ma programma di governo desiderabile e praticabile, che implicasse la costruzione di un ordinamento sociale e politico percepito dai più come giusto. A partire da Leone XIII, sul terreno politico-sociale, il messaggio cristiano non poté sottrarsi al confronto con le ideologie, pur correndo il rischio di degenerare anch’esso in ideologia. Benedetto XV, nell’enciclica Ad Beatissimi Apostolorum Principis, del 1914, rilevò come l’Europa in guerra offrisse lo spettacolo più tetro e luttuoso nella storia dei tempi. Le grandi carneficine in atto erano conseguenza del fatto che grandi e fiorenti nazioni fossero ben fornite di quegli orribili mezzi che il BENEDETTO-XVprogresso dell’arte militare aveva inventato. Nel 1917, nella Nota ai capi dei popoli belligeranti, il pontefice ricordò che si fosse rigorosamente attenuto ad una linea di perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti, sforzandosi di fare a tutti il maggior bene. Già in una allocuzione del gennaio del 1915, Benedetto XV (immagine a destra) aveva espresso il fondamento della neutralità della Chiesa, la quale era vista come presupposto e condizione indispensabile per portare avanti vaste iniziative umanitarie, per intraprendere passi diplomatici, al fine di circoscrivere il conflitto, e ripristinare la pace. Non mancavano motivazioni interne: nella guerra erano coinvolti due terzi dei cattolici del tempo. 124 milioni dalla parte dell’Intesa e 64 milioni dalla parte degli Imperi Centrali. La neutralità era la prima condizione per non pregiudicare non solo la pace, ma anche l’unità della Chiesa. Con l’entrata in guerra dell’Italia, la Santa Sede evitò di impegnare il clero e le organizzazioni del laicato cattolico in iniziative di propaganda o mobilitazione pacifista ma non evitò di portare avanti un intenso e riservato lavorio diplomatico, per cercare soluzioni di compromesso. Il pontificato di Pio XI si dipanò tutto nel periodo comunemente detto di “crisi tra le due guerre mondiali”. Il ventennio compreso tra la fine della Prima guerra mondiale e l’inizio della Seconda, fu condizionato dalle tensioni internazionali, che la pace imposta dal Trattato di Versailles (giugno 1919) non riuscì a sanare, dalla rivoluzione bolscevica in Russia e dall’affermarsi di regimi totalitari in Italia, Germania, Spagna e Giappone. Nell’enciclica Ubi Arcano Dei, del 1922, Pio XI dichiarò che la pace, sottoscritta tra i belligeranti dell’ultima guerra, fosse stata scritta soltanto nei trattati, ma non ricevuta nei cuori degli uomini, che ancora continuavano a desiderare di combattersi l’un l’altro. La vera pace, la pax Christi in regno Christi, voluta dalla Chiesa, si sarebbe potuta stabilire solo all’interno della Papst_Pius_XI._1JSvera comunità delle nazioni, offerta dalla Chiesa Cattolica. Nel Novecento, nell’age of extremis, comparve un altro terribile modello di società e di Stato, il totalitarismo fascista e nazista. L’esaltazione, la pratica e la codificazione della violenza, il ricorso alla guerra d’aggressione costituirono parte essenziale della loro identità. Pio XI (immagine a sinistra), che pure cercò, con essi, tramite la politica concordataria, spazi di presenza e di manovra per la Chiesa, sottolineò, nell’enciclica Mit Brennender Sorge, del 937, come il principio secondo cui diritto fosse ciò che è utile alla nazione, staccato dalla legge etica, avrebbe significato, per quanto riguarda la vita internazionale, un eterno stato di guerra. Nell’enciclica Divini Redemptoris, del 1937, il tema della guerra era presente in un paragrafo sul falso pacifismo, allorquando il pontefice sostenne che i capi del comunismo fingessero di essere i più zelanti fautori del movimento per la pace mondiale, ma, allo stesso tempo, eccitassero ad una lotta di classe, che fece correre fiumi di sangue e, sentendo di non avere garanzia di pace, ricorressero agli armamenti illimitati. Pio XII, quando la Seconda guerra mondiale era già iniziata, nell’enciclica Summi Pontificatus, del 1939, mostrò come la radice dei mali della società moderna fosse la negazione e il rifiuto di una norma di moralità universale, fondamento sia della vita individuale che di quella sociale e delle relazioni internazionali. L’azione del pontefice si sviluppò lungo quattro direttrici: attraverso la diplomazia vaticana, guidata dai monsignori Domenico Tardini e Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, e tramite gli episcopati nazionali, per convincere i singoli paesi a non passare tra quelli belligeranti, al fine di limitare il conflitto; enunciando le condizioni e i principi ispiratori di un possibile ritorno alla pace, che non assumesse le connotazioni vendicative del Trattato di Versailles; formulazione di una dottrina ben articolata e capace di offrire punti di arroccamento ai popoli e agli individui per il futuro ordinamento del mondo postbellico.download I tratti fondamentali di questa dottrina sono esposti in messaggi radiofonici natalizi. In quello del 1941, sull’ordine internazionale il papa (immagine a destra) affermò che il nuovo ordinamento internazionale dovesse essere innalzato sulla cima della legge morale, manifestata da Dio stesso, per mezzo dell’ordine naturale e scolpita nei cuori degli uomini con caratteri incancellabili. Legge che doveva essere promossa da tutte le Nazioni, in modo che nessuno potesse porla in dubbio o non rispettarla. In quello del 1942, sull’ordinamento interno, furono presentati cinque punti fondamentali per l’ordine e la pacificazione della società umana: dignità e diritti della persona umana; difesa dell’unità sociale e della famiglia; dignità e prerogativa del lavoro; reintegrazione dell’ordine giuridico; concezione dello Stato secondo lo spirito cristiano. Nel discorso del 1944 sulla democrazia, il pontefice sostenne che l’esperienza della guerra avrebbe fatto in modo che gli uomini si opponessero ai poteri dittatoriali e che richiedessero sistemi di governo più compatibili con la dignità e la liberà dei cittadini. La tendenza democratica avrebbe investito i popoli e ottenuto largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirassero a collaborare più efficacemente ai destini degli individui e della società. Terminata la Seconda guerra mondiale, con le bombe atomiche sul Giappone, cominciarono la Guerra fredda e la corsa agli armamenti. Nel radiomessaggio natalizio del 1955, Pio XII auspicò che si giungesse, per via negoziale, alla sospensione degli esperimenti delle bombe nucleari, alla rinuncia al loro uso e Papa-Giovanni-XXIIIall’avvio di un generalizzato controllo degli armamenti. Giovanni XXIII (immagine a sinistra), nel contesto del pur contraddittorio nuovo clima di dialogo e di apertura di John Fitzgerald Kennedy e Nikita Krusciov, rilanciò il tema della pace come motivo centrale del magistero della Chiesa. L’enciclica Pacem in Terris, del 1963, costituì il punto più alto del suo magistero, in materia non strettamente ecclesiastica o teologica. Scomparve, nel pensiero papale, la nozione di guerra giusta, desunta in parte da Sant’Ambrogio e da Sant’Agostino, come diritto di difendere il prossimo debole e che avrebbe dovuto prevedere: una causa giusta; un’autorità competente che la dichiarasse; una retta intenzione che la giustificasse; essere un rimedio estremo; la probabilità di successo. Nella Pacem in Terris, l’abbandono della teoria della guerra giusta non comportò la semplice rassegnazione nei confronti della violenza e dell’ingiustizia. La pace non rappresentava più l’assenza di guerra, implicava il superamento dei rapporti di dominio tra gli uomini e tra gli Stati, individuava tre interlocutori privilegiati nei lavoratori, nelle donne e nei diseredati del Terzo Mondo, e, infine, si affidava all’ottimismo della Provvidenza.

 

Mehmet II protettore dei cristiani.
Il pluralismo religioso nella Istanbul ottomana

 

da

www.laluce.news

(Articolo originale di Imran Abdullah)

 

 

Fin dal primo momento della conquista di Costantinopoli “Istanbul” nel 1453 d.C. / 857 AH, il giovane sultano Mehmed II “Al-Fatih” prese a realizzare la sua visione della sua nuova capitale ottomana. Non desiderava semplicemente una città turca o islamica, desiderava piuttosto che la città riflettesse la grande diversità etnica e culturale del suo impero in espansione…

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Mehmet II (1432-1481)

 

 

 

Maria Hardouin: la drammatica vita dell’unica moglie
di Gabriele D’Annunzio

 

di

Gabriella Puleo

 

 

Maria Hardouin di Gallese, figlia del duca Giulio di Gallese e di Natalia Lezzani, a sua volta figlia di Luigi Lezzani, poeta e traduttore italiano, conobbe Gabriele d’Annunzio nel 1883. Lei apparteneva alla nobiltà romana, viveva una vita agiata nel palazzo Altemps di Roma e, come tutte le nobili fanciulle dell’epoca, fu seguita da precettori che le impartirono un’adeguata istruzione. Amava lo studio delle lingue, francese, inglese, tedesco, ed era continuamente stimolata dalle frequentazioni nel salotto di famiglia di artisti e letterati…

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Maria Hardouin di Gallese
(Roma, 30 gennaio 1864 – Gardone Riviera, 18 gennaio 1954)

 

 

 

Edward Hopper: l’artista oltre le opere

 

di

Dalila Ippolito

 

 

Edward Hopper è un artista inclassificabile. Per quanto interprete e maggior esponente del Realismo americano, i suoi dipinti sono atemporali rappresentazioni dell’animo umano e delle domande che pendono quotidianamente sulla nostra esistenza…

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Edward Hopper, Autoritratto
1930 Whitney Museum of American Art, New York

 

 

 

 

Il tiranno triste e la felicità senza invidia di Senofonte

 

di

Maurizio Morini

 

 

Viviamo in tempi in cui è tornata di gran moda la parola tiranno. Oltre all’apparire di molta pubblicistica, anche accademica, sono diverse le cause di questo fenomeno: dall’indifferenza, che si tramuta in vero e proprio disprezzo, da parte dei governati nei confronti della politica e delle cosiddette èlites, fino all’insofferenza di molti governanti nei confronti delle modalità democratiche di gestione del potere. Da questo punto di vista, il recente emergere di personalità politiche forti e non convenzionali… 

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Come Pasolini e Calvino litigarono sul concetto di lotta all’omologazione

 

 

di

Roberta Errico

 

Il 30 settembre 1975, alle 22:50, un metronotte sente delle urla provenire dal bagagliaio di una Fiat 127, in via Pola, nel quartiere Trieste di Roma. Poco dopo intervengono i carabinieri, che forzano l’auto e si trovano davanti una scena raccapricciante: una ragazza insanguinata chiede disperatamente aiuto e, accanto a lei, giace il corpo di un’altra giovane donna, ormai morta…

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Pier Paolo Pasolini (1922-1975) e Italo Calvino (1923-1985)

 

 

 

“Fenomenologia di Andrea Scanzi”

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Nella società della comunicazione di massa, l’utente è colui al quale si rivolgono tutte le attività da questa poste in essere con gli strumenti che sono a essa propri. I detentori del potere comunicativo sono alla continua ricerca di media (medium – mezzo) atti a cooptare il maggior numero possibile di fruitori dei prodotti che mettono in vendita (merci, visualizzazioni di contenuti, anche fake, like). Questi (i possessori) tendono a deresponsabilizzare gli acquirenti, con la suadente idea di conferire loro la responsabilità delle proprie scelte. Chiedono loro altresì di diventare titolari delle proprie idee, obbligandoli, di contro, a comportamenti da imitare e modelli da seguire.
Oggi, il prototipo cui ambire non è più l’uomo medio ma l’uomo super, quello che tutto può fare e pensare in maniera retta e infallibile, semplicemente attraverso l’accensione di un device elettronico, comodamente seduto sulla poltrona del salotto di casa, in collegamento, in tempo reale, con il mondo.
Quantità e qualità si compenetrano a vicenda, in un rapporto di interdipendenza dove l’una non si riconosce e differenzia più dall’altra. Sono scomparse la medietà e l’equilibrio. Tutto deve essere esasperato, deve raggiungere il più alto grado. Coloro i quali non ne sono capaci sono automaticamente esclusi dalla partecipazione e dal godimento delle attrazioni di questo grande luna park.

Uno dei casi più emblematici in Italia è rappresentato da Andrea Scanzi. Per questo, come fatto da Umberto Eco, nel 1961, con Mike Bongiorno, si fissano qui i tratti della “Fenomenologia di Andrea Scanzi”.

Seguìto quotidianamente da ormai milioni di persone, Andrea Scanzi trova la ragione della sua vasta popolarità nel fatto che ogni suo gesto e ogni sua espressione lascino trasparire una superiorità assoluta, insieme con un’attrattiva tempestiva e istintiva, che a lui riesce normale manifestare, senza bisogno di ricorrere ad alcuna artificialità o simulazione.
Si propone per quello che è, e ciò che è pone in un conseguente stato di superiorità il suo follower, che ne viene esaltato, valicando i propri limiti.
Andrea Scanzi sa di essere diversi punti sopra tutti. Sa di potersi confrontare con successo con la conoscenza, riuscendo a domarla e a renderla proficua per sé e per i propri fini.
Si mostra sicuro, nell’aspetto e nell’argomentazione, con la sana supponenza di chi è lì per svelare la verità, donandola ai vogliosi adepti.
Andrea Scanzi è, pertanto, un docente (ille qui docet) che possiede quella verità e la rappresenta. È un tecnico e un esperto di tutti i contenuti che propone, pronto a elargire le sue competenze, con l’unico guiderdone dell’accettazione del suo verbo.
Mostra sempre di intendere con sicurezza ciò di cui parla (e scrive) e coloro dei quali parla (e scrive), appellandoli, alcuni, con ironia secca e a tratti paternalistica, altri, con sincera e filiale ammirazione.
È dotato di grande senso dell’umorismo (quasi volterriano) e di affezione per il paradosso, che amplifica per poi riportarlo alla normalità, col chiaro intento di dimostrare come di normale non vi sia nulla.
Il suo lessico espressivo non è mai ricercato – se non quando usa l’iperbole – ma sempre chiaro e immediato. Ed è qui la causa del suo estremo appeal: predica da un podio non soprelevato ma posto al livello della strada.
La sua mimica e il suo aspetto (vestito sempre in modo casual, con l’assoluta predilezione per il colore nero e l’immancabile pendaglio al collo) sono funzionali al suo argomentare, anche scenico, e ne rafforzano le proposizioni.
Ama e ricerca la polemica, perché sa che la contestazione eccita gli animi dei suoi follower, catturandoli, e si prodiga in approfondimenti per corroborare il suo ruolo di censore e di dispencer di soluzioni, ovviamente, sacrosante e giuste.
Esprime costantemente dissenso, dando a intendere, comunque, di rispettare anche le opinioni che, deridendole, non condivide.
Andrea Scanzi riesce sempre a convincere i suoi follower (ascoltatori e lettori), mostrandosi come uno di loro, pur sapendo di non esserlo, offrendosi, sì, come idolo ma santificando chi lo segue, in modo che questo non debba compiere alcuno sforzo per ambire a diventare come lui, in quanto già lo è. È come se gli dicesse continuamente:
“Tu sei già tanto (perché sei come me e la pensi come me). Stai tranquillo (o sereno)!”.

 

 

 

Andrea Scanzi legge la mia “Fenomenologia di Andrea Scanzi”, pubblicandola sulla sua pagina e ringraziandomi in questo modo:

“Le fenomenologie su di me mi fanno sorridere. Questa, però, è ben fatta (che non vuol dire condivisibile). Grazie a Riccardo Piroddi per l’attenzione”.

 

 

 

La lezione sul riso (e sulla derisione) di Jorge da Burgos ai “politologi dell’odio”

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Chi può dimenticare il monaco cieco Jorge da Burgos, il vero antagonista del romanzo “Il nome della rosa” di Umberto Eco? Un personaggio mirabilmente costruito dal celeberrimo semiologo, a cominciare dall’omaggio, nel nome, allo scrittore argentino Jorge Luis Borges. Un personaggio che risulta essere odioso (i personaggi meglio riusciti sono quelli in grado di suscitare nel lettore forti sentimenti). Un personaggio che affascina, pur senza addentrarsi nelle sfaccettature con le quali è stato caratterizzato, per la singolare quanto lugubre concezione che ha del riso. Ecco come ce lo presenta l’Autore:

 

Jorge da Burgos, interpretato dall’attore Fëdor Fëdorovič Šaljapin
nel film del 1986 “Il nome della rosa”, diretto da Jean-Jacques Annaud

 

E fu mentre tutti ancora ridevano che udimmo alle nostre spalle una voce, solenne e severa.
“Verba vana aut risui apta non loqui”.
Ci voltammo. Chi aveva parlato era un monaco curvo per il peso degli anni, bianco come la neve, non dico solo il pelo, ma pure il viso, e le pupille. Mi avvidi che era cieco. La voce era ancora maestosa e le membra possenti anche se il corpo era rattrappito dal peso dell’età. Ci fissava come se ci vedesse, e sempre anche in seguito lo vidi muoversi e parlare come se possedesse ancora il bene della vista. Ma il tono della voce era invece di chi possieda solo il dono della profezia.
“L’uomo venerando d’età e sapienza che vedete”, disse Malachia a Guglielmo indicandogli il nuovo venuto, “è Jorge da Burgos. Più vecchio di chiunque viva nel monastero, salvo Alinardo da Grottaferrata, egli è colui a cui moltissimi tra i monaci affidano il carico dei loro peccati nel segreto della confessione”. Poi, volgendosi al vegliardo: “Quello che sta davanti a voi è frate Guglielmo da Baskerville, nostro ospite”.
“Spero che non vi siate adirato per le mie parole”, disse il vecchio in tono brusco. “Ho udito persone che ridevano su cose risibili e ho ricordato loro uno dei principi della nostra regola. E come dice il salmista, se il monaco si deve astenere dai discorsi buoni per il voto di silenzio, a quanto maggior ragione deve sottrarsi ai discorsi cattivi. E come ci sono discorsi cattivi ci sono immagini cattive. E sono quelle che mentono circa la forma della creazione e mostrano il mondo al contrario di ciò che deve essere, è sempre stato e sempre sarà nei secoli dei secoli sino alla consunzione dei tempi. Ma voi venite da altro ordine, dove mi dicono è vista con indulgenza anche la giocondità più inopportuna”.
 
E, ancora, sul riso:
 
Si parlava del riso”, disse seccamente Jorge. “Le commedie erano scritte dai pagani per muovere gli spettatori al riso, e male facevano. Gesù Nostro Signore non raccontò mai commedie né favole, ma solo limpide parabole che allegoricamente ci istruiscono su come guadagnarci il paradiso, e così sia”.
“Mi chiedo”, disse Guglielmo, “perché siate tanto contrario a pensare che Gesù abbia mai riso. Io credo che il riso sia una buona medicina, come i bagni, per curare gli umori e le altre affezioni del corpo, in particolare la melanconia”.
“I bagni sono cosa buona”, disse Jorge, “e lo stesso Aquinate li consiglia per rimuovere la tristezza, che può essere passione cattiva quando non si rivolga a un male che possa essere rimosso attraverso l’audacia. I bagni restituiscono l’equilibrio degli umori. Il riso squassa il corpo, deforma i lineamenti del viso, rende l’uomo simile alla scimmia”.
“Le scimmie non ridono, il riso è proprio dell’uomo, è segno della sua razionalità”, disse Guglielmo.
“È segno della razionalità umana anche la parola e con la parola si può bestemmiare Dio. Non tutto ciò che è proprio dell’uomo è necessariamente buono. Il riso è segno di stoltezza. Chi ride non crede in ciò di cui si ride, ma neppure lo odia. E dunque ridere del male significa non disporsi a combatterlo e ridere del bene significa disconoscere la forza per cui il bene è diffusivo di sé. Per questo la Regola dice: «decimus humilitatis gradus est si non sit facilis ac promptus in risu, quia scriptum est: stultus in risu exaltat vocem suam»”.
[…]
“Ma Ildeberto disse: «admittendo tibi joca sunt post seria quaedam, sed tamen et dignis et ipsa gerenda modis.» E Giovanni di Salisbury ha autorizzato una modesta ilarità. E infine l’Ecclesiaste, di cui avete citato il passo a cui si riferisce la vostra Regola, dove si dice che il riso è proprio dello stolto, ammette almeno un riso silenzioso, dell’animo sereno”.
“L’animo è sereno solo quando contempla la verità e si diletta del bene compiuto, e della verità e del bene non si ride. Ecco perché Cristo non rideva. Il riso è fomite di dubbio.”
“Ma talora è giusto dubitare.”
“Non ne vedo la ragione. Quando si dubita occorre rivolgersi a un’autorità, alle parole di un padre o di un dottore, e cessa ogni ragione di dubbio. Mi sembrate imbevuto di dottrine discutibili, come quelle dei logici di Parigi. Ma san Bernardo seppe bene intervenire contro il castrato Abelardo che voleva sottomettere tutti i problemi al vaglio freddo e senza vita di una ragione non illuminata dalle scritture, pronunciando il suo è così e non è così. Certo colui che accetti queste idee pericolosissime può anche apprezzare il gioco dell’insipiente che ride di ciò di cui solo si deve sapere l’unica verità, che è già stata detta una volta per tutte. Così ridendo l’insipiente dice implicitamente «Deus non est»”.

 

Copertina de “Il nome della rosa”, Bompiani, 1980

 

Un personaggio, Jorge, che odia. Odia il riso e la derisione. Li odia perché li teme. Ma teme soprattutto la derisione di ciò di cui ha paura:

“Ma cosa ti ha spaventato in questo discorso sul riso? Non elimini il riso eliminando questo libro”. Chiese Guglielmo.
“No, certo”, rispose Jorge. “Il riso è la debolezza, la corruzione, l’insipidità della nostra carne. È il sollazzo per il contadino, la licenza per l’avvinazzato, anche la Chiesa nella sua saggezza ha concesso il momento della festa, del carnevale, della fiera, questa polluzione diurna che scarica gli umori e trattiene da altri desideri e da altre ambizioni… Ma così il riso rimane cosa vile, difesa per i semplici, mistero dissacrato per la plebe. Lo diceva anche l’apostolo, piuttosto di bruciare, sposatevi. Piuttosto di ribellarvi all’ordine voluto da Dio, ridete e dilettatevi delle vostre immonde parodie dell’ordine, alla fine del pasto, dopo che avete vuotato le brocche e i fiaschi. Eleggete il re degli stolti, perdetevi nella liturgia dell’asino e del maiale, giocate a rappresentare i vostri saturnali a testa in giù… Ma qui, qui…” ora Jorge batteva il dito sul tavolo, vicino al libro che Guglielmo teneva davanti”, qui si ribalta la funzione del riso, la si eleva ad arte, le si aprono le porte del mondo dei dotti, se ne fa oggetto di filosofia, e di perfida teologia… Tu hai visto ieri come i semplici possono concepire, e mettere in atto, le più torbide eresie, disconoscendo e le leggi di Dio e le leggi della natura. Ma la chiesa può sopportare l’eresia dei semplici, i quali si condannano da soli, rovinati dalla loro ignoranza. La incolta dissennatezza di Dolcino e dei suoi pari non porrà mai in crisi l’ordine divino. Predicherà violenza e morirà di violenza, non lascerà traccia, si consumerà così come si consuma il carnevale, e non importa se durante la festa si sarà prodotta in terra, e per breve tempo, l’epifania del mondo alla rovescia. Basta che il gesto non si trasformi in disegno, che questo volgare non trovi un latino che lo traduca. Il riso libera il villano dalla paura del diavolo, perché nella festa degli stolti anche il diavolo appare povero e stolto, dunque controllabile. Ma questo libro potrebbe insegnare che liberarsi della paura del diavolo è sapienza. Quando ride, mentre il vino gli gorgoglia in gola, il villano si sente padrone, perché ha capovolto i rapporti di signoria: ma questo libro potrebbe insegnare ai dotti gli artifici arguti, e da quel momento illustri, con cui legittimare il capovolgimento. Allora si trasformerebbe in operazione dell’intelletto quello che nel gesto irriflesso del villano è ancora e fortunatamente operazione del ventre. Che il riso sia proprio dell’uomo è segno del nostro limite di peccatori. Ma da questo libro quante menti corrotte come la tua trarrebbero l’estremo sillogismo, per cui il riso è il fine dell’uomo! Il riso distoglie, per alcuni istanti, il villano dalla paura. Ma la legge si impone attraverso la paura, il cui nome vero è timor di Dio. E da questo libro potrebbe partire la scintilla luciferina che appiccherebbe al mondo intero un nuovo incendio: e il riso si disegnerebbe come l’arte nuova, ignota persino a Prometeo, per annullare la paura. Al villano che ride, in quel momento, non importa di morire: ma poi, cessata la sua licenza, la liturgia gli impone di nuovo, secondo il disegno divino, la paura della morte. E da questo libro potrebbe nascere la nuova e distruttiva aspirazione a distruggere la morte attraverso l’affrancamento dalla paura. E cosa saremmo, noi creature peccatrici, senza la paura, forse il più provvido, e affettuoso dei doni divini? Per secoli i dottori e i padri hanno secreto profumate essenze di santo sapere per redimere, attraverso il pensiero di ciò che è alto, la miseria e la tentazione di ciò che è basso. E questo libro, giustificando come miracolosa medicina la commedia, e la satira e il mimo, che produrrebbero la purificazione dalle passioni attraverso la rappresentazione del difetto, del vizio, della debolezza, indurrebbe i falsi sapienti a tentar di redimere (con diabolico rovesciamento) l’alto attraverso l’accettazione del basso. Da questo libro deriverebbe il pensiero che l’uomo può volere sulla terra (come suggeriva il tuo Bacone a proposito della magìa naturale) l’abbondanza stessa del paese di Cuccagna. Ma è questo che non dobbiamo e non possiamo avere. Guarda i monacelli che si svergognano nella parodia buffonesca della Coena Cypriani. Quale diabolica trasfigurazione della sacra scrittura! Eppure nel farlo sanno che ciò è male. Ma il giorno che la parola del Filosofo giustificasse i giochi marginali della immaginazione entro si perderebbe ogni traccia. Il popolo di Dio si trasformerebbe in una assemblea di mostri eruttati dagli abissi della terra incognita, e in quel momento la periferia della terra conosciuta diventerebbe il cuore dell’impero cristiano, gli arimaspi sul trono di Pietro, i blemmi nei monasteri, i nani dal ventre grosso e dalla testa immensa a guardia della biblioteca! I servi a dettare la legge, noi (ma anche tu, allora) a ubbidire alla vacanza di ogni legge. Disse un filosofo greco (che il tuo Aristotele qui cita, complice e immonda auctoritas) che si deve smantellare la serietà degli avversari con il riso, e il riso avversare con la serietà. La prudenza dei nostri padri ha fatto la sua scelta: se il riso è il diletto della plebe, la licenza della plebe venga tenuta a freno e umiliata, e intimorita con la severità. E la plebe non ha armi per affinare il suo riso sino a farlo diventare strumento contro la serietà dei pastori che devono condurla alla vita eterna e sottrarla alle seduzioni del ventre, delle pudenda, del cibo, dei suoi sordidi desideri. Ma se qualcuno un giorno, agitando le parole del Filosofo, e quindi parlando da filosofo, portasse l’arte del riso a condizione di arma sottile, se alla retorica della convinzione si sostituisse la retorica dell’irrisione, se alla topica della paziente e salvifica costruzione delle immagini della redenzione si sostituisse la topica dell’impaziente decostruzione e dello stravolgimento di tutte le immagini più sante e venerabili – oh quel giorno anche tu e tutta la tua sapienza, Guglielmo, ne sareste travolti!”.

Le periodiche riflessioni che compio confrontandomi col capolavoro di Eco mi hanno indotto a scovare un parallelo (certamente assente nelle intenzioni dell’Autore) tra Jorge da Burgos, l’odio, la derisione e i “politologi dell’odio”, espressione, quest’ultima, con la quale definisco quei sostenitori – di qualsiasi parte politica, che siano giornalisti, opinionisti o semplici cittadini – capaci soltanto di manifestare odio (a prescindere) verso quelli dell’altra parte, meramente perché si trovano dall’altra parte, e di deriderli.
La lezione di Jorge su riso e sulla derisione, come atteggiamento e pratica di chi odia gli avversari politici, è la seguente: 
deridere un leader politico avversario è dannoso perché la derisione lo rende meno “pauroso” agli occhi dei suoi possibili sostenitori (Il riso libera il villano dalla paura del diavolo, perché nella festa degli stolti anche il diavolo appare povero e stolto, dunque controllabile). Ridicolizzando un esponente politico, parlandone spasmodicamente in termini sarcastici e dileggiatori, da un lato, irrita i suoi sostenitori, i quali, controbattendo, sviliscono il dibattito con argomentazioni, solitamente, di pari grado, e, dall’altro, riportandolo a una dimensione comune, da uomo comune, lo rende suscettibile di instillare “simpatia”, aumentandone inevitabilmente il consenso. Per cui, se si vuole recare danno a un leader politico avversario e ridurne il consenso bisogna parlarne il meno possibile, laddove oggi, specialmente sui social network, è un vomitare continuo di odio, dileggio e derisione contro gli esponenti politici avversari. Poi è facile giustificarne l’ascesa al governo con l’analfabetismo funzionale dei loro elettori che li votano. È troppo facile, perbacco!

 

Umberto Eco (1932-2016

 

 

 

L’Infinito Razzismo

 

di

Pasquale Russo*

 

L’incredibile delle tecnologie ancora lo dobbiamo vedere e ancora dobbiamo vedere il loro potere terrificante. Saranno molte quelle che fioriranno in questo secolo e per fortuna non credo che le vedrò in atto, ma le percepisco e così in questo mio ultimo definitivo articolo sull’evoluzione tecnologica proverò a parlarne, in particolare di due che più delle altre mi terrorizzano sperando che la generazione dei miei figli…

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Ho fotografato/ l’inferno/è sempre a fuoco/perfetto (Laura Accerboni)

 

*Direttore Generale dell’Università degli Studi “Link Campus University” di Roma

 

 

Franca Florio: l’immensa “Regina senza Corona” della Belle Époque siciliana

 

di

Giada Costanzo

 

Una spallina abbassata. L’ardita trama di un abito aderente a quel vitino fine, a quell’incarnato ambrato da tanti desiderato. Le suggestive pennellate del grande artista Giovanni Boldini, fotografavano così donna Franca, dea di una sicilianità florida e antica

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“Ritratto di Donna Franca Florio” (Giovanni Boldini – 1924)