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La Sacra Famiglia di Marx ed Engels

La nascita del materialismo storico e la distruzione dell’Idealismo

 

 

 

 

Pubblicata nel 1845, La Sacra Famiglia, ovvero la critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e consorti è un’opera giovanile di Karl Marx e Friedrich Engels che segna un momento di transizione fondamentale nella loro elaborazione teorica. Con questo testo, i due autori si allontanano definitivamente dall’idealismo hegeliano e dalla sinistra hegeliana, avanzando una prima formulazione del loro materialismo storico. Il libro costituisce un attacco polemico contro Bruno Bauer e la sua scuola, accusati di una critica astratta e incapace di incidere concretamente sulla realtà sociale.
L’opera si inserisce in un contesto di fermento politico e filosofico dell’Europa della prima metà dell’Ottocento, caratterizzato dal declino dell’hegelismo e dalla crescita delle tensioni sociali e rivoluzionarie. In questo scenario, Marx ed Engels iniziano a sviluppare una concezione della storia e della società che si oppone all’idealismo dominante e che troverà la sua espressione più compiuta ne L’Ideologia Tedesca (1846) e, successivamente, ne Il Manifesto del Partito Comunista (1848).
L’opera fu concepita nel corso del 1844, in un periodo in cui Marx ed Engels approfondirono la loro collaborazione. Marx, in particolare, si trovava a Parigi, dove entrò in contatto con i circoli socialisti e comunisti francesi, tra cui Pierre-Joseph Proudhon, e con il giornale radicale Vorwärts! per cui scriveva. Engels, dopo un soggiorno in Inghilterra, dove aveva studiato le condizioni della classe operaia, raggiunse Marx a Parigi e i due iniziarono a lavorare insieme a una critica radicale della filosofia tedesca contemporanea. L’idea di La Sacra Famiglia nacque dall’esigenza di rispondere a Bruno Bauer e ai suoi seguaci, che sostenevano una forma di critica idealistica basata su un atteggiamento elitario e intellettuale, senza alcun legame con la realtà materiale e con la lotta delle classi. Marx ed Engels, invece, erano sempre più orientati verso un’analisi materialistica della società e delle sue contraddizioni economiche e politiche. L’opera venne scritta in pochi mesi tra la fine del 1844 e l’inizio del 1845 e pubblicata nel febbraio del 1845 a Francoforte. Il titolo dell’opera è ironico: La Sacra Famiglia si riferisce al gruppo di filosofi legati a Bruno Bauer, i quali venivano presentati come una sorta di “sacerdoti della critica”, incapaci di comprendere i reali processi storici e sociali. Il libro è strutturato come una critica serrata alla filosofia della sinistra hegeliana, in particolare, come detto, a Bruno Bauer e ai suoi seguaci. Marx ed Engels accusano Bauer di aver trasformato la critica filosofica in un esercizio autoreferenziale, distante dalle reali contraddizioni della società
La prima parte dell’opera è dedicata a smascherare le contraddizioni della sinistra hegeliana, che, secondo Marx ed Engels, continuava a muoversi all’interno dello schema idealistico hegeliano senza mai mettere realmente in discussione i rapporti materiali di produzione e le dinamiche della società borghese. Bruno Bauer e i suoi discepoli ritenevano che la critica fosse sufficiente per trasformare la realtà. Essi attribuivano un potere assoluto alla coscienza e alla riflessione filosofica, ignorando il ruolo delle condizioni materiali e delle classi sociali. Marx ed Engels contrastano questa posizione, sostenendo che la storia non è determinata dalle idee astratte, ma dai rapporti di produzione e dalle lotte sociali.
La Sacra Famiglia rappresenta un primo passo verso la formulazione della concezione materialistica della storia, che verrà pienamente sviluppata ne L’Ideologia Tedesca. Marx ed Engels avanzano l’idea che la storia non sia il risultato dello sviluppo dello Spirito o della coscienza critica, ma delle forze materiali, economiche e produttive.
Il libro anticipa alcuni concetti fondamentali del marxismo, tra cui il primato della realtà economica, secondo cui la storia è determinata dalle condizioni materiali e dai rapporti di produzione, piuttosto che dalle idee astratte. Sottolinea inoltre il ruolo della lotta di classe, affermando che la trasformazione sociale non può avvenire attraverso la semplice critica intellettuale, ma deve necessariamente svilupparsi attraverso il conflitto tra classi sociali antagoniste. Infine, critica l’astrazione filosofica, opponendosi alla tendenza della sinistra hegeliana a considerare la realtà come un semplice fenomeno della coscienza.
Uno degli obiettivi principali dell’opera è demolire la “critica critica”, cioè la tendenza di Bruno Bauer a presentare la critica filosofica come un fine in sé. Secondo Marx ed Engels, questo atteggiamento porta a un elitismo intellettuale che esclude le masse dalla possibilità di trasformare la società. In questa parte dell’opera, i due autori analizzano vari aspetti della critica baueriana, mostrandone le contraddizioni e l’incapacità di comprendere le dinamiche materiali della società. Essi sostengono che la vera critica deve essere legata alla prassi rivoluzionaria e non rimanere confinata in un dibattito puramente teorico. La pubblicazione di La Sacra Famiglia suscitò forti reazioni negli ambienti intellettuali della sinistra hegeliana. Bruno Bauer e i suoi seguaci risposero con veemenza, accusando Marx ed Engels di aver abbandonato la filosofia per un materialismo “volgare”. L’opera segnò la rottura definitiva tra Marx e la sinistra hegeliana, isolandolo ulteriormente dagli ambienti accademici tedeschi. Tuttavia, essa contribuì a consolidare la collaborazione tra Marx ed Engels e a gettare le basi per lo sviluppo del materialismo storico. Sul piano politico, il libro non ebbe un impatto immediato, ma fu un passo importante nella formazione del marxismo, introducendo alcune delle idee che sarebbero state sviluppate nelle opere successive.
La Sacra Famiglia, quindi, è un’opera di transizione che segna il passaggio di Marx ed Engels dal criticismo idealista alla concezione materialistica della storia. Sebbene il libro sia ancora legato a una polemica specifica contro Bruno Bauer, esso introduce principi fondamentali del marxismo, come il primato delle condizioni materiali e il ruolo della lotta di classe nella trasformazione della società. L’opera segna un momento chiave nel percorso intellettuale di Marx ed Engels e rimane un documento essenziale per comprendere l’evoluzione del loro pensiero.

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part XI


The Western Church Between the Late Middle Ages
and the New Era

 

 

 

 

From the Crisis of the Papacy to Boniface VIII

From the mid-13th century, the papacy fell into a deep crisis, evident in the short duration of the pontificates themselves, which were often interrupted by long periods of vacancy.
The spirit that characterized the last part of the 13th century was one of political exhaustion and religious exaltation, marked by spiritual struggles within the Franciscan Order and an apocalyptic expectation of a “papa angelicus.” In the conclaves, efforts were made to find an exceptional candidate who could meet these expectations. Such a candidate was found in Pietro Angeleri da Morrone, a hermit from Abruzzo, who took the name Celestine V (1294). His pontificate lasted only six months and ended with his abdication.
In his place, Boniface VIII (1294–1303) was elected, bringing back to the political scene a capable and resolute figure, determined to restore the traditional power of the papacy at a time when kingdoms were striving for autonomy, foremost among them France.
However, he lacked foresight: he failed to understand that times had changed. His pontificate was thus characterized by conflict with Philip IV, known as Philip the Fair.
Philip IV was engaged in a struggle with England over the Scottish throne. Boniface VIII saw this fratricidal conflict as a sign of the decline of “Christianitas.” After unsuccessful appeals for reconciliation, he issued the bull Clericis laicos in 1296, forbidding the French clergy from paying taxes to the king, thereby depriving him of the resources needed to continue the war. In response, Philip IV banned any export of money from France, cutting off most of the Apostolic Chamber’s revenues. Boniface VIII was forced to yield.
The peace, however, was short-lived. Philip IV later had a papal legate imprisoned. Boniface VIII summoned him before his tribunal with the bull Ausculta, fili, which Philip IV rejected. In response, Boniface VIII issued the famous bull Unam Sanctam, asserting the theory of the two swords and the supremacy of the Sacerdotium over the Regnum. In retaliation, Philip IV launched a defamatory campaign against the pope. Meanwhile, in Anagni, Boniface VIII was preparing to excommunicate Philip IV when the latter, with a small force of soldiers, attacked the pope and held him prisoner in his own residence, from which he was freed two days later by the local population.
Yet, the grave offense against the pope went unpunished—a sign that the papal figure had declined in stature and that religion had become a mere political matter.
This marked the end of Christianitas.
Boniface VIII returned to Rome, where he died shortly thereafter, along with the dreams of papal dominion over the world. With Boniface VIII, the universal supremacy of the papacy definitively came to an end.

The Consequences of a Slap

The process of subordinating the Church to the state, which began with Constantine, deepened under Charlemagne and the Ottonians, was interrupted and reversed by Gregory VII, the Concordat of Worms, and Innocent III: imperial theocracy gave way to papal theocracy.
However, with the significant attack on Boniface VIII (1308) by Philip IV of France—the so-called Slap of Anagni—the decline of papal power began. It faced strong opposition from the emerging European states.
As a result, in the late Middle Ages, a clear opposition to and rejection of papal claims to temporal power over states took shape, while the pope’s authority came to be regarded increasingly as a spiritual one concerning salvation.
Within this framework, three trends emerged: the governance of the Church in its temporal expression gradually passed to the principes, while the clergy in public and judicial administrations were replaced by lay officials.
Thus, a new bureaucratic and administrative class was established, upon which the clergy increasingly depended to achieve its objectives. However, this was not a secularization of state life but rather an assertion of independence from papal authority.
The superiority of the gladius spiritualis et materialis was no longer accepted sic et simpliciter but was contested and rejected.
The drive for independence from papal power was also fueled by excessive hierocratic claims, which were heightened precisely by this emerging spirit of autonomy from ecclesiastical authority. However, this was still not a full secularization of power but rather a demand for access to the sacred temporal authority of the Church.
The vision of the world as the historical organization of the divine had not yet faded. Nevertheless, the legitimacy of the Church’s possession and ownership of property was increasingly questioned, as it became entangled in a process of administrative and managerial autonomy within cities.
A significant issue in this context was the vexata quaestio that divided the forces within the Church: Had Christ owned and possessed his garments, or had he merely used them?
The Franciscans upheld the position of mere usus (use), while the theorists of poverty, contesting the Church’s ownership of goods, argued that these should be maintained under state authority.
From this overall picture, it is clear that the political resurgence of temporal power—seeking to reclaim positions lost due to the rise of hierocracy—was extending ever further into temporal and ecclesiastical affairs, asserting its administrative rights and autonomy. This stance soon extended to spiritual matters as well, now seen as part of the common good.

The Papacy in Avignon

After the death of Boniface VIII, French influence over the papacy grew significantly. Under pressure from France, numerous French cardinals were appointed to the College of Cardinals. Consequently, it was inevitable that during this period, there were several French popes.
The first in this series was Clement V (1305–1314), who succeeded Benedict XI (1303–1304), whose pontificate was brief and who, in turn, had succeeded Boniface VIII.
Clement V deemed it appropriate to move the papal seat from Rome to Avignon, which, along with the County of Venaissin, belonged to the Papal States. This decision was due both to the unstable situation in the Papal States and Italy and to his belief that from Avignon, he could more effectively mediate between France and England, which were vying for the Scottish throne.
Soon, however, from 1309 onward, Avignon became the permanent seat of the papacy for approximately seventy years. This was a clear sign that the balance of power had shifted toward France: the autonomy of the Church, established by Gregory VII’s Dictatus papae (1075), reaffirmed by the Concordat of Worms (1122), and embodied by Innocent III, was entirely dismantled.
During these seventy years (1309–1378), the papacy became a tool of power in the hands of the French monarchy. Clement V proved highly submissive to Philip IV, who compelled him to annul the bull Unam Sanctam, suppress the Templars—a decision confirmed at the Council of Vienne (1312)—and, ultimately, open a posthumous trial against Boniface VIII.
Only with the ascension of Gregory XI (1370–1378), under popular pressure led by figures such as St. Catherine of Siena and St. Bridget of Sweden, was the papacy transferred back to Rome. From this moment onward, the modern papacy would take shape.

The Consequences of the Avignon Exile

When evaluated as a whole, the Avignon exile caused immense and irreparable damage to the papacy and the Church: it deeply shook the confidence it had enjoyed up until the time of Innocent III, led to the Western Schism, which lasted forty years, fostered conciliarism, and ultimately laid the groundwork for the schism triggered by the Lutheran Reformation.
Indeed, French influence over the Avignon papacy had disastrous repercussions during the pontificate of John XXII (1316–1334) concerning papal policy toward the German Empire. In 1323, the pope deposed Emperor Louis IV of Bavaria, adopting a hostile stance against him and thus aligning himself with French interests.
This act had serious consequences, placing Germany in strong opposition to the papacy and leading to fatal outcomes for the latter.
For the first time in history, the imperial counterattack did not target a specific pope but rather the very institution of the papacy, whose excessive power had now exceeded all bounds.
In 1324, Emperor Louis IV appealed to a council against John XXII. He was joined by all religious figures opposed to the pope, including Marsilius of Padua and John of Jandun, who developed a revolutionary theory that would give rise to conciliarism and fuel the Protestant critique of the papacy—one that persists to this day.
This theory, outlined in the book Defensor Pacis, questioned the hierarchical structure of the Church and proposed a democratic foundation instead. It denied the divine origin of papal primacy and attributed sovereign power in the Church to the people. Thus, there was no inherent priority of the clergy over the laity. The pope, bishops, and clergy were seen as fulfilling a mandate given to them by the Congregatio fidelium, represented by an ecumenical council.
This vision of the Church reduced the pope to a mere executive organ of the council, making him subordinate to it and obliging him to obey its decisions.
This theory, which subjected the papacy to the council, became known as conciliarism and found its full realization at the Council of Constance with the bull Haec sancta.
The Avignon period was also marked by a significant increase in fiscal policies, carried out through highly questionable and often extreme measures, leading to widespread disorder and scandal. Taxes were sometimes collected through the granting of privileges and papal favors, and at other times, they were extorted under the threat of censure or excommunication.
Such practices intensified hostility toward the Curia, particularly in Germany, where opposition was fueled by the pope’s anti-German stance against Louis IV of Bavaria. Over time, this resentment grew, reaching its peak in the Gravamina Nationis Germanicae and later influencing the Reformation of the 16th century.

The Council of Vienne and the Templars

During the pontificate of Clement V, a weak French pope completely at the mercy of the arrogant and demonic Philip IV, the shameful suppression of the Templars took place.
Founded during the Crusades for the defense of the Holy Land and Jerusalem by Hugues de Payens and Godfrey of Saint-Omer, the Templars lived under a rule drafted by St. Bernard. In addition to the three religious vows, they took a fourth vow—to defend Jerusalem.
They were led by the Grand Master, forming an ecclesiastical knighthood distinguished by heroic actions. Over time, they became financial intermediaries between the East and the West.
Philip IV, arrogant and envious of their autonomy, as well as covetous of their wealth, orchestrated slanderous accusations against them. He had 2,000 Templars arrested, confiscated their assets, and entrusted them to the Inquisitor of France, who was also his confessor.
This infamous conspiracy gained a legal form through the Council of Vienne (1312). What followed was a true massacre of the Templars, without the cowardly and feeble Clement V—merely a puppet in the hands of the king—daring to protest.
Thus ended a glorious institution that had covered itself in honor and had always faithfully served the Church and Christianity.

The Western Schism

After the death of Gregory XI (1370–1378), the last of the Avignon popes who, shortly before his death and under popular pressure—including that of St. Catherine of Siena and St. Bridget of Sweden—returned the papal seat to Rome, a new pope was elected by a College of Cardinals composed of 16 cardinals, 11 of whom were French.
Fear that another French pope would be elected and that Rome would once again be abandoned led the people to exert strong and violent pressure on the cardinals to elect a Roman or at least an Italian pope. Intimidated, they elected the Cardinal of Bari, who took the name Urban VI, to whom they swore allegiance.
However, after three months—due to his despotic and fanatical character, which some believed had been altered by the papal election itself; because the election was thought to be invalid as it had been carried out under threat and violence; and finally, due to the strong and self-serving pressures from France—the cardinals abandoned Urban VI. In Fondi, under French protection, they elected another pope, a cousin of the King of France, who took the name Clement VII (1378–1397). He attempted to take Rome by force but failed and instead settled in Avignon.
From that moment, there were two popes, creating a deep and scandalous rift in Christianity and the West. This division extended even to dioceses and parishes and lasted for forty years.
Both popes considered themselves legitimate and viewed the other as an usurper. They did not hesitate to excommunicate each other’s followers, so much so that, in a short time, all of Europe found itself excommunicated.
The University of Paris proposed three possible solutions to this shameful and incredible situation:

  • The via cessionis, meaning voluntary abdication.
  • The via compromissi, referring the matter to an arbitration tribunal.
  • The via concilii, resolving the issue through a council.

Unfortunately, all efforts were in vain. The two popes established their own pontifical courts with full administrative and organizational structures, and upon their deaths, each had successors.

The Council of Constance and Conciliarism

After thirty years of failed attempts to restore order—since neither pope was willing to abdicate or submit to arbitration—the idea that an ecumenical council could resolve the issue gained traction (the third option).
Thus, in 1409, a council was convened in Pisa, where both popes were deposed, and a new one was elected—Alexander V—who had a brief reign before being succeeded by John XXIII. However, Gregory XII and his rival Benedict XIII refused to comply with the council’s decisions, leading to a situation where there were three popes at once—all simultaneously legitimate and illegitimate.
John XXIII was supported by the German king Sigismund, who, in an effort to put an end to this scandalous and disgraceful situation, was authorized by John XXIII to convene a council in Constance. John XXIII secretly hoped to be recognized as the legitimate pope.
However, when it was decided—so as to neutralize the Italian faction’s numerical superiority—that voting would be conducted not per capita singulorum but per nationes, John XXIII realized his chances were gone. He fled during the night, hoping that the council, in his absence, would be suspended.
But the emperor took charge of the situation, and with the support of the controversial conciliar decree Haec sancta (fifth session), which declared the superiority of the council over the pope, the proceedings resumed, focusing on three main issues:

  • The resolution of the schism.
  • The condemnation of the heresies of Wycliffe and Hus (eighth and fifteenth sessions).
  • The reform of the Church in capite et membris (in both head and members).

Additionally, with the decree Frequens (thirty-ninth session), it was established that councils would be convened regularly every 5, 7, and 10 years, effectively making the council a supervisory body over the papacy.
The Council of Constance lasted four years, attended by over 300 bishops and prelates, 30 cardinals, and 33 archbishops, along with many representatives of the political nobility. Five nations were present: Italy, France, Spain, Germany, and England.
As for the three rival popes: John XXIII was arrested; Gregory XII, already in his nineties, abdicated; and Benedict XIII was deposed as a heretic and withdrew to Spain, where he died.
Finally, a new pope, Martin V (1417–1431), was elected.

The Roots of Conciliar Theories

Beyond historical aspects, conciliarism has its roots in early medieval canon law. To ensure the libertas ecclesiae from the emperor and the nobility, canon law had conceived of the Church as a “corporation” of individuals with the right to act and sovereign capacity.
According to this theory, the bishop and the chapter formed a corporation capable of autonomous action. However, the bishop, as caput, was bound to the totum, without which he lost his corporate identity and thus his legal capacity. This led to significant axioms such as “Totum est maior sua parte”, emphasizing the superiority of the totum over the caput.
Similarly, the College of Cardinals viewed its relationship with the pope. Under this corporative conception, the pope received his powers from the College, making him an authorized administrator of those powers.
Alongside the corporate theory, a legal-personalistic conception emerged. This distinguished between potestas ordinis, transmitted by Christ to all the apostles, and potestas iurisdictionis, entrusted only to Peter. As a result, the Church’s jurisdictional power came from the pope rather than from the corporation. Thus, in papal elections, the College did not transfer its own powers to a delegate but simply elected the person who held the plenitudo potestatis conferred by Christ upon Peter and his successors. Therefore, Christ, not the College, was the true holder of ecclesiastical power.
This issue, dormant during the struggle between regnum and sacerdotium, resurfaced vigorously during the period of conciliarism.

Thus, Haec sancta was not a coup but rather a canonical application of corporative theory, which reached its extreme in the Tres veritates fidei catholicae, which proclaimed:

  • The superiority of the council over the pope.
  • The pope’s inability to transfer or suspend a council without conciliar approval.
  • That any stubborn opposition to these propositions was to be considered heresy.

Jan Hus and John Wycliffe

Jan Hus was born in Husinec, southern Bohemia, in 1370. At the age of 30, he was ordained a priest and, around 1400, became acquainted with the ideas of the Englishman John Wycliffe, who, since 1374, had launched violent attacks against the methods of the Avignon papacy, the wealth of prelates, and the hierarchy.
In response to this decadence, Wycliffe proposed his spiritualistic vision of the “Church of the Predestined,” which should renounce all possessions and live in apostolic poverty. In this ideal Church, according to Wycliffe, only those in a state of grace could belong; anyone in mortal sin could not be part of it, let alone lead the Christian community, whether in the Church or in the state. A pope, bishop, or any clergyman in mortal sin had no authority; likewise, rulers lost their legitimacy.
This theory was very similar, if not identical, to the Donatist heresy, which had already been thoroughly refuted by St. Augustine in the 4th and 5th centuries.
Although Wycliffe’s intentions were good, his theory, if applied, was highly destabilizing to both religious and political authority. After all, who could ever claim to be in a state of grace? Who could be so pure, holy, and perfect as to be considered a permanent member of such a Church and society? Like Donatus, Wycliffe fell into an excess of ascetic rigorism.
Jan Hus embraced and disseminated Wycliffe’s ideas, gaining widespread support not only for religious and ascetic reasons but also due to political motivations. In Bohemia, most prelates were German, so his harsh criticism of them fueled a strong anti-German sentiment, which mobilized all of Bohemia in support of Wycliffe’s religious ideas, championed by Hus.
However, when the German Archbishop of Prague, entrusted by Pope Alexander V with handling the delicate religious issue, took severe repressive measures against the heresy, his actions were interpreted as purely political. Hus refused to submit to the German prelate and appealed to Pope John XXIII, as did the archbishop.
The pope, after summoning Jan Hus to Rome in vain, excommunicated him. Later, he was deceitfully imprisoned by the cardinals, put on trial, and condemned to death by burning as a heretic after repeatedly and unsuccessfully being urged to recant his beliefs. The Council of Constance addressed his case, as well as that of Wycliffe, and in its eighth and fifteenth sessions, condemned both their theories as heretical.
On December 17, 1999, in a speech to participants at an international conference on Jan Hus, Pope John Paul II expressed understanding for this thinker, reassessing his moral character and subtly condemning the cruel injustices he suffered at the hands of the Church.

The Councils of Basel, Ferrara, and Florence (1431–1442)

In accordance with the decree Frequens issued at the Council of Constance, five years after its closure (1418), Martin V convened a council in Pavia, which was later moved to Siena due to an outbreak of plague. However, due to low participation, it was postponed to Basel in 1431. That year, it was opened by Eugene IV, who had just succeeded Martin V.
The participants, empowered by the Haec sancta decree, claimed supreme decision-making authority and significantly curtailed papal power.
To put an end to ongoing conflicts, in 1437, Eugene IV transferred the council to Ferrara. During this time, an attempted schism occurred, which fortunately failed—along with conciliarism itself, though its influence persisted in a latent and feared form.
The council resumed in Ferrara in 1438 but was almost immediately moved to Florence due to the threat of plague, continuing there from 1439 until its closure in 1442.
The primary goal of the council was the reunification of the Eastern and Western Churches, requiring clarification on several controversial points:

  • The issue of the Filioque.
  • The primacy of the pope.
  • The doctrine of Purgatory.
  • The Latin use of unleavened bread and other liturgical matters.

The underlying motivation for the union was the urgent need for assistance against the Turks, who were threatening Constantinople. Only a strong crusade could save the city from its impending doom.
After long discussions, an agreement was reached in the decree Laetentur coeli, but it lasted only briefly. Strong opposition awaited its supporters upon their return to Constantinople, and the West ultimately refused to provide military aid, abandoning the city to the Turks. In 1453, Constantinople was conquered and destroyed, marking the end of the Byzantine Empire.
The legacy of Constantinople was assumed in 1459 by Moscow, which soon came to be designated as the “Third Rome.”

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part X


The Crusades

 

 

 

After Pope Gregory VII asserted the “libertas ecclesiae,” which reached its peak under Innocent III, the task of spreading and affirming the faith (negotium fidei) fell entirely to the Church, which became its primary advocate. Among these efforts were both the Crusades and the struggles against heretics. This movement followed a precise logic: the Church’s spiritual authority (gladius spiritualis) issued decrees and bulls (gladius spiritualis materialis) that justified certain undertakings, which were then entrusted to the king (gladius temporalis). This framework operated within a historical and social order perceived as divine, ordained by God for salvific purposes.

Formation and Motivation of the Crusading Idea

The Crusades, launched to liberate the Holy Land from Islam, were based on two fundamental principles: a religious-political one—the “pilgrimage to Jerusalem” and the “libertas ecclesiae”—and a practical one: removing obstacles imposed by Muslims on the numerous pilgrims traveling to the Holy Land. The Crusades were preceded by armed escorts accompanying pilgrims, thereby integrating into the concept of an armed pilgrimage. They also found their political foundation in the Gregorian Reform’s Libertas ecclesiae: the pope was now responsible for ensuring the Church’s security by liberating it not only from heretics, simoniacs, and Nicolaitans but also from infidels besieging Jerusalem, perceived as an extension of the Church itself. Thus, the early Crusades became a political exercise of the new libertas ecclesiae, shaping the reformed Church of the Gregorian era. Furthermore, while the Church had always maintained a passive stance toward wars, between the 10th and 11th centuries, it was compelled to take a stand against the daily misfortunes, abuses, violence, and feuds plaguing Christian Europe. Particularly in southern France, two “pacifist” movements emerged: the “Peace of God” and the “Truce of God,” the latter appearing at the Council of Elne in 1027, which established specific periods during which violence was prohibited.

However, these pacifist efforts yielded little success. Consequently, security measures led by bishops were implemented to suppress violence and enforce the truces. The knight was entrusted with defending the weak, forming the ideal of the Christian knight. In the latter half of the 11th century, the reforming papacy sought to influence the nobility’s ethics, adopting the instrument of holy war. Gregory VII, who exhibited a strong warrior spirit, inspired the Militia Sancti Petri and linked pilgrimages to the Holy Land with the Church’s freedom. These developments fostered the Church’s concept of Holy War—war waged for religious purposes and in the Church’s and Christendom’s interest, where the use of arms and violence was deemed meritorious if for just causes. Thus, both the defense of the Church and the pilgrimage to Jerusalem were considered acts of merit for the remission of sins. From this sacralization of war emerged the belief that its jurisdiction belonged to the clergy. It was the pope’s prerogative to declare wars “just,” granting indulgences and remission of sins while justifying the violence committed by participants.
To fully understand the phenomenon of the Crusades, one must consider the spiritual climate of Christianitas in the West, shaped by the Gregorian Reform. Only within a Christendom imbued with a strong religious and faith-driven ideal could the psychological, moral, and spiritual conditions enabling the Crusades arise.
The Crusading idea was closely linked to the concept of pilgrimage to the Holy Land, viewed as a return to the cradle of faith and Christianity. The Crusades were fundamentally religious in nature and were conceived as military actions to ensure safe passage and Christian presence in the Holy Places. Additionally, historical circumstances played a role: Rome was deeply concerned about the East’s situation following the Byzantine defeat at Manzikert in 1071 and the Turkish conquest of Jerusalem and Damascus in 1076. What would happen to the West and Christendom if the Eastern Roman Empire collapsed? Another crucial factor in the formation of the Crusades was chivalry. After the Carolingian Empire’s dissolution, chivalry became synonymous with plunder, robbery, and oppression. The Church’s patient educational efforts redirected these energies toward noble ideals of protecting the weak and women. Finally, through a liturgical consecration, the knight took on the form of a Christian warrior, akin to a religious soldier. Nobility began to converge within the chivalric ranks, leading to the rise of knightly orders, which the pope would later call upon to defend Christendom and the Holy Sepulcher.

The Crusades: Historical Aspects

There is no doubt that the ideals driving the Crusades were primarily Christian and missionary in nature. What prompted the pope and Western Christendom to create these military movements for conquest and liberation was the alarming situation in the East: the Turkish conquest of Jerusalem (1071) and the continuous complaints from pilgrims about Turkish oppression. Additionally, Islamic armies threatened Constantinople, leading Emperor Alexios I to seek Western aid. Pope Urban II, moved by these appeals, made a passionate call to Christendom at the Synods of Piacenza and Clermont. The response was overwhelming, with the unanimous cry of Deus lo vult! as Europe mobilized to aid the Byzantine East and liberate the Holy Land. Since both Henry IV and Philip I were excommunicated, leadership of this vast movement fell to the pope. Remarkably, this happened just 50 years after the Synod of Sutri (1046), in which Henry III had saved the papacy and set it on the path to universal greatness.

The Major Crusades

First Crusade (1096–1099)
Urban II’s powerful speech at Clermont, spread by zealous preachers across Europe, ignited fervor. The popular response was overwhelming. An enormous crowd of peasants and commoners, led by Peter the Hermit, preceded the official crusading armies. However, these undisciplined zealots committed bloody massacres of Jews and engaged in pillaging and violence along their path. They were swiftly annihilated by the Turks in their first encounter. The main army, divided into four contingents, converged at Constantinople in 1097 and, in July 1099, conquered Jerusalem, unleashing disgraceful looting and horrific massacres of the local population. The outcome of this First Crusade was the establishment of the Christian Kingdom of Jerusalem, modeled on the feudal system with small principalities.

Second Crusade (1147–1149)
Launched to aid Eastern Christians against the Turks, who had seized Edessa (1144). Preached fervently by Bernard of Clairvaux, the crusading armies of France and Germany regrouped but suffered heavy losses, ultimately returning defeated and disillusioned. This left the Kingdom of Jerusalem isolated and vulnerable to the powerful Saladin, who conquered it in 1187. This set the stage for the Third Crusade.

Third Crusade (1189–1192)
Responding to Saladin’s conquest of Jerusalem, this well-organized crusade achieved a brilliant victory at Iconium. However, the unexpected death of Emperor Frederick Barbarossa deprived the expedition of its leader, preventing further success. Nonetheless, it secured a truce allowing Christians access to Jerusalem.

Fourth Crusade (1202–1204)
The death of Saladin (1192) encouraged the West to embark on another crusade, promoted by Pope Innocent III. Unfortunately, the expedition, financed by Venice, which had expansionist and commercial ambitions in the East, was diverted to Constantinople. There, after a horrific massacre that deepened the rift between East and West, the Latin Empire was established, provoking bitterness and outrage throughout the Western world. This crusade was a religious and political tragedy to the extent that doubts arose about the feasibility of continuing these “Christian expeditions.” It was at this point that the idea emerged that God might prefer to rely on defenseless virgins and children rather than warriors. Inspired by this notion, the so-called “Children’s Crusade” (1212) took place, consisting of boys from France and Germany, but it ended in utter failure.

Fifth Crusade (1217–1221)
This was a private enterprise undertaken by the excommunicated Emperor Frederick II, which ultimately proved to be a substantial failure. The crusaders seized Damietta in Egypt with the intention of exchanging it for Jerusalem; however, they became trapped there and were forced to retreat hastily to save themselves. It was in Damietta, in 1219, that Saint Francis attempted, unsuccessfully, to convert Sultan Al-Kamil.

Sixth Crusade (1228–1229)
This was the only crusade, aside from the First, to achieve positive results. Led by Frederick II, it secured Jerusalem, Nazareth, and Bethlehem through negotiations with Sultan Al-Kamil, along with a ten-year truce. However, Christendom viewed this achievement with suspicion, considering it impious, though Jerusalem remained under Christian control until 1244.

Seventh Crusade (1249–1254)
King Louis IX took on the mission of liberating the Holy Land, but after conquering Damietta, he was captured and remained imprisoned for four years before returning to France upon paying a hefty ransom. He later attempted an Eighth Crusade (1270), which ended in disaster as disease decimated his forces. The king died in front of Tunis. Twenty years later, all Latin possessions in the East were abandoned.

The Consequences of the Crusades

Although the Crusades ultimately ended in military failure, they had a profound impact on social, cultural, political, and religious spheres. For nearly two centuries (1095–1291), Europe rediscovered its Christianitas, rallying around the papacy as the spiritual, religious, and political leader of the West, transcending the boundaries of individual states. During these centuries, a unified European and Western consciousness emerged, with the papacy serving as its focal point and unifying force. Additionally, there was a spiritual and religious awakening of consciences, as people viewed the Crusades as a Peregrinatio religiosa—a sacred pilgrimage modeled on the poor and crucified Redeemer, inspiring the ideal of imitating Christ through poverty and penance. This, in turn, led to the rise of the first pauperist movements. Another consequence was the increase in the religious and political authority of the papacy, which became the central force unifying all of Western Christendom. The Crusades also fostered a renewed connection between the West and the East, akin to a return to Christian origins. They facilitated encounters with Arab culture, particularly Arab-Aristotelian philosophy, opening new theological perspectives. Trade also benefited, especially for Venice, which built its commercial empire upon the Crusades. Finally, the Crusades alleviated social tensions by channeling everyday violence into what was perceived as a righteous cause. For violent individuals, troublemakers, impoverished wanderers, and adventurers, the Crusades provided an outlet for their existential instability.

Negative Aspects of the Crusades

The Crusades’ results were meager, disappointing, and virtually nonexistent. The objectives set out were largely unfulfilled, leading to massive casualties and unimaginable violence that wounded the consciences of both the Western and Eastern worlds. From an evangelical perspective, the Crusades were a disaster, inflicting a deep spiritual and moral wound within the Church. In recent times, the Church has felt the need to seek God’s forgiveness for the immense, reckless massacres and the great suffering inflicted on a part of humanity.

 

 

 

 

 

L’utopia realizzabile

La visione politica di James Harrington
in La Repubblica di Oceana

 

 

 

 

James Harrington, filosofo e teorico politico inglese, scrisse La Repubblica di Oceana nel 1656, in un periodo storico segnato da profondi cambiamenti politici e sociali in Inghilterra. L’opera fu pubblicata durante il Commonwealth di Oliver Cromwell, successivo alla Guerra civile inglese (1642-1651) e alla decapitazione del re Carlo I nel 1649. In un’epoca in cui il vecchio ordine monarchico veniva messo in discussione e le idee repubblicane iniziavano a guadagnare terreno, Harrington propose un modello di governo che si poneva quale alternativa sia al dispotismo monarchico sia ai rischi di instabilità associati alla democrazia diretta. La Repubblica di Oceana rappresenta, quindi, una risposta politica e intellettuale ai problemi del suo tempo, fornendo la visione di una società razionale, equilibrata e stabile.
Il contesto culturale e politico del Seicento inglese fu caratterizzato da una crescente riflessione sulla sovranità, sulla proprietà e sulla partecipazione politica. La rivoluzione puritana e la successiva instaurazione del Commonwealth avevano sollevato interrogativi fondamentali sull’organizzazione del potere e sul ruolo delle istituzioni. Harrington, influenzato dai classici greci e romani, nonché dalle opere di Machiavelli, si fece portavoce di un’idea di governo basata su princìpi razionali e sulla virtù civica. La sua opera si distingue per l’intento pratico: non si limita a immaginare una società ideale, ma si propone di offrire soluzioni concrete e applicabili al contesto inglese del suo tempo.
Il cuore della riflessione di Harrington risiede nella connessione tra proprietà terriera e potere politico. Secondo il filosofo, il controllo della terra determina inevitabilmente l’equilibrio delle forze politiche in una società. La concentrazione delle proprietà in poche mani conduce a governi oligarchici o tirannici, mentre una distribuzione più equa della terra garantisce stabilità e partecipazione democratica. Harrington propone, quindi, una redistribuzione della proprietà fondiaria come fondamento di una società giusta e di un governo repubblicano. Questo approccio evidenzia l’importanza delle strutture economiche come base per l’organizzazione politica, anticipando tematiche che sarebbero poi emerse con forza nel pensiero politico moderno.

Un altro elemento centrale di La Repubblica di Oceana è la sua struttura istituzionale, che riflette un modello di governo misto. Harrington immagina una repubblica in cui il potere sia distribuito tra diverse istituzioni, ognuna delle quali rappresenta un principio politico distinto. Il Senato rappresenta l’aristocrazia e si occupa della deliberazione e della formulazione delle leggi, mentre l’assemblea popolare, espressione della democrazia, approva le decisioni legislative. A questi due organi si aggiunge un esecutivo, incaricato di applicare le leggi e garantire l’equilibrio tra le parti. Questo sistema misto si ispira alla costituzione dell’antica Roma e alle riflessioni di Polibio sulla combinazione di monarchia, aristocrazia e democrazia, adattandole al contesto moderno di Harrington. Per prevenire la corruzione e il consolidamento del potere, Harrington introduce l’idea della rotazione degli incarichi pubblici attraverso meccanismi di sorteggio ed elezione, una proposta che mira a garantire la partecipazione diffusa e a evitare che una classe politica si trasformi in una casta privilegiata.
L’etica politica di Harrington ruota intorno al concetto di virtù civica, considerata il fondamento di una società stabile e giusta. In Oceana, i cittadini sono attivamente coinvolti nella vita politica e mettono il bene comune al di sopra degli interessi personali. La partecipazione attiva e consapevole alla res publica è il principio cardine su cui si basa la stabilità della repubblica. Harrington ritiene che una società virtuosa possa essere costruita solo attraverso un’educazione politica e una distribuzione equa delle risorse, che impediscano la formazione di disuguaglianze eccessive.
Sul piano delle influenze e dei confronti, La Repubblica di Oceana si colloca nel filone delle utopie politiche del Seicento, ma si distingue per la sua attenzione alle implicazioni pratiche delle teorie proposte. Rispetto a opere precedenti, come La Città del Sole di Tommaso Campanella, pubblicata nel 1602, l’approccio di Harrington è meno idealistico e più orientato a rispondere alle esigenze concrete del suo tempo. Campanella immagina una società teocratica e proto-comunista, in cui la proprietà privata è abolita e il governo è affidato ai sapienti, secondo una visione influenzata dal neoplatonismo e dalla religiosità. Harrington, invece, considera la proprietà come una componente essenziale dell’ordine politico e si concentra su una redistribuzione equa piuttosto che sulla sua eliminazione.
Un altro confronto significativo è con Nuova Atlantide di Francis Bacon, pubblicata postuma nel 1626. Bacon descrive una società ideale basata sul progresso scientifico e tecnologico, in cui l’organizzazione politica è subordinata alla ricerca del sapere e al benessere collettivo derivante dall’innovazione. Sebbene Harrington condivida l’idea di una società razionale, la sua attenzione si rivolge principalmente agli aspetti istituzionali e alla gestione del potere, piuttosto che alla scienza o alla tecnologia.
Infine, un paragone interessante può essere fatto con Utopia di Thomas More, pubblicata nel 1516, che, pur appartenendo a un contesto storico e culturale diverso, condivide con Oceana il desiderio di riformare la società attraverso un modello ideale. Tuttavia, mentre l’opera di More si presenta come una narrazione satirica che solleva interrogativi senza offrire soluzioni applicabili, Harrington costruisce un sistema politico dettagliato e concretamente realizzabile.
L’eredità de La Repubblica di Oceana è significativa, in quanto anticipa molte delle idee che sarebbero state sviluppate nel pensiero politico moderno. Harrington influenzò teorici come John Locke e Montesquieu, i quali ripresero i suoi concetti di separazione dei poteri e di equilibrio politico. L’opera ispirò anche i Padri Fondatori degli Stati Uniti, che ne trassero spunti per la redazione della Costituzione americana. In definitiva, La Repubblica di Oceana costituisce un punto di incontro tra utopia e realismo politico, una visione ambiziosa di una società giusta e stabile che riflette le tensioni e le speranze del Seicento inglese, ma che continua a offrire spunti di riflessione anche nella contemporaneità.

 

 

 

 

La miseria della filosofia

Il duello intellettuale tra Marx e Proudhon
che ridefinì il socialismo moderno

 

 

 

 

La miseria della filosofia di Karl Marx, pubblicata nel 1847, è una delle opere più significative del pensiero marxiano, imperniata su una critica serrata alle teorie di Pierre-Joseph Proudhon e alla sua Philosophie de la misère (1846). Nella prima metà del XIX secolo, l’espansione del capitalismo stava generando una rapida crescita economica, accompagnata da disuguaglianze sempre più marcate tra le classi sociali. La borghesia industriale si affermava come classe dominante, mentre la classe operaia, vittima di sfruttamento e di dure condizioni di lavoro, cominciava a organizzarsi per rivendicare diritti e condizioni più eque. In questo contesto, il socialismo emergeva come un movimento articolato in diverse correnti e interpretazioni. Proudhon, tra i principali teorici del socialismo francese, tentava di proporre soluzioni ai problemi della società capitalista, combinando filosofia, economia e morale. Tuttavia, la sua opera, pur animata da uno spirito progressista, fu considerata da Marx teoricamente incoerente e insufficiente per affrontare le contraddizioni del capitalismo. Esiliato a Bruxelles, Marx stava sviluppando il suo materialismo storico, approfondendo l’analisi sull’economia politica e sulla storia. La critica a Proudhon costituì per lui l’occasione di affinare il proprio pensiero, differenziando il socialismo scientifico da quello utopistico.
La miseria della filosofia è un testo polemico e sistematico, che demolisce le fondamenta teoriche delle proposte di Proudhon. Divisa in due parti principali, l’opera critica l’economia politica idealistica di del filosofo francese e riflette sul metodo dialettico e sul ruolo della storia nelle trasformazioni sociali.
Proudhon sosteneva che fosse possibile creare una società giusta ed equilibrata attraverso riforme che promuovessero la cooperazione tra individui e una giusta distribuzione della ricchezza. In Philosophie de la misère, proponeva un sistema mutualistico basato sulla collaborazione libera e priva delle imposizioni dello Stato o del capitalismo. Pur criticando la proprietà capitalistica con il celebre slogan “La proprietà è un furto”, considerava comunque legittimo il possesso personale derivante dal lavoro. Proudhon, riformista convinto, credeva in una trasformazione graduale del capitalismo attraverso cooperative, democratizzazione del credito e abolizione degli interessi sui prestiti. Tuttavia, Marx giudicava queste idee ingenue e incapaci di risolvere le contraddizioni strutturali del capitalismo.
Marx accusò Proudhon di un approccio superficiale e idealistico, basato su una presunta scienza universale dell’economia fondata su princìpi di giustizia eterna. Per esempio, Proudhon proponeva una “banca del popolo” per offrire credito senza interessi e un sistema di scambio fondato sul valore del lavoro. Marx stroncava tutto ciò, sostenendo che il problema centrale risiedesse nella struttura stessa del capitalismo, basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sullo sfruttamento del lavoro salariato.
Un elemento centrale della critica di Marx era il concetto di valore. Mentre Proudhon cercava una definizione morale e universale del valore economico, Marx sviluppò una teoria più articolata, evidenziando come il valore fosse il prodotto delle condizioni storiche e sociali della produzione. Nel capitalismo, il valore delle merci è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario, ma questa realtà è oscurata dal “feticismo delle merci”, secondo cui il prodotto domina l’uomo e i rapporti sociali appaiono come semplici rapporti fra cose, autonome rispetto a chi le ha prodotte e dimenticando che le merci sono il frutto del lavoro umano. Proudhon, nel giudizio marxiano, non riusciva a cogliere questa dimensione, limitandosi a proporre soluzioni astratte e irrealizzabili.
La critica metodologica di Marx si concentrò anche sull’uso della dialettica. Proudhon semplificava la dialettica hegeliana in un procedimento in cui la sintesi fosse, in realtà, solamente la tesi che aveva sconfitto l’antitesi. Marx la considerava, invece, un metodo per comprendere le contraddizioni sociali e il movimento della storia. Le trasformazioni sociali avvenivano tramite il conflitto tra classi, non con compromessi o riforme graduali. Marx si opponeva radicalmente al riformismo di Proudhon accusandolo di mascherare il capitalismo con una facciata morale. Per Marx, il capitalismo non poteva essere riformato, ma doveva essere superato attraverso la lotta di classe e la rivoluzione. La proprietà privata dei mezzi di produzione era per lui la causa principale dello sfruttamento e dell’alienazione, e solo la sua abolizione avrebbe portato a una società senza classi. Nel pensiero marxiano, la lotta di classe è il motore della storia, e il proletariato ha il compito storico di rovesciare il capitalismo e costruire una nuova società basata sulla proprietà collettiva. Marx rifiutava altresì l’idea di un cambiamento graduale e pacifico, ritenendo che le contraddizioni del capitalismo richiedessero una rottura radicale. Le istituzioni esistenti erano strutturate per mantenere il potere della classe dominante e le proposte di Proudhon di riformare il capitalismo dall’interno risultavano, secondo Marx, illusorie e inefficaci.
La miseria della filosofia costituisce uno spartiacque nel pensiero socialista del XIX secolo. Con la critica a Proudhon, Marx elaborò le basi teoriche del socialismo scientifico, distinguendolo dalle correnti utopistiche e riformiste. L’opera evidenziò le divergenze tra due grandi pensatori e anche due visioni opposte del cambiamento sociale: quella gradualista e morale di Proudhon e quella rivoluzionaria e materialista di Marx. La forza della critica marxiana era nella capacità di analizzare il capitalismo nelle sue contraddizioni più profonde, ponendo le fondamenta per una teoria rivoluzionaria che avrebbe condizionato profondamente la storia del XX secolo.

 

 

 

 

 

Il barbaro nel mondo greco

Tra identità culturale e pregiudizio ideologico

 

 

 

 

Il termine barbaro ha un’origine etimologica profondamente radicata nella percezione che i greci avevano del mondo esterno. Derivato dall’onomatopea “bar-bar”, imitava il suono che i greci attribuivano a chi parlava lingue incomprensibili o sconnesse rispetto alla loro. Questo uso originariamente descrittivo si trasformò in uno strumento culturale e politico per distinguere tra il “noi” e il “loro”. Parlare greco correttamente, o meglio ancora padroneggiarne le sfumature colte, significava essere parte della civiltà; non farlo equivaleva a essere esclusi da essa.
Questo pregiudizio linguistico era intrinsecamente legato al concetto di cultura e identità, ponendo i greci al centro di un universo ideale. Persino popoli di grande raffinatezza culturale, come i Persiani, venivano inclusi nella categoria dei barbari, nonostante fossero portatori di una tradizione ricca e consolidata. L’idea di barbaro, quindi, non era semplicemente una questione di lingua o di capacità comunicativa, ma uno strumento di categorizzazione culturale che implicava giudizi di valore e gerarchie di civiltà.
Nel mondo greco, il concetto di barbaro era fluido e multifattoriale, adattandosi ai bisogni ideologici e politici del tempo. Da una parte, serviva a consolidare l’identità collettiva dei greci, definendo il loro sistema di valori e il loro modello di convivenza sociale. Dall’altra, rappresentava uno specchio delle loro paure e aspirazioni nei confronti di popoli stranieri. La distinzione fondamentale non era tanto basata su un’oggettiva arretratezza delle altre civiltà, quanto sulla contrapposizione simbolica tra polis greca e il mondo esterno.
La polis, con il suo sistema di partecipazione politica, l’uguaglianza tra cittadini e la centralità delle leggi, incarnava il modello ideale di organizzazione civile. In contrapposizione, le società definite “barbare” venivano spesso descritte come dominate dal dispotismo e caratterizzate dalla subordinazione degli individui a un sovrano assoluto. Questa visione stereotipata non teneva conto della complessità dei sistemi sociali stranieri, ma serviva a giustificare la percezione di superiorità greca.
Tuttavia, è importante sottolineare che questa dicotomia non era immutabile. Nel corso dei secoli, l’interazione con altre culture portò a una maggiore consapevolezza della ricchezza culturale straniera. Le guerre persiane, ad esempio, furono un momento cruciale: pur essendo un confronto violento e ideologicamente polarizzato, permisero ai greci di osservare da vicino la complessità e l’organizzazione dei loro avversari.
In questo panorama dominato da pregiudizi e contrapposizioni, alcune figure emersero come punti di riferimento per un’analisi più equilibrata. Erodoto, considerato il padre della storiografia, è uno degli esempi più emblematici. Nelle sue Storie, non si limitò a descrivere i conflitti tra greci e barbari, ma trattò con curiosità e ammirazione le tradizioni, i costumi e le istituzioni di popoli come Egiziani, Persiani e Lidi.

Pur rimanendo ancorato a una prospettiva greco-centrica, Erodoto riconobbe l’importanza dei contributi culturali e scientifici del Vicino Oriente. Egli osservò, ad esempio, che molte delle conoscenze greche in ambito matematico, astronomico e medico derivassero dall’Egitto e dalla Mesopotamia. Questa visione, sebbene non completamente priva di giudizi di valore, introdusse una sfumatura di apertura e rispetto per l’altro, che contrastava con l’immagine stereotipata del barbaro come rozzo e inferiore.
Se Erodoto cercava un punto di equilibrio tra curiosità e pregiudizio, Aristotele contemplò un approccio diametralmente opposto, consolidando una visione fortemente gerarchica delle relazioni tra greci e barbari. Nel suo trattato Politica, Aristotele sviluppò una teoria che attribuiva una differenza biologica e naturale tra questi due gruppi. I barbari, secondo lui, erano “schiavi per natura” (physei douloi), incapaci di esercitare il controllo sulla propria vita e dunque destinati a essere governati da altri.
Questa concezione non era solo una giustificazione della superiorità greca, ma una base teorica per la legittimazione di rapporti di subordinazione politica, economica e sociale. Aristotele elevava la polis greca a modello ideale, suggerendo che essa rappresentasse l’apice della civiltà e che i popoli barbari, incapaci di creare istituzioni simili, fossero intrinsecamente inferiori. Questa idea trovò terreno fertile nella società greca, contribuendo a radicare stereotipi che avrebbero influenzato il pensiero occidentale per secoli.
L’idea di barbaro non può essere compresa senza analizzare il suo ruolo nel definire l’identità greca. Per i greci, il barbaro rappresentava l’opposto del cittadino: era l’altro, il diverso, colui che metteva in evidenza, per contrasto, i valori e i meriti della cultura greca. Questo dualismo, tuttavia, non era privo di ambiguità. Da un lato, il barbaro era considerato inferiore e minaccioso; dall’altro, il suo stesso esistere stimolava i greci a riflettere su se stessi e sul significato della loro civiltà.
La percezione dei barbari si trasformò ulteriormente con l’espansione dell’Impero macedone e, successivamente, con l’Ellenismo, quando le culture greca e orientale entrarono in una fase di intensa contaminazione reciproca. Durante questo periodo, l’idea di superiorità greca fu parzialmente mitigata dalla consapevolezza della complessità e della ricchezza delle civiltà orientali.
L’evoluzione del concetto di barbaro nel mondo greco ci rivela molto non solo sul rapporto tra i greci e gli altri popoli, ma anche sulla loro stessa visione del mondo e della civiltà. Il barbaro era un simbolo, una costruzione ideologica che rifletteva le ansie, i pregiudizi e le aspirazioni di una cultura in continua ricerca di definizione. Oggi, l’analisi storica di questo concetto ci invita a riflettere su come le categorie di “noi” e “loro” continuino a plasmare il nostro modo di vedere il mondo.

 

 

 

 

Il sistro

L’armonia sacra tra suono e divinità

 

 

 

 

Il sistro è uno strumento musicale dalle origini antichissime, il cui suono tintinnante ha accompagnato rituali religiosi, celebrazioni sacre e momenti di vita quotidiana nella storia culturale e artistica di molte civiltà. Nato nell’antico Egitto, si è diffuso nel Mediterraneo e oltre, divenendo un simbolo potente di spiritualità e armonia cosmica. Esaminandone le caratteristiche, il significato simbolico e i riferimenti letterari, se ne comprende l’importanza nella storia dell’umanità.
Il sistro è formato da un telaio metallico arcuato o a forma di manico, spesso decorato con immagini e simboli sacri. Attraverso il telaio passano asticelle orizzontali, che reggono dischi metallici o anelli mobili. Il movimento di queste parti, generato agitando lo strumento, produce un suono ritmico e vibrante.
Due tipologie principali se ne distinguono: il sistro arcaico egizio, spesso decorato con immagini della dea Hathor, caratterizzato da una struttura semplice e simbolica, e il sistro romano, più elaborato, introdotto a Roma attraverso il culto di Iside e associato a rituali complessi e misterici. Il bronzo, il rame o l’argento erano usati per la sua realizzazione e la decorazione era parte integrante del valore rituale e artistico dello strumento.
Il sistro era un elemento fondamentale nei rituali religiosi egizi, specialmente in quelli dedicati a divinità femminili come Hathor, Iside e Bastet. Hathor, dea della musica, della fertilità e della gioia, era spesso raffigurata con il sistro, simbolo della sua capacità di armonizzare il mondo. Il tintinnio evocava la vibrazione primordiale che, secondo la cosmogonia egizia, aveva dato origine alla creazione. Al suono del sistro erano anche attribuiti poteri apotropaici: scacciava le forze negative e ristabiliva l’equilibrio universale. Era spesso utilizzato nelle processioni, accompagnando danze e canti, per invocare la protezione divina e celebrare la fecondità della terra e delle acque. Nella tradizione greco-romana, poi, il sistro divenne un elemento centrale nei misteri isiaci, rituali iniziatici che celebravano la rinascita spirituale e il potere rigenerante della dea.

Il fascino esercitato dal sistro attraversa secoli di letteratura, dalle descrizioni degli antichi storici fino alle opere di epoche successive. I testi letterari non solo ne testimoniano l’uso, ma ne rimarcano anche il significato simbolico e rituale. Nella sua opera Storie, Erodoto descrive in dettaglio i rituali in onore di Iside, evidenziando l’uso del sistro come elemento essenziale. La sua cronaca testimonia il legame indissolubile tra musica e religione nell’antico Egitto, rilevando il ruolo del sistro nella celebrazione della fertilità e della vita. Nel romanzo Le Metamorfosi (o L’asino d’oro), Apuleio riporta una delle più suggestive rappresentazioni del culto di Iside. Nella visione mistica del protagonista Lucio, i sacerdoti agitano i sistri durante una solenne processione, evocando il potere della dea e la trasformazione spirituale. Virgilio, nell’Eneide, descrive Cleopatra, regina d’Egitto, che porta il sistro come segno della sua identità e dei suoi legami religiosi con il mondo egizio. Nel Medioevo, il sistro appare in descrizioni di fonti arabe e bizantine come simbolo esotico, legato all’antico Egitto. Durante il Rinascimento, con il rinnovato interesse per l’antichità, lo strumento fu citato da scrittori e artisti, spesso per evocare atmosfere misteriose o per rappresentare la sapienza e la spiritualità orientale.
Oltre che nella letteratura, il sistro appare frequentemente nell’arte. Affreschi, bassorilievi e statuette raffigurano sacerdotesse e musicisti che lo suonano. Notevole è la rappresentazione del sistro nei templi egizi, come a Dendera, dove scene di culto mostrano l’importanza di questo strumento nei rituali sacri. In epoca romana, il sistro è presente su monete e rilievi dedicati a Iside, a sottolineare l’universalità del suo significato.
Sebbene oggi il sistro non sia più utilizzato come in passato, esso sopravvive in strumenti musicali simili, come alcuni tipi di sonagli e tamburelli. Inoltre, il suo significato simbolico continua a essere approfondito in studi accademici, opere letterarie e performance artistiche che celebrano il legame tra musica, religione e cultura.

 

 

 

 

Luce nell’ombra

Il canto malinconico di Manfredi

 

 

Dedicato a Manfredi Brichetto Scotti

 

 

 

Tra i tanti spiriti che Dante incontra lungo il suo viaggio letterario ultraterreno, Manfredi di Svevia si distingue per la dolente dignità e per il tragico intreccio di storia, politica e redenzione. Nel Canto III del Purgatorio, egli appare quale figura luminosa, immersa in una malinconia che non è disperazione, ma consapevolezza del destino umano e della misericordia divina. La sua vicenda, narrata nei versi danteschi, è un richiamo alla fragilità del potere terreno e alla speranza eterna che si accende nel pentimento.
Figlio illegittimo dell’imperatore Federico II e di Bianca Lancia d’Agliano, Manfredi incarnava molte delle virtù e dei difetti della dinastia sveva. Nato nel 1232, fu cresciuto in un ambiente di raffinata cultura, che lo plasmò come poeta e uomo d’ingegno. Al pari del padre Federico, fu un mecenate delle arti e della letteratura e la sua corte fu un centro di straordinario fermento culturale. Tuttavia, la sua vita non fu solo votata alla cultura: fu un abile stratega militare e politico, che lottò per consolidare il Regno di Sicilia contro le minacce dei papi e dei nemici esterni. Dopo la morte di Federico II e del fratellastro Corrado IV, assunse la reggenza del regno, che proclamò suo nel 1258. La sua bellezza fisica e il carisma personale contribuirono a creare il mito di un re amatissimo dal popolo, ma odiato dalla Chiesa, che lo scomunicò ripetutamente per la sua resistenza all’autorità papale. Manfredi trovò la morte nella battaglia di Benevento, nel 1266, sconfitto dall’esercito angioino di Carlo I, inviato da papa Clemente IV per estirpare la dinastia sveva. La sua morte fu l’epilogo di una vita segnata dal contrasto tra ambizione e persecuzione, tra grandezza e condanna.
Nel Purgatorio, Dante lo incontra tra le anime degli scomunicati, che attendono di purificarsi per salire verso il Paradiso. Il re è descritto con delicatezza e rispetto, quasi con affetto, come un’apparizione luminosa ma malinconica. Manfredi è presentato con un gesto umile e regale insieme, svelando la sua identità con un senso di tragica ironia:

Io mi volsi ver’ lui e guarda il fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

La descrizione fisica è simbolica: la bellezza del principe è spezzata da una ferita, un dettaglio che richiama la sua morte violenta e il destino travagliato. L’elemento lirico del verso si mescola alla concretezza della sua storia, rendendo Manfredi una figura profondamente umana e poetica.

Manfredi narra a Dante il momento della sua fine, quando, ferito a morte, si rivolse a Dio con un pentimento sincero. I versi sottolineano la potenza della misericordia divina, che supera ogni giudizio terreno:

Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.

Questa ammissione di pentimento, accompagnata dal verbo “piangendo,” dona alla figura di Manfredi una dimensione struggente. Egli, sovrano orgoglioso e guerriero indomito, si arrende infine alla grazia divina, trovando la redenzione nel momento della massima vulnerabilità.
Il racconto di Manfredi si concentra poi sulla crudele sorte del suo corpo dopo la morte. L’arcivescovo di Cosenza, su ordine del papa, fece dissacrare la sua sepoltura, un atto che intendeva cancellare ogni traccia della sua esistenza. Le sue ossa furono gettate al di là del fiume Verde, oltre i confini del Regno di Napoli:

l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.

Questa immagine del “fior del verde” è profondamente lirica e simbolica: il verde della speranza divina contrasta con la desolazione del luogo dove furono gettate le sue spoglie. Anche qui, Dante ribalta la condanna umana: nonostante l’ingiustizia terrena, l’anima di Manfredi è accolta dalla misericordia divina. Il suo messaggio è un grido contro l’arroganza del potere ecclesiastico, che non può limitare la grazia di Dio.
Manfredi incarna uno dei temi fondamentali della Divina Commedia: la possibilità della redenzione, che è aperta a tutti, anche agli scomunicati e ai peccatori più gravi, purché si pentano sinceramente. La sua figura richiama altre anime del Purgatorio, come Bonconte da Montefeltro, che si salva grazie a un ultimo pensiero rivolto a Dio.
La storia di Manfredi risuona anche come un ammonimento per i lettori: il potere terreno è effimero, ma la salvezza è eterna. Dante utilizza la sua vicenda per criticare l’eccessiva severità della Chiesa medievale e per ribadire il primato della misericordia divina. L’umanità di Manfredi, il suo pentimento e la sua speranza sono un esempio di come la grazia possa illuminare anche le esistenze più tormentate.
La figura di Manfredi nella Divina Commedia è un intreccio di storia, poesia e teologia. Il suo racconto, intriso di malinconia e speranza, supera la dimensione individuale per diventare un simbolo universale. Egli non è solo un re sconfitto, ma un’anima che trova la pace nel riconoscimento della propria fragilità e nella fiducia nella misericordia divina.
Le sue ultime parole a Dante sono un invito a guardare oltre le apparenze, oltre i giudizi umani, e a confidare nella giustizia divina:

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’ hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza.

Con queste parole, Manfredi riafferma la sua identità non come re, ma come figlio di Dio, riconquistando quella dignità che gli era stata negata in vita.

 

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part IX


The Apex of the Papacy: Innocent III and Boniface VIII

 

 

 

 

The ultimate aspiration of Gregory VII (1073–1085), as outlined in his Dictatus Papae (1075), was fully realized with Innocent III, the most powerful pope of the entire Middle Ages.
Under Innocent III, the papacy solidified its primacy throughout the Western Church and its authority—moral and beyond—over all European states. He embodied the Augustinian concept of the Civitas Dei, bolstered by the Donation of Constantine, which was then regarded as genuine.
At this time, the Church appeared as the true Imperium Romanum, with the papacy claiming absolute power over the world. The pope became the Caput Christianitatis, presiding over many peoples united in a single faith.
Innocent III was a deeply religious man, rich in inner spirituality, dedicated to asceticism, and steadfast in his role as pastor and priest. Born Lotario, from the noble Segni family, in 1160, he studied theology and canon law in Paris and Bologna before being inducted into the College of Cardinals by his uncle, Pope Clement III.
Despite his small stature and fragile health, he was a man of extensive learning, remarkable moral strength, and keen intellect. He possessed a broad perspective and addressed all matters with prudence. His involvement in temporal affairs was solely to safeguard the Church’s autonomy and prevent it from becoming an imperial fiefdom.
Innocent III did not claim the right to elect the emperor but reserved the authority to evaluate the moral qualities of the candidate.
To Innocent III, the affairs of this world were subordinate to God’s divine order. Thus, sovereigns and princes were obliged to bow to God’s will. He envisioned the world as a great hierarchy with Christendom at its apex, where the pope served as an intermediary between God and humanity, judging all but answerable only to God.
He recognized the importance of mendicant orders within the Church, particularly approving the Order of St. Francis, understanding that these orders would drive the Church’s renewal, which had become overly entangled in worldly affairs. Innocent shared their detachment from wealth and grandeur, abstaining from such distractions himself.
Innocent III’s legacy can be understood through four key areas. First, in political leadership, Innocent III brought stability to Rome and the Papal States, effectively defending them against expansionist threats and imperial claims. His governance reinforced papal authority and ensured the Church’s influence in temporal matters. Second, in the realm of crusades and unity, he played a pivotal role in organizing the Fourth Crusade, aiming to reclaim the Holy Land. Additionally, he sought to reconcile the Western and Eastern Churches, emphasizing the need for unity in Christendom. Third, Innocent III focused on combatting heresies, actively opposing movements like the Cathars and Waldensians. His efforts to preserve orthodox faith and practice defined much of his papacy’s confrontational stance against perceived threats to Church doctrine. Finally, his commitment to church reform culminated in the Fourth Lateran Council, a historic assembly of 500 bishops and 800 abbots. This council synthesized his reform efforts, addressing themes such as Church administration, the moralization of the clergy, the promotion of the Fourth Crusade, and the suppression of heresies, solidifying Innocent III’s influence and marking the zenith of his papal reign.

Innocent III and the Struggle with the Hohenstaufens

Innocent III’s pontificate and the 13th century as a whole were marked by the papacy’s struggle against the Hohenstaufen dynasty, which resisted its claims, threatening the libertas ecclesiae. The empire sought to restore the dominance it had enjoyed under the Ottonians.
After complex events, Innocent III deposed Emperor Otto IV, who had reneged on his pro-papal promises, and supported Frederick II’s ascension as King of Germany in 1212. However, Frederick II soon sought to subordinate the Church to his authority, envisioning a unified religious and political power vested in the emperor.
Pope Gregory IX (1227–1241) sought to resolve the conflict through a council, which Frederick II forcibly prevented. Innocent IV (1243–1254) convened a council in Lyon that excommunicated and deposed Frederick II. With the assistance of Charles of Anjou, the Hohenstaufen dynasty was ultimately defeated, culminating in the execution of Conradin of Swabia in Naples. However, Charles of Anjou himself proved problematic for the papacy.

The Crisis of the System

The protracted struggle with the Hohenstaufens divided Italy into Guelfs (papal supporters) and Ghibellines (imperial supporters), fracturing political forces and creating internal divisions.
Within the College of Cardinals, a growing French dominance began with Urban V (1362–1370), laying the groundwork for the Avignon Papacy. Personal ambitions among noble families, such as the Colonna and Orsini, further compounded these divisions, complicating papal elections and leading to long periods of vacancy.
This dynamic gave rise to an unseemly strategy: electing either a decrepit candidate for a short pontificate or one lacking influence, thereby preserving the status quo. In this context, the hermit monk Pietro da Morrone was elected as Celestine V (1241), amidst enthusiasm from Franciscans and spiritualists hoping for a return to the primitive Church. However, he abdicated within months under the pressure of Benedetto Caetani, who succeeded him as Boniface VIII (1294–1303).
Boniface VIII, a figure of great cultural, moral, and political stature, reorganized the Church and sought to mediate conflicts, including those between France and England. However, his clash with Philip IV of France ultimately led to his humiliation at Anagni and marked the end of the high medieval papacy’s glory.

The Papacy’s Claim to Hierarchical Leadership

Following Gregory VII, the Concordat of Worms, and Innocent III, the Church achieved internal autonomy, free from imperial domination. This autonomy extended to temporal matters, including the Papal States, feudal territories, the imperial crown, and the ability to command any authority.
The medieval papal imperium was justified by a shift from imperial theocracy—where the Church was seen as an extension of imperial power—to papal hierocracy. This shift reflected not domination but a new worldview where creation served the redemption accomplished by Christ, represented in the Church, whose pinnacle was the pope.

The Theory of the Two Swords

The relationship between spiritual and temporal power was illustrated using metaphors such as body-soul, sun-moon, and spiritual-temporal swords. The “two swords” analogy, based on Luke 22:38, was particularly favored due to its scriptural basis.
The gladius spiritualis had two levels: spiritual sanctification and visible, coercive authority expressed through legal and punitive powers. When applying ecclesiastical law to the defiant, the gladius temporalis provided material coercion to enforce decisions.
This duality clarified the interaction of spiritual and temporal powers, highlighting the Church’s supervisory role over worldly authority and its mechanisms for maintaining order and addressing sin. Understanding this dynamic is key to grasping the functioning of the Inquisition.

 

 

 

 

Pippo Fava

La voce che non si spegne

1984 – 5 gennaio – 2025

 

 

 

C’era una luce particolare negli occhi di Pippo Fava, un luccichio che parlava di speranza, di coraggio e di amore per la verità. Pippo non era solo un giornalista, uno scrittore o un drammaturgo: era un uomo che aveva scelto di non voltarsi mai dall’altra parte. Nato a Palazzolo Acreide, una piccola perla nel cuore della Sicilia, portava dentro di sé la voce di un’isola tanto bella quanto lacerata, una terra intrisa di profumi e di contraddizioni, di natura rigogliosa e di ombre insidiose.
Fava amava raccontare storie. Non quelle levigate e convenzionali, ma le storie scomode, quelle che pochi avevano il coraggio di ascoltare e ancora meno di narrare. Con la sua penna graffiante e la sua voce appassionata, svelava i legami profondi e spesso invisibili tra la mafia e il potere, tra la corruzione e il silenzio complice di una società intimidita. Non scriveva per ottenere riconoscimenti o applausi, ma per smuovere le coscienze, per risvegliare quella voglia di giustizia che ognuno dovrebbe custodire nel proprio cuore.

Non era facile essere Pippo Fava. Ogni articolo pubblicato, ogni inchiesta portata a termine, era come una sfida lanciata al cielo carico di nuvole scure che gravava sulla sua amata terra. Sapeva che il prezzo della verità poteva essere alto, ma continuava a percorrere il suo cammino con determinazione quasi sacrale. Non si nascondeva dietro le parole, le usava come spade, affilate e precise, per colpire il marcio là dove si annidava.
Eppure, accanto alla fermezza del giornalista e all’ardore dell’attivista, c’era l’animo poetico di un uomo innamorato della vita. Pippo amava l’arte, il teatro, i volti dei contadini segnati dalla fatica e i colori intensi dei tramonti siciliani. Nei suoi scritti, nei suoi editoriali e persino nelle sue denunce, c’era sempre spazio per un tocco di umanità, per un sussurro di bellezza. Era un uomo capace di sognare un futuro luminoso, anche quando tutto intorno a lui sembrava volerlo soffocare.
La sera del 5 gennaio 1984, il rumore secco dei colpi di pistola strappò Pippo Fava alla sua famiglia, ai suoi amici, alla sua terra. Ma non riuscì a spegnere la sua voce. Perché Pippo non è morto quella notte davanti al Teatro Verga di Catania. Vive nei suoi scritti, nelle battaglie che continuano a ispirare, nella memoria di chi crede ancora che la verità non possa essere messa a tacere.
Pippo Fava è il simbolo di un’Italia che non si arrende, un’Italia che non chiude gli occhi davanti al male, un’Italia che crede nella forza della parola e nella dignità dell’uomo. La sua vita è stata breve, ma il suo coraggio e la sua integrità risuonano ancora oggi, come un’eco eterna, nelle strade della sua amata Sicilia e del mondo.

Intervista di Enzo Biagi a Pippo Fava (1983)