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Alcune riflessioni sul tempo presente attraverso i concetti di “Leadership” ed “Etica”

 

Dedicate al prof. Antonino Giannone*  nel giorno del suo genetliaco

 

 

L’era digitale in cui stiamo vivendo è un periodo decisamente tormentato. Le tecnologie che adoperiamo sono mutate rispetto a qualche decennio fa e i cambiamenti che queste hanno portato non sono stati affrontati sempre con tempestività. Le imprese si trovano al centro di questo processo di evoluzione e cambiamento continuo. Sfide diverse si presentano alla società e per questo è necessario trovare nuovi modelli organizzativi, nuove strategie e nuovi modi di pensare per affrontare il mercato. Bisogna saper prendere decisioni per raggiungere specifici obiettivi. Senza piani strategici le aziende restano fragili. In questi contesti, i codici etici assumono capitale importanza. Il rispetto di valori etici come l’onestà, la trasparenza, la giustizia, la moralità è dovuto non solo dai dipendenti, ma dall’intero management. Servirebbe un recupero dell’etica, che, nella società della globalizzazione, è caduta in ogni professione e attività. Bisognerebbe riscoprire i principi e i comportamenti ispirati dalle virtù umane, tramandate, sin dai tempi antichi, dai grandi filosofi greci e latini e, poi, dai pensatori moderni e contemporanei. Apprendere e imparare i valori fondamentali e fondanti dell’uomo, che hanno caratterizzato la sua storia, per ridurre il degrado delle relazioni sociali ed economiche nella società globalizzata, dove prevale la spietata logica del più forte, quella dell’avere rispetto all’essere. Le imprese hanno conquistato il potere d’azione, finora addomesticato con la politica dello Stato sociale del capitalismo. Con la globalizzazione, le imprese sono arrivate a detenere un ruolo chiave non solo nell’organizzazione dell’economia ma anche in quella della società nel suo complesso. L’economia che agisce in maniera globale sgretola i fondamenti degli Stati-Nazione e della loro economia nazionale. Il potere delle imprese internazionali si fonda sulla possibilità di esportare i posti di lavoro dove ciò è più conveniente. Negli ultimi anni, il concetto di etica sembra sia diventato protagonista del dibattito economico: sempre più spesso si usano espressioni come finanza etica, commercio etico, etica degli affari, e tutte le maggiori aziende internazionali si sono dotate di un codice etico. Fa da contraltare a questa apparente “eticizzazione” dell’economia una crisi gravissima, interpretabile anche come la conseguenza e il frutto di comportamenti eccessivi e spregiudicati da parte di alcuni operatori economici. La spiegazione di questo paradosso potrebbe risiedere nel fatto che la domanda di comportamenti etici è una reazione e, appunto, una prevedibile risposta alla crisi attuale, ma anche che la professione di eticità sia in questa fase un mero strumento di marketing usato per mascherare e giustificare comportamenti che, nella sostanza, continuano a essere tutt’altro che etici. L’eredità spirituale dell’ultimo conflitto mondiale è forse l’aver mostrato che l’etica si fonda più che sulle buone intenzioni sull’assumersi pienamente le proprie responsabilità verso gli altri. L’etica è, innanzitutto, un problema di assunzione in prima persona di responsabilità verso una collettività. Ne consegue che l’economia che regola gli scambi tra collettività di attori, tanto a livello di impresa che di interi sistemi economici, sia un campo privilegiato per lo svolgimento del discorso etico. A livello di impresa, può essere opinabile e non oggettivamente misurabile determinare se e quanto una certa azienda, nel suo complesso, sia etica. L’etica dell’impresa può essere vista come il prodotto dei valori che tengono insieme il gruppo e dei meccanismi che premiano il rispetto di questi valori. L’implicazione operativa per i tutti i membri dell’impresa, e soprattutto per i vertici, è che da un lato i valori devono essere chiaramente definiti e comunicati, e, dall’altro, che la devianza dai principi deve essere esplicitamente sanzionata anche se ciò avvenisse a discapito del ritorno economico di breve. A livello di intero sistema economico, se la diatriba teorica sulla eticità del principio del mercato versus altre forme di organizzazione economica tende ad apparire sterile, il focus del confronto dovrebbe piuttosto essere su quali meccanismi, regole e correttivi possano essere introdotti per migliorare il sistema rendendolo tangibilmente più giusto ed equo. Anche in questo caso, la riposta migliore sta nel riconoscimento dei valori condivisi in cui una comunità locale, nazionale o internazionale si riconosce, e su cui ha deciso di fondare la propria vita civile e il proprio destino. Troppo spesso si dimentica il ruolo fondante e preordinato rispetto agli aspetti economici che le dichiarazioni dei valori di libertà, uguaglianza e di ricerca della pace hanno nella nostra Carta Costituzionale o nella Carta dei diritti dell’Unione Europea, e perfino in un documento che regolava solo transazioni squisitamente commerciali come il Trattato della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Solo alla luce di questi valori si può raccogliere la “sfida etica” della globalizzazione per ristabilire il primato delle regole, ritrovando il difficile ma imprescindibile equilibrio tra efficienza, equità, libertà e benessere.

 

* Docente di Leadership and Ethics presso Icelab, del Politecnico di Torino, ICT for Logistics and Enterprises Center e docente presso la Link Campus University di Roma, nel corso di Laurea Magistrale in Business Management e Gestione Aziendale. Dopo la laurea in Ingegneria al Politecnico di Torino e le specializzazioni in Management in Italia e all’estero (Londra, Parigi, Zurigo, San. Francisco, New York), ha ricoperto ruoli di direzione, fino a direttore Generale e Consigliere di Amministrazione, in aziende industriali e di servizi di assistenza ospedaliera e sanitaria. Pubblicazioni: Etica professionale e Leader nella società della Globalizzazione (ed. CLUT Torino); Etica professionale e Relazioni industriali (ed. CLUT); Strategie aziendali (ed. CLUT); Valori fondanti ed etica per la società della globalizzazione (ed. Mazzanti, Venezia); Elementi di politica aziendale e innovazione tecnologica (ed. Cacucci, Bari), oltre a centinaia di articoli su riviste specializzate e siti web. Socio onorario dell’Accademia di storia dell’Arte sanitaria. Socio fondatore del CEIIL (Centro economia industria informatica e lavoro). In uscita, per Eurilink University Press (giugno 2020), LEADERSHIP AND ETHICS NELLA SOCIETÀ DELLA GLOBALIZZAZIONE – Compendio di lezioni e seminari.

 

 

 

 

 

Cosa ci insegna un idillio amoroso medievale sulle molestie sessuali di oggi. La storia di Abelardo ed Eloisa

 

di

Lisa Bitel

 

 

I mezzi di informazione sono improvvisamente saturi di notizie su uomini influenti, il cui comportamento sul luogo di lavoro è stato contestato da parte delle donne. Questi presunti molestatori sembrano dare per scontato che il potere sul posto di lavoro li autorizzi ad avere contatti sessuali con chiunque…

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Cino da Pistoia e la discriminazione territoriale contro i napoletani

 

 

Esistesse una Commissione Disciplinare anche nella Letteratura Italiana, Cino da Pistoia dovrebbe essere sanzionato pesantemente per discriminazione territoriale! Guittoncino, detto Cino, della nobile famiglia dei Sighibuldi, nacque a Pistoia nel 1270. Studiò legge all’estero, prima a Bologna (per un pistoiese del XIII secolo, Bologna era all’estero!), poi, a Orleans, in Francia. Tornato in patria, esercitò l’avvocatura ma pochissimo tempo dopo, nel 1303, fu costretto a lasciare Pistoia perché i guelfi avevano cacciato i ghibellini dalla città. 2Rientratovi dopo tre anni, si dedicò alla scrittura di opere giuridiche, guadagnandosi, così, molti apprezzamenti e la cattedra di diritto presso le Università di Siena, di Perugia e di Napoli. All’ombra del Vesuvio conobbe e frequentò Giovanni Boccaccio, col quale, molto probabilmente, ragionava di donne e di poesia d’amore. L’insegnamento accademico, comunque, non gli impedì di celebrare, in versi, la sua amata, Selvaggia. Compose venti canzoni, undici ballate e centotrentaquattro sonetti (dopo Dante è lo stilonovista di cui ci sono giunte più rime). Quando morì, nel 1337, Francesco Petrarca, suo allievo di stile, gli dedicò un sonetto, Piangete, donne, e con voi pianga Amore. Se lo scontroso, geloso e un po’ invidioso letterato aretino si scomodò per Cino, è la prova che questi era stato un uomo e un poeta di grande valore. Quando lo incontrai al Liceo per la prima volta, mi fu subito simpatico perché il suo nome mi faceva tornare alla mente quello di un personaggio che ho molto amato durante la mia infanzia: il mago Zurlì, il cui vero nome è, appunto, Cino Tortorella. Mia madre aveva regalato a me e a mia sorella Tiziana un cofanetto di musicassette con le più famose fiabe, raccontate proprio dal mago dello Zecchino d’Oro. Ricordo ancora il mangianastri nero con i pulsanti rossi e i pomeriggi trascorsi insieme con Anna, la nostra babysitter, ascoltando Pollicino, La bella addormentata nel bosco, Cenerentola, Biancaneve e i sette nani, Heidi, Lutra la lontra e Raperonzolo. Quando, però, cominciai a ricercare materiali per la mia Storia della Letteratura Italiana, il pistoiese si rese antipatico perché scoprii che aveva scritto, non un semplice sonetto, ma una lunga canzone contro i napoletani, Deh, quando rivedrò ‘l dolce paese, in cui ci conciò davvero male:

“Deh, quando rivedrò ‘l dolce paese
di Toscana gentile,
dove ‘l bel fior si mostra d’ogni mese,
e partiròmmi del regno servile
ch’anticamente prese
per ragion nome d’animal sì vile?
Ove a bon grado nullo ben si face,
ove ogni senso fallace – e bugiardo
senza riguardo – di virtù si trova,
però ch’è cosa nova,
straniera e peregrina
di così fatta gente balduina.
O sommo vate, quanto mal facesti
(non t’era me’ morire
a Piettola, colà dove nascesti?),
quando la mosca, per laltre fuggire, i
n tal loco ponesti,
ove ogni vespa deveria venire
a punger que’ che su ne’ tocchi stanno,
come simie in iscranno – senza lingua
la qual distingua – pregio o ben alcuno.
Riguarda ciascheduno:
tutti compar’ li vedi,
degni de li antichi viri eredi.
O gente senza alcuna cortesia,
la cu’ ‘nvidia punge
l’altrui valor, ed ogni ben s’oblia;
o vil malizia, a te, perché t’allunge
di bella leggiadria,
la penna e l’orinal teco s’aggiunge.
O sòlo, solo voto di vertute,
perché trasforme e mute – la natura,
già bella e pura – del gran sangue altero?
A te converria Nero
o Totila flagello”.

Concluse, poi, passando la palla agli juventini, ai milanisti, agli interisti, agli atalantini e ai veronesi, anche se, oggi, da Roma in su, non c’è tifoseria, tranne quella genoana, che non canti, quasi ogni domenica, “Noi non siamo Napoletani!” o “Vesuvio lavali col fuoco!”:

“Vera satira mia, va’ per lo mondo,
e de Napoli conta
che ritén quel che ‘l mare non vole a fondo”.2

Ad ogni modo, a parte la discriminazione territoriale contro i miei conterranei dell’epoca, Cino fu un rimatore molto bravo che seppe cantare il dolore e l’inquietudine per la mancanza d’amore, in uno stile dolce e armonioso, malinconico e mesto, espresso con un’accuratezza linguistica da grande poeta. Il pistoiese era capace di arrivare al cuore delle donne, di tutte le donne, tranne, evidentemente, a quello della donna bramata (succede sempre così!).

“La dolce vista e ‘l bel guardo soave
de’ più begli occhi che lucesser mai,
c’ho perduto, mi fa parer sì grave
la vita mia ch’i vo traendo guai”.

E ancora:

“Angel di Deo simiglia in ciascun atto
questa giovane bella
che m’ha con gli occhi suoi lo cor disfatto”.

Che tenerezza, poi, la canzone Oïmè lasso, quelle trezze bionde, composta quando l’amata Selvaggia morì. Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi… il viso, il suo sorriso, la morte s’era portata via tutto, pure le sue calzette rosse (W Mogol-Battisti!).

Rifatevi gli occhi!!!

 

 

L’Ulisse dantesco oggi

 

 

 

Dante Alighieri ha fornito alla storia della letteratura mondiale il ritratto meglio raffigurato di Ulisse, collocato, insieme con Diomene, del girone infernale dei consiglieri fraudolenti, nell’immortale capolavoro Divina Commedia. L’Ulisse dantesco vive per sottoporre continuamente se stesso a fatiche d’ingegno, un volontario Ercole d’intelletto più che di forza fisica, in costante misura col proprio vigore spirituale, così tanto da rinunciare alle gioie del ritorno per amore di “virtute e canoscenza”. Ulisse decide di varcare le Colonne d’Ercole, poste dal semidio per segnare il confine tra la civiltà e l’ignoto, quest’ultimo metafora, sin dall’antichità, anche di non conoscenza e, quindi, di ignoranza. Io e’ compagni eravam vecchi e tardi / quando venimmo a quella foce stretta / dov’Ercule segnò li suoi riguardi / acciò che l’uom più oltre non si metta (Inf., XXVI, 106-109). Un’ultima impresa, dunque, principiata in tarda età, una sorta di testamento-azione.
Ed ecco che il celeberrimo eroe diviene emblema dell’anelito, tipico dell’uomo in quanto essere pensante, di varcare i propri limiti, di raggiungere, parafrasando Aristotele, la perfezione dell’anima, pervenendo alla conoscenza assoluta. Tale conoscenza, però, appartiene soltanto alla divinità e, quindi, non è perseguibile dall’uomo, il quale può soltanto avvicinarsi alla sapienza (divenir del mondo esperto, Inf. XXVI, 98).
Nel mondo contemporaneo, i limiti dell’uomo sono molto mutati rispetto ai tempi di Dante, a causa dell’evoluzione del pensiero verso orizzonti liberamente, totalmente laici, e per il progresso tecnologico spintosi a tal punto avanti, osando la messa in discussione di quelle che fino a qualche decennio fa apparivano granitiche certezze. La figura di Ulisse, quindi, e il suo varcare le colonne d’Ercole, a livello simbolico, è adesso più pregnante che mai.
Se, dunque, l’Ulisse dantesco soccombe ai limiti imposti da Dio, con la tragica fine del suo ultimo viaggio, a quali pene e a quale destino deve prepararsi l’uomo che, oggi, intende percorrere il medesimo cammino? Riuscirà a varcare indenne le Colonne d’Ercole?

 

 

 

Groupies in the Sixties and Seventies. Let spend the night together!

 

 

 

The groupies scene was a phenomenon of the late Sixties and early Seventies, and various threatening social diseases have effectively put the mockers on groupiedom in the eighties, much to the chagrin of some straggling leftover rock ‘n’ rollers who remember the good times. It was at its height in the late Sixties havens of San Francisco, Los Angeles and New York. In 1969 the groupies knew they had arrived when the influential magazine Rolling Stone dedicated an entire issues to groupies their philosophy, their quirks, their motivation and – in a few cases – their regrets. A groupie is generally considered an avid, often female, fan of a band or musical performer. The term derives from the female attaching herself to a group, the band. While the band is the group, the female is the groupie. A groupie is considered more intense about her adored celebrities than a fan. A fan might have all the albums and a few pictures of her favourite band. She or he might also attend all the band’s performances within reasonable distance to his or her hometown. images9TDXLB30A groupie tends to follow the band, perhaps almost touring with them. The groupie will attempt contact with the band, either conversational or sexual in nature, and may become an annoyance by virtually stalking band members. Obsessive groupies will almost certainly involve themselves sexually with any members of the band including the roadies. Even if rejected, the groupie will usually keep trying with the goal of being considered part of the band, or important to a member of the band. The relationship of an obsessive groupie to a band is like a love relationship gone badly wrong. The obsessive groupie has little interest in anything but matters pertaining to the band. Unfortunately, such groupies are also fuelled by the “sex, drugs and rock and roll,” atmosphere of most popular bands and artists. With sex offered, and frequently drugs available, a groupie can easily become somewhat delusional about her importance. Not all musicians or groupies would necessarily take that stance. Many feel their experiences have been fantastic and wouldn’t change a thing. Ex groupie Pamela Des Barres’ (photo on the side) first novel I’m with The Band  and her last book Let spend the night together for example, are a positive look at the sexually charged groupie environment of the late 1960s and early 70s. The books are very frank and Des Barres does not spare the reader from excessive detail about her and other groupies sexual escapades. The books seem more like bragging regarding a lifestyle, than an expression of regret for her and their choices. Still based in L.A., Des Barres was once a member of the legendary Frank Zappa’s pet – project girl group Girls Together Outrageously. Now something of an icon, she’s written extensively about the rock ‘n’ roll scene of the ‘60s and ‘70s. The way Des Barres sees it, the groupies of the ‘60s were not mere sex partners for testosterone-poisoned guitar players; they were ground-breaking, chance-taking muses, self-lessly nurturing the creative impulses of the world’s up-and-coming musical geniuses.

 

Published in March 2008 on www.clubdtv.com

 

 

Artists and drugs

 

 

 

Artists, singers and drugs: a combination that often seems to be undivided. A lot of artists and singers confessed their use of drugs raising very important questions: “Is it fair that people who have such an enormous influence on teenagers, show them harmful, illegal behaviour?” Furthermore  “Do the drugs really help the artistic creativity and the performances on the stage or in a studio?” and “Should record labels check their artists for drugs use?”. gAbout the first question, is undoubted that youths look up to them as idols and models, trying to imitate them and dreaming day by day to be as they are. Who, handling a guitar, didn’t ever wish to be Jimi Hendrix (photo on the right) or Slash ? Who, humming a tune, didn’t ever imagine being Robbie Williams or Leona Lewis? Who, believing to be like them, never took drugs and then started to play or sing? A simple and fine dream that turned itself in a deadly addiction! Regarding to the other questions, there are several sides in the matter. Firstly, if an artist needs drugs to be creative, he really isn’t much of an artist. Although there can be something said for drugs impacting on a particularly creative period for artists. Heroin provided Jimmy Page with some amazing music. It also sustained Keith Richards for a number of years. Cocaine and the first three Oasis records. Ecstasy and The Verve’s A Northern Soul. Even look at the influence drugs had on The Beatles. They went from She Loves You to Tomorrow Never Knows. There are numerous examples of artists being very creative on drugs. But if a band cannot create without drugs, then they aren’t much of a band. All drugs can really alter perceptions, but they don’t give any skills an artist didn’t already have. In other words, they may provide some inspiration, but they don’t make one more creative. Inspiration and creativity aren’t the same thing. gIf you take a creative person and an uncreative person and give them the same source of inspiration, whether it’s a hit of acid or a pretty sunset, they’re going to come up with two very different pieces of art. Secondly, it is known the record companies want to make money first and foremost. If an artist, for example, is under contract for four albums, it is in the labels best interest to keep him clean in order to ensure the contract will be fulfilled. But on the other hand, if the labels want to start drug testing bands, rock & roll as we know it would probably die. However, the labels can exert some kind of control over an artist. Drugs have become such a huge aspect of the culture of music because of what they represent. They’re seen as a victimless crime outlawed by the establishment just because they’re prudes. So, taking drugs, singing about them and showing a bad behaviour, has become a symbol for the rebellious spirit of rock & roll.

 

Published in January 2008 on www.clubdtv.com

 

 

Il ruolo del Mediterraneo nella geopolitica e nella geostrategia

 

Parte VIII

 

L’Unione Europea e la politica mediterranea

 

 

La politica mediterranea dell’UE si è sviluppata principalmente attraverso il PEM (Partenariato Euro-Mediterraneo), conosciuto anche come “processo di Barcellona”, e la PEV (Politica Europea di Vicinato), che ha incluso sia i paesi sud-mediterranei, facenti parte del PEM, che quelli dell’Europa Orientale, rimasti fuori dall’UE. Tra il 1995 e il 2004, dopo l’allargamento dell’UE, la politica mediterranea dell’Europa ha assunto un carattere bicefalo: da una parte, il PEM, a carattere multilaterale, finalizzato alle politiche di sicurezza e alle relazioni socio-culturali (I e II pilastro), di cui si sono occupati i governi nazionali; dall’altro, la PEV, a carattere bilaterale, finalizzata a trattare principalmente le relazioni economiche, cioè le materie comprese nel secondo pilastro della “Dichiarazione di Barcellona”, delle quali si è occupata prevalentemente la Commissione Europea. Va anche sottolineato che la composizione del PEM è mutata nel tempo, a causa dell’entrata di alcuni membri originari, come membri dell’UE, mentre ne sono entrati a far parte tutti i nuovi membri UE dell’Europa Centro-Orientale. Tra i membri non UE, risalta la Turchia, che, nel prossimo futuro, potrebbe diventare membro dell’UE. Il PEM è diventato come una porta girevole, con la costante di una partecipazione di membri UE sempre più numerosa di quella di membri non-UE. I risultati del PEM, a causa di questo squilibrio permanente, dovuto ai mutamenti strategici dell’Europa e delle aree limitrofe, sono giudicabili non del tutto soddisfacenti e molto limitati. Allo stesso modo, la PEV, gestita prevalentemente dalla Commissione Europea, non ha conseguito risultati significativi, a causa di visioni contrastanti sulla politica mediterranea, presenti anche all’interno della Commissione. Con la fine della guerra fredda e l’avvento del PEM, nonostante la dissoluzione delle vecchie solidarietà intra-mediterranee, a carattere terzomondista e antimperialista, nonché alternative a quelle europee, l’avvicinamento di molti paesi mediterranei alle iniziative di cooperazione con l’UE, in un’ottica euro-mediterranea, non ha realizzato una vera complementarità delle iniziative euro-mediterranee del PEM e della PEV. L’unico dato positivo risulta, ad oggi, una diffusa affermazione della tendenza euro-mediterranea, con il carattere complementare assunto dalle tendenze intra-mediterranee, che non hanno più il carattere della alternatività. Si può affermare che queste tendenze siano il frutto della politica euro-mediterranea, che si è consolidata. Questo obiettivo raggiunto non ha risolto le condizioni di squilibrio, a causa della permanente frammentazione introdotta con la PEV e la disaffezione, prodotta nel PEM, a causa di crescenti contrasti relativi alle questioni della sicurezza, come l’immigrazione e la lotta al terrorismo. Se nel PEM permane lo squilibrio tra la presenza massiccia dei membri UE, rispetto alla limitata presenza dei membri del Nord Africa, ne deriva la conseguenza di marginalizzazione di questi ultimi, facendo venir meno la stessa missione del PEM. D’altro canto, anche la PEV ha visto diminuire l’attenzione dell’UE verso il Mediterraneo, essendosi spostata più verso l’Est Europa e il Caucaso. L’inserimento, nel PEM, dei Paesi balcanici, ha trasferito le tensioni dell’aera balcanica nel PEM, marginalizzando la presenza dei paesi mediterranei, per i quali il PEM è stato istituito. Questa marginalizzazione sta pesando sull’equilibrio politico interno della stessa UE, determinando uno spostamento degli interessi europei a favore dell’Est Europa, rispetto all’area euro-mediterranea. L’Unione Europea, per il mantenimento della sua stessa coesione comunitaria, dovrebbe affermare il comune interesse a sviluppare forme di cooperazione e di solidarietà con i Paesi della sponda Sud e Sud-Orientale del Mediterraneo. L’insoddisfazione per il malfunzionamento del PEM e della PEV è stata alla base della proposta di Unione per il Mediterraneo dell’allora presidente francese Nicolas Sarkozy (UPM). La Francia ha manifestato sempre un atteggiamento critico verso le politiche mediterranee dell’UE, denunciando, anche sotto il profilo politico e diplomatico, la stessa sostanza del PEM e della PEV. Questa posizione critica ha avuto riflessi sulla coesione comunitaria e sull’equilibrio politico interno dell’UE. In questo quadro lacerato, è nata la proposta dell’UPM (2008), finalizzata ad istituire una solidarietà intra-mediterranea, al di fuori del contesto europeo. Ma non tutti i membri dell’UE, come vedremo di seguito, avevano interesse a disancorare l’iniziativa francese dal contesto europeo.

 

 

 

 

Il ruolo del Mediterraneo nella geopolitica e nella geostrategia

 

Parte VII

 

Il Mediterraneo e la geopolitica etnico-religiosa

 

Anche la geopolitica etnico-religiosa contribuisce alla instabilità dell’area mediterranea, determinando occasioni di conflitto interno e interstatuale. Le differenze culturali e religiose sono più profonde e radicate nella natura umana di quanto lo siano quelle politiche ed economiche. L’identità religiosa è più forte di quella etnica: un individuo può essere per metà italiano e per metà arabo, ma non può essere per metà cattolico e per metà musulmano. Cinque, inoltre, sono le differenziazioni storiche: cristiano-cattolica (Mediterraneo nord-occidentale); cristiano-ortodossa (Balcani e Eurasia russa); islamica (Nord Africa, Grande Medio Oriente, Corno d’Africa, parte dei Balcani, Caucaso, Asia Centrale); giudaica (Israele e comunità minoritarie in altri paesi); cristiano-copta (Etiopia e parte del Sudan e dell’Egitto). I conflitti, che ne sono derivati, non si contano: arabo-israeliano; israelo-palestinese; curdo; greco-turco; turco-armeno e quello interno al Sudan tra governo islamico e cristiani animisti. Da queste premesse, pur trattate sinteticamente, ne discende che il “Mediterraneo allargato” si presenta, per la geopolitica e la geostrategia, come il luogo geometrico di numerosi contrasti e di potenziali conflitti.

 

 

 

La Guerra fredda

 

 

AREE DI APERTO CONFLITTO DURANTE LA GUERRA FREDDA: IL PONTE AEREO DI BERLINO E LA DIVISIONE DELLA COREA

Alla fine della Seconda guerra mondiale, Berlino rappresentava il punto caldo della questione tedesca. La stessa Germania era divisa nei due blocchi, rappresentativi delle due opposte ideologie: la Germania occidentale, la cui ripresa si basava sull’economia di mercato, e la Germania orientale, sede di alcuni dei più importanti centri industriali tedeschi prebellici e paese più avanzato dell’area economica socialista, fonte di tecnologie e capacità professionali, utili per tutto il sistema. Berlino, localizzata nella Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est), risultava divisa in quattro zone, occupate una dall’URSS (Berlino Est) e le altre, site nella ponte-aereo-berlino-ovestBerlino Ovest, dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dagli USA. Berlino Est diventò la capitale della Repubblica Democratica Tedesca, mentre Berlino Ovest, derivante dall’unione tra le zone occupate dalle forze occidentali, rappresentava un’appendice della Repubblica Federale Tedesca. Per raggiungere Berlino, dalla Germania occidentale, era necessario percorrere una strada che attraversava il territorio della Germania orientale. Il maggio del 1948 segnò l’inizio del blocco di Berlino, che durò circa un anno. Tale blocco fu esercitato dalla potenza sovietica, che controllava il movimento stradale e ferroviario di persone e di beni. Il ritiro occidentale da Berlino, tuttavia, sarebbe stato interpretato dal mondo come un segno di estrema debolezza. Per questo, gli Stati Uniti, sfoggiando la loro superiorità aerea e dimostrando l’inutilità della strategia sovietica, rifornivano Berlino Ovest con aiuti e merci aviotrasportati (ponte aereo). Il ponte aereo non fu ostacolato dall’URSS: se ciò fosse accaduto, ne sarebbe potuto nascere un incidente che avrebbe potuto aprire la strada alla Terza guerra mondiale. Fortunatamente, i contatti tra le due parti e i tentativi per risolvere la crisi non si interruppero e il ponte aereo risultò un completo successo, tecnico e psicologico, per l’Occidente, concludendosi, dopo oltre un anno, con una evidente sconfitta dei sovietici. L’impegno americano, per di più, avvantaggiò i partiti democratici, che ottennero importanti vittorie elettorali nella Germania occidentale.muro-di-berlino-caduta-picconate Negli anni a seguire, la città rimase il punto di massimo attrito tra i due blocchi e rappresentò, per gli abitanti della Germania orientale e degli altri Paesi del blocco sovietico, la porta d’ingresso verso l’Europa occidentale. L’afflusso di milioni di lavoratori, spesso altamente qualificati, dall’Est, divenne, durante gli anni ’50, motivo di sviluppo economico per la Germania occidentale e di preoccupazione per l’URSS e per tutti i Paesi satelliti. Nel 1961, la Repubblica Democratica Tedesca, per chiudere le proprie frontiere verso l’Ovest, eresse un muro che attraversava Berlino, ponendo fine, in tale maniera, al deflusso di profughi. Il 9 novembre 1989, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il governo della Germania Est annunciò che le visite a Berlino Ovest sarebbero state permesse; dopo questo annuncio una moltitudine di cittadini dell’Est si arrampicò sul muro, superandolo, per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest. La caduta del muro di Berlino aprì la strada alla riunificazione tedesca che, formalmente, si concluse il 3 ottobre 1990.

Nel secondo dopoguerra, la penisola coreana fu suddivisa tra i due blocchi, lungo il confine artificioso del 38° parallelo, in Corea del Nord, socialista, e in Corea del Sud, filoamericana. Le due parti risultarono contrapposte, in quanto, la Corea del Nord auspicava a riunificare il Paese, mentre, la Corea del Sud mirava ad una divisione, a tempo indeterminato. Il 25 giugno 1950, l43-101123124801_mediumun contingente militare della Corea del Nord passò la frontiera e occupò tutto il territorio meridionale. Alle Nazioni Unite tale azione fu fatta passare, da parte degli USA, come un tentativo di aggressione, comportando l’intervento delle truppe ONU. Una volta respinte le truppe del Nord, oltre il 38° parallelo, le forze americane e dell’ONU oltrepassarono esse stesse la frontiera, raggiungendo quella cinese. L’intervento diretto in guerra delle truppe cinesi generò una divisione nel campo occidentale: uno schieramento favorevole al proseguimento del conflitto, l’altro al ripristino della situazione originaria. La guerra si protrasse per diversi anni, fino all’armistizio che, nel 1953, ristabilì i confini tra la Corea del Nord e la Corea del Sud, fissati nel 1945. La guerra di Corea è stato il primo conflitto dell’era atomica, ma anche la prima guerra in cui gli statunitensi non risultarono vincitori. Da quel momento, nel continente asiatico e in quello europeo, si fissarono confini stabili tra i due blocchi. Negli Stati Uniti la lezione della Corea fu interpretata come la prova dell’aggressività dei comunisti e come dimostrazione delle difficoltà di una soluzione di forza. In tutto l’Occidente si aprì il dibattito tra i sostenitori di una linea di contenimento e quelli di una più decisa offensiva politica e militare contro l’URSS.

 

 

Le donne nel Risorgimento (Seconda parte)

 

 

Continua, con questa seconda parte (leggi la prima parte), la brevissima trattazione sul ruolo delle donne nel Risorgimento. A questo punto, dunque, è bene volgere un rapido sguardo sulle esistenze di alcune di esse, anche per riparare, in piccolissima parte, al torto commesso sia dai loro contemporanei, sia dagli storici, che le hanno confinate nel limbo della storia.

Cristina Trivulzio di Belgiojoso: milanese, ebbe una travagliata vita familiare e comportamenti, per il tempo, ritenuti scandalosi (sposata, lasciò il marito ed ebbe una figlia da un nuovodownload compagno). Fuggita in Francia dopo il 1831, divenne giornalista. Tornata in Italia nel 1840 si stabilì a Trivulzio. Colpita dalle condizioni di miseria dei contadini, si dedicò ai problemi sociali. Seguendo le teorie utopistiche di Henri de Saint Simon e Charles Fourier, aprì asili e scuole per figli e figlie del popolo. Nel 1848-’49 fu ancora in prima linea: raggiunse Milano guidando la Divisione Belgioioso, 200 volontari da lei reclutati e trasportati in piroscafo da Roma a Genova e, da lì, a Milano. A Roma, nei mesi della Repubblica Romana, guidata da Giuseppe Mazzini, lavorò giorno e notte negli ospedali durante l’assedio della città, creando le infermiere laiche e chiamando a questo compito nobili, borghesi e prostitute. Alla caduta della Repubblica (luglio 1849), dopo essersi battuta per salvare feriti e prigionieri, fuggì prima a Malta, poi, ad Atene e, infine, a Costantinopoli. Alla sua morte, nessuno dei politici d’Italia partecipò ai suoi funerali.
Anna Grassetti Zanardi: bolognese, fu moglie di uno degli organizzatori del tentativo download (1)insurrezionale mazziniano di Savigno. Anch’essa ardente mazziniana, fu infermiera nel corso della campagna del 1848 e a Roma, nel 1849. Durante la successiva restaurazione pontificia, per incarico di Mazzini, si occupò di creare comitati in città e anche in altri centri vicini. Sorvegliata e più volte perquisita, fu arrestata nel 1851 e trasferita nel carcere di Ferrara. Le cronache cittadine di fine Ottocento la segnalavano, ormai vedova, sempre in testa al gruppo dei reduci garibaldini, durante i cortei patriottici, con in dosso la camicia rossa garibaldina e il petto coperto da numerose medaglie.
Giuditta Tavani Arquati: romana, incinta del quarto figlio, si trovava in Trastevere, nel lanificio Aiani, insieme con il marito, il figlio dodicenne e molti altri cospiratori, che preparavano la rivolta, in attesa dell’arrivo di Garibaldi da Monterotondo. L’entrata degli zuavi pontifici scatenò un aspro combattimento e, nonostante una strenua resistenza, i congiurati vennero sopraffatti e Giuditta, che aveva spronato, aiutato e soccorso i rivoltosi, venne massacrata dopo aver visto uccidere il marito e il figlio.
Sara Levi Nathan: pesarese, si profuse nell’impegno politico e per nelle iniziative sociali: fu una download (2)fervente patriota, grande amica di Mazzini, che morì a Pisa, nel 1872, proprio a casa di sua figlia Janet. Fu sorvegliata dalla polizia e accusata di cospirazione. Riuscì a fuggire, prima di essere arrestata, e riparò a Lugano. Tornata a Roma, dette vita a numerose iniziative educative, filantropiche e sociali. Fondò, nel quartiere di Trastevere, una scuola intitolata a Mazzini, destinata alle ragazze, e aprì una casa per prostitute, l’Unione benefica, con l’intento di prevenire la prostituzione, offrendo a ragazze indigenti o in difficoltà, alloggio, mezzi e possibilità di lavoro.
Giorgina Craufurd Saffi: di famiglia inglese, si innamorò dell’Italia, anche grazie al favore che la sua famiglia esprimeva per la causa italiana. Sposò Aurelio Saffi, esule italiano a Londra, già triumviro della Repubblica Romana nel 1849. Dalle idee mazziniane trasse il profondo interesse per l’educazione delle donne e dei giovani, cui andava inculcato il rispetto dei diritti e dei doveri dell’uomo, e l’idea che solo attraverso l’emancipazione e la partecipazione alla vita civile e civica si sarebbe potuto essere cittadini e non sudditi, partecipando, così, all’emancipazione della Patria e del Popolo. Giorgina scelse di occuparsi, in primo luogo, dell’educazione di tutte le donne, prime e fondamentali educatrici dei propri figli, cosa che la porterà ad appoggiare i movimenti emancipazionisti che, in quella seconda metà dell‘800, faticosamente stavano facendosi strada.
Adelaide Cairoli: milanese, a 18 anni sposò Carlo Cairoli, professore di chirurgia di Pavia, di sentimenti patriottici. Donna di vasta cultura, curò lei stessa l’educazione dei figli, indirizzandoli all’amore per la società e per la patria. Finanziò giornali patriottici, ospitò un salotto politico-letterario, mantenne una corrispondenza con gli intellettuali del periodo. Così scrisse, lei stessa, una volta: “Prima ancora dunque che alla causa femminile, io mi ero votata a quella della mia patria e il mio amore per la prima nacque dal mio amore per la seconda”.
Anita Ribeiro Garibaldi: fu la moglie di Giuseppe Garibaldi, nonché compagna di tutte le sue battaglie. Nel 1840, fu catturata nella battaglia di Curitibanos, ma riuscì a sfuggire alla prigionia. Nel 1849 era a Roma, per la proclamazione della Repubblica Romana, dove combatté a fianco dei garibaldini, i quali, però, dopo una lunga resistenza contro gli eserciti francese e austriaco, che invasero la città, dovettero ritirarsi dopo la battaglia del Gianicolo. Durante quella fuga le condizioni di Anita, al quinto mese di gravidanza, peggiorarono, e fu proprio in quell’occasione che, a 28 anni, la donna-guerriero spirò.

 

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