In questa Italia, ormai narcotizzata dalla televisione e dai modelli che questa propina, mi chiedo se sia il caso, oggi, nel venticinquesimo anniversario della strage di Capaci, celebrare i carnefici invece delle vittime. Sì, perché, con molta tristezza, devo constatare come la maggior parte degli italiani si appassioni alle vicende di criminali, spesso identificandovisi, specialmente quando si vive in contesti di degrado morale e materiale, piuttosto che riflettere sul sacrificio di galantuomini, spesso abbandonati dalle istituzioni in balia di un potere che, si è scoperto, essere troppe volte in combutta con chi avrebbe dovuto garantire quei valori per i quali alcuni hanno dato la vita. Si fa sempre un gran parlare di coloro i quali settant’anni fa morirono, sulle montagne, per dare la libertà all’Italia. E perché? Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Boris Giuliano, Ninni Cassarà, Beppe Montana, Pietro Scaglione, Gaetano Costa, Carlo Alberto Dalla Chiesa, agenti della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, non sono forse stati ammazzati per continuare a garantire a noi quella libertà? Ad ogni modo, in queste settimane la TV sta mandando in onda serie e fiction su mafia e malavita. Preparatevi ad altre lezioni di storia e di morale di questa Italia becera, ingrata e rincoglionita!!!
Lo squallore politico attuale potrà essere combattuto soltanto da rappresentanti del popolo (gli eletti), convinti assertori e realizzatori non dell’idea della nazione che diventa Stato per evoluzione del Volksgeist hegeliano, quanto piuttosto della costruzione della nazione attraverso lo Stato. Ri-fondare. Certo, ri-fondare, ma non con i materiali disponibili oggi, seppure investiti dalla democratica volontà popolare, garantita dal sistema costituzionale vigente. Ri-fondare, innanzi tutto, l’idea di Stato come luogo d’azione dell’individuo cosmico-storico. Ri-fondare e Ri-formare lo spirito della nazione. Come? Serve un’ecpirosi e la conseguente palingenesi. I tempi, ormai, sono maturi!
Eppure, mi chiedo quale differenza sostanziale possa esservi tra le Ecatombeone, le Gamelione, le Falloforie, le Panatenee, le Dionisie e le processioni della settimana santa, o anche le processioni dei santi patroni. Beh, credo, nessuna, in quanto tutte hanno origine in quella sfera pagana (nel senso di “pagus”, non in contrapposizione alle religioni rivelate) e superstiziosa, figlie, come la religione, della paura e dell’ignoranza, anche se meno sofisticate e più immediate.
La musica di Richard Wagner è una porta drammaticamente aperta sulla filosofia dello spirito di Hegel e quella dell’eterno ritorno all’uguale di Nietzsche. Allo stesso modo, Hegel e Nietzsche ne sono i librettisti, i pilastri su cui poggiano le architetture, mistiche e immaginifiche, del castello di Neuschwanstein, in Baviera, che già si intravedono quando si ascolta Wagner raccontare le vicende dello spirito del popolo tedesco!
LE PRIME TESTIMONIANZE SCRITTE DELLA LINGUA DELLA LETTERATURA ITALIANA
Non è possibile stabilire una data precisa o un punto di partenza della Letteratura in italiano. Si può, però, cominciare con l’analizzare cosa stesse accadendo, in Italia, intorno all’anno Mille, alla lingua di quella che sarebbe poi stata la Letteratura Italiana. Il latino continuava ad essere l’unico codice linguistico scritto, adoperato da tutti coloro che “facevano” cultura. Per quanto riguarda l’orale, invece, le cose stavano in modo molto diverso. La lingua volgare (non perché maleducata, ma perché parlata dal volgo, il popolo), pian piano, si stava diffondendo in tutta la Penisola. Non in modo uniforme, tuttavia, quanto piuttosto su base locale, con caratteristiche diverse, anche estremamente diverse, a seconda delle aree geografiche e delle differenti condizioni che queste presentavano. Si generarono, così, quelle varietà linguistiche, quegli idiomi, quei vernacoli (chiamateli come volete!), che sarebbero stati definiti dialetti e che, ancora oggi, distinguono le parlate delle varie regioni italiane. Gli uomini e le donne che non conoscevano il latino, né scritto, né orale, erano tantissimi, pressoché tutti. Era necessario, pertanto, usare una lingua che questi avessero potuto capire e riprodurre facilmente, specialmente quando si trattava di scrivere. La soluzione fu semplice: abbandonare il latino dei dotti e di quelli che erano andati a scuola e scrivere come si parlava: in volgare. Tutti avrebbero capito! Per questo motivo, si cominciò a impiegare la lingua volgare per redigere tutti quegli atti, comuni e ordinari, di cui dover conservare prove e memoria (si è detto fin dall’antichità: “Verba volant, scripta manent!”) e che tutti, proprio tutti, avrebbero dovuto, per varie ragioni, comprendere adeguatamente: documenti notarili per la vendita di terreni e di proprietà; statuti e ordinamenti delle città, lettere di corrispondenza, eccetera. Le prime testimonianze che segnarono l’inizio di ciò che sarebbe, poi, diventata la lingua italiana furono elaborate soprattutto in questi ambiti.
L’indovinello veronese
“Se pareba boves, alba pratalia araba, albo versorio teneba, negro semen seminaba.”
Per aiutarvi a trovare la soluzione, lo traduco: “Tirava davanti a sé un paio di buoi, arava prati bianchi, usava un aratro bianco e seminava un seme nero.” Questo famosissimo indovinello, scritto forse da un amanuense o da un maestro elementare che amava rendere le sue lezioni più giocose, fu ritrovato, nel 1924, in un manoscritto nella Biblioteca Capitolare di Verona. Esso rappresenta, nella sua forma, il lento passaggio dal latino al volgare. Certo, non è che sia troppo simile al nostro italiano, ma è meglio di niente. La soluzione? La scrittura. I buoi sono le dita, il prato bianco è il foglio, l’aratro è la penna d’oca e il seme nero è l’inchiostro.
L’iscrizione di San Clemente a Roma
Risale alla fine del IX secolo, una sorta di fumetto parietale, con tanto di vignette, ancora conservato nella Chiesa di San Clemente, a Roma. La scena è di quelle da morire da ridere: tre o quattro servi che trascinano una statua, credendo sia un uomo, mentre il loro padrone li riempie di bestemmie. Sisinnio, prefetto romano, aveva una moglie, Teodora. Era seccato che lei fosse stata convertita al Cristianesimo e incazzato perché San Clemente l’aveva convinta a rimanere casta. Sospettando che la bella consorte se la intendesse proprio con il santo, li fece pedinare entrambi, li acchiappò sul fatto in una catacomba e ordinò ai suoi servi di arrestarli. Questi, miracolosamente, furono accecati e portarono via una statua, invece di quel furbacchione di San Clemente, mentre Sisinnio strillava: “Falite dereto colo palo, Carvoncelle, Albertel trai, Gosmari, traite. Fili de le pute, traite.” (Fate leva da dietro con il palo. Carvoncello, Alberto tira, Gosmari, tirate. Figli di zoccola, tirate!).
Il Placito capuano
A testimoniare la sostituzione del latino con il volgare nella redazione di quei documenti che dovevano essere letti e capiti da tutti, c’è Placito capuano. Più o meno nel 960, Rodelgrino d’Aquino litigò con i monaci dell’abbazia di Montecassino, a causa dei confini di proprietà tra il monastero e le sue terre. Si presentarono davanti al giudice Arechisi di Capua il quale, ascoltati tre testimoni, deponenti a favore dei Benedettini, scrisse: “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti”. (So che quelle terre, entro quei confini di cui qui si parla, le ha possedute per trent’anni l’abbazia di San Benedetto).
La Carta di Travale
Nell’Archivio storico della Diocesi di Volterra è conservata una pergamena del XII secolo, conosciuta come Carta di Travale. Vi sono riportate poche parole, giusto due battute, ma ci interessano molto. Ancora una lite, questa volta per il possesso di un castello, tra due fratelli: il conte Ranieri Pannocchieschi e Galgano, vescovo di Volterra. Due testimoni riferirono: “Io de presi pane e vino per li maccioni a Travale”. E l’altro: “Guaita, guaita male, non mangiai ma’ mezzo pane.” L’importante che, alla fine, ci sia stato qualcosa da mangiare per tutti!
Polibio di Megalopoli (206-124 a.C.), insigne storico greco antico, dedicò gran parte dei suoi scritti alla storia di Roma, alla nascita della Repubblica romana e alla sua potenza. Secondo lo studioso, il sistema politico romano repubblicano si basava su una costituzione mista, risultato della sintesi delle tre forme di governo fondamentali, dell’armonia e dell’equilibrio tra i tre organi depositari del potere: la monarchia (rappresentata, a Roma, dai consoli), l’aristocrazia (rappresentata dal senato) e la democrazia (rappresentata dai comizi). Già altri storici greci avevano teorizzato che questi tre ordinamenti degenerassero, inevitabilmente, rispettivamente, in tirannide, oligarchia e oclocrazia. Giunta l’oclocrazia il ciclo si sarebbe poi ripetuto, con il ritorno alla monarchia. Secondo Polibio, nel caso della costituzione mista, anche Roma non sarebbe potuta sfuggire al regresso. Nel VI libro delle “Storie”, il greco descrive proprio l’anaciclosi (in greco, anakyklosis), il processo di ritorno ciclico secondo il quale, le principali forme di governo e le relative degenerazioni si sarebbero succedute l’una all’altra, in un fatale trapasso involutivo: dalla monarchia alla tirannide, dall’aristocrazia all’oligarchia, dalla democrazia all’oclocrazia. Roma, tuttavia, avrebbe potuto ritardare questo processo storico di decadenza grazie alla sua costituzione e alla straordinaria preparazione militare, ma non vi si sarebbe potuta sottrarre. Una fortissima eco di questa teoria è presente nelle dottrine di uno dei pensatori napoletani più eminenti di tutta la storia del pensiero occidentale: Giambattista Vico (1668-1744). Questi, infatti, tra le tante dottrine, formulò quella dei corsi e ricorsi storici, ovvero il continuo e incessante ripetersi di tre cicli temporali distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il tutto, secondo un preciso disegno, stilato dalla divina provvidenza. L’intero sistema filosofico di Vico, impossibile da esaurire in queste poche righe, potente e meraviglioso, secondo le parole di Antonio Gramsci, fu elaborato da un “angoletto morto della storia”. Compitino per le vacanze di Natale: approfondite la filosofia di Giambattista Vico, cominciando con la lettura della “Scienza Nuova” (1725).
Perché l’italiano è diventato la lingua ufficiale dell’Italia dopo l’Unità? C’entra qualcosa Alessandro Manzoni?
L’italiano che noi parliamo oggi non è una derivazione del “volgare” usato da Manzoni (lui già scriveva in italiano), ma, piuttosto, della lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio, raffinatasi, però, nei secoli. Sono state alcune delle opere letterarie, scritte nella lingua che si parlava a Firenze nel ‘300 (lingua che non era dissimile da quelle parlate in tutte le zone d’Italia in quel periodo, proprio perché, anche i dialetti italici, derivavano comunque dal latino), a far diffondere quella lingua attraverso la lettura delle opere con cui erano state scritte. La lingua italiana si è diffusa grazie alla lettura di opere come la Divina Commedia, Il Canzoniereo il Decameron. Non solo i contenuti, quindi, ma anche la stessa forma! Ecco un esempio per mostrare come una lingua acquisti dignità e si diffonda attraverso le opere scritte con essa: Dante Alighieri, da uomo di cultura appassionato di poesia, nel De Vulgari Eloquentia, un’opera tutta sulle lingue, scrisse questo della lingua siciliana: “Indagheremo per primo la natura del siciliano, poiché vediamo che il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri: ché tutto quanto gli Italici producono in fatto di poesia si chiama siciliano”. Il Sommo Poeta scrisse questo perché, all’epoca sua, i sonetti dei poeti della cosiddetta scuola siciliana (quelli raccolti intorno alla corte di Federico II, a Palermo) erano famosi e letti in tutta Italia. Anzi, sulla scorta delle poesie dei siciliani, proprio in Toscana, fiorirono, prima, i cosiddetti poeti siculo-toscani, e, poi, gli stilnovisti, cui Dante stesso, in gioventù. Se non ci fossero stati i poeti siciliani, probabilmente Dante non avrebbe sentito parlare nemmeno della lingua siciliana. È come se dicessi: conosco William Wallace solo perché ho visto il film Braveheart, famoso e diffuso in tutto il mondo, non perché io sia stato in Scozia o abbia studiato la sua storia! Ecco, pertanto, cosa è successo: grandi opere sono state scritte in una variante geografica dell’italiano (il fiorentino del ‘300); queste si sono diffuse perché belle e interessanti; a partire dal ‘500 molti letterati, tra cui Pietro Bembo, grazie a queste opere cominciarono a occuparsi di questioni di lingua, indicando quella di Petrarca specialmente, come la lingua (italiana) più pura e da adottarsi, prima nella comunità dei dotti, e, poi, come lingua di tutta la Penisola (i tentativi di unire l’Italia, almeno dal punto di vista linguistico, sono cominciati molto prima dei Savoia); da un lato i dotti, dall’altro il popolo, pian piano fecero sì che la comunicazione, scritta e orale, si uniformasse ad un unico registro linguistico, comprensibile da tutti, dalle Alpi alla Sicilia.
E Alessandro Manzoni?
Manzoni compì soltanto un’operazione volta a purificare, dal suo punto di vista, l’italiano che si parlava nella prima metà dell’Ottocento. Lo scrittore milanese non elevò alcunché a lingua nazionale, raffinò soltanto quella parlata correntemente. Poi, si inventò la storiella di essere andato a sciacquare i panni in Arno, cioè, metaforicamente, di aver purificato la lingua italiana, facendola tornare alle origini, quelle fiorentine, per i motivi legati alle opere famose prodotte in fiorentino, di cui ho scritto sopra (anche la lingua, come i territori che, poi, sarebbero diventati Regno d’Italia, è stata sottoposta alle numerosissime dominazioni straniere, che hanno inevitabilmente lasciato tracce della loro lingua nell’italiano. Per questo Manzoni volle purificarla).
A proposito della nostra lingua napoletana?
Per quanto riguarda il napoletano, esso è una vera e propria lingua, oggi riconosciuta anche dall’UNESCO, che ha la stessa origine dell’italiano (dal latino) e che, come l’italiano, viene definito “idioma romanzo” (le mie pagine ti saranno d’aiuto a comprendere. Quando le leggerai, puoi riferire al napoletano tutte le caratteristiche e gli sconvolgimenti di cui io parlo a proposito dell’italiano). Quindi, tra italiano e napoletano, nessuna lingua è precedente all’altra. Sono, in definitiva, due varianti del latino che si parlavano in zone geograficamente contigue e, dunque, simili tra loro. Per quanto riguarda il glorioso Regno delle Due Sicilie, la lingua ufficiale, o, meglio, le lingue ufficiali, erano il napoletano, parlato a nord dello stretto di Messina, e il siciliano, che si parlava al di là dello stretto (il siciliano ha caratteristiche “storiche” simili al napoletano ed è anch’esso una lingua).
È noto, pressoché unanimemente, che, nell’ambito delle azioni umane, così come, per dirla con George Hegel, negli atti degli spiriti dei popoli, si tenda a ricordare e a rimarcare quanto fatto di negativo rispetto alla strabordante quantità di positività, pure da riscontrare. E, allora, giù ad accusare, ad esempio, il filosofo Gottfried Leinbiz, di aver copiato da Isaac Newton le basi per il calcolo infinitesimale, quasi ciò fosse più importante del sistema filosofico che il primo consegnò all’umanità, o, ancora, i francesi di codardia e connivenza col nazismo, all’epoca del Regime di Vichy, quasi dimentichi di quanto fatto per la storia del pensiero universale, dalla lirica dei trovatori alle dottrine dei philosophes illuministi. Ecco, quindi, che giungo al punto, suggerito dall’argomento di questo numero della rivista: gli emigranti italiani. Bene, in qualunque paese del mondo essi abbiano messo piede, dagli Stati Uniti d’America all’Argentina, dal Canada all’Australia, hanno sempre lavorato sodo, veramente sodo, in condizioni, perlopiù, ai limiti dell’umana sopportazione, dovendo subire, sin all’arrivo, discriminazioni di varia natura, che avrebbero fatto impallidire quanti oggi giungono, in Italia, da immigrati. I nostri connazionali dei tempi passati, col proprio sudore e con le proprie rimesse economiche, contribuirono, non soltanto al miglioramento delle loro condizioni e di quelle delle loro famiglie, ma anche di quelle della nazione stessa. E, allora? Cos’è, ancora oggi, universalmente noto e tramandato dell’emigrazione italiana? La mafia. Ecco, tutto si riduce a una minima parte di italiani, che vollero disonestamente caratterizzare la loro permanenza in paesi esteri, specialmente gli Stati Uniti. Nel nostro tempo presente, in Italia, vi sono molti cittadini, i quali, per dare adito al proprio filantropismo da salotto o da PC e convincere gli altri delle loro idee, cioè flatus vocis, chiamano in causa quella subdola equazione secondo la quale noi tutti abbiamo l’obbligo morale di subire che immigrati stranieri, presenti nel nostro paese, delinquano, soltanto perché, 100 anni fa, alcuni nostri connazionali, da emigranti, fecero lo stesso nelle che li ospitavano. Questo è un atteggiamento da idioti, esiziale per il futuro della nostra nazione!
Gli inglesi, per quel che concerne la storia del pensiero, si sono distinti dagli altri popoli europei, antichi e moderni, a causa di quella impronta, ad essi del tutto peculiare, tendenzialmente antimetafisica ed essenzialmente pragmatica. A scorrere rapidamente quella storia, infatti, ciò può essere facilmente notato: quando il Medioevo volgeva ormai al termine, mentre nelle scuole del resto d’Europa i dotti erano ancora impelagati nelle dispute scolastiche sulle prove dell’esistenza di Dio, sugli universali, sulla Trinità e sui quodlibeta, Roger Bacon (immaginea sinistra), filosofo, scienziato e mago, il Doctor mirabilis (Dottore dei miracoli), fondava la gnoseologia empirica, secondo la quale l’esperienza sia il vero e unico mezzo per acquisire conoscenza del mondo. Tre erano, secondo il filosofo, i modi con cui l’uomo potesse comprendere la verità: con la conoscenza interna, data da Dio tramite l’illuminazione; con la ragione, la quale, però, non è bastevole, e, infine, con l’esperienza sensibile, ovvero tramite i cinque sensi, il non pus ultra di cui esso possa disporre e che gli consente di avvicinarsi alla reale conoscenza delle cose. Il frate francescano William of Ockham, il Doctor invincibilis (Dottore invincibile), con il suo famosissimo rasoio, semplificò al massimo la spiegazione dei fenomeni, mostrando l’inutilità di moltiplicare le cause e di introdurre enti al di là della fisica: “Frustra fit per plura, quod fieri potest per pauciora” (è inutile fare con più, ciò che si può fare con meno). Francis Bacon (immagine a destra), il filosofo dell’adagio “Sapere è potere”, padre della rivoluzione scientifica e del metodo scientifico nell’osservazione e nello studio dei fenomeni attraverso l’induzione, meglio definita e rinnovata rispetto a quella aristotelica, fu avversatore dei pregiudizi, da lui chiamati idola (idoli o immagini), che impedivano la reale conoscenza e intelligenza della natura, e fu ispiratore di un’altra grande mente inglese, Isaac Newton, lo scienziato-osservatore empirico per eccellenza. Thomas Hobbes diede spiegazione a tutti gli aspetti della realtà col suo materialismo meccanicistico, annullando la res cogitans (sostanza pensante) di Cartesio e il suo ambiguo rapporto con la res extensa (sostanza materiale), retroterra sul quale basò la sua concezione della natura umana, della condizione di guerra di tutti contro tutti (l’homo homini lupus), del patto di unione e del patto di società, dai quali sarebbero poi nati, rispettivamente, la civiltà e, attraverso la rinuncia da parte di ogni uomo al suo diritto su tutto e la cessione di questo al sovrano, lo Stato, il Leviatano. John Locke (immaginea sinistra), l’empirista, l’autore di An essay concerning human understanding (Saggio sull’intelletto umano), sosteneva che tutta la conoscenza umana derivasse dai sensi. Indagò le idee e i processi conoscitivi della mente, criticando l’innatismo cartesiano e leibniziano, e, tra l’altro, fu strenuo propugnatore del liberalismo politico e della tolleranza religiosa. David Hume, l’estremo dell’empirismo inglese, asseriva, come Locke, che la conoscenza non fosse innata, ma scaturisse dall’esperienza. Egli negò sia la sostanza materiale che quella spirituale, tutto riducendo a sensazione e stato di coscienza. Demolì il concetto di causa, ritenendolo mero costume della mente, suscitato dall’abitudine, e postulò, quali conoscenze universali e necessarie, soltanto quelle della geometria, dell’algebra e dell’aritmetica. Adam Smith (immaginea destra), filosofo ed economista, teorizzò l’idea che la concorrenza tra vari produttori e consumatori avrebbe generato la migliore distribuzione possibile di beni e servizi, poiché avrebbe incoraggiato gli individui a specializzarsi e migliorare il loro capitale, in modo da produrre più valore con lo stesso lavoro. E, infine, l’Utilitarismo di Jeremy Bentham e John Stuart Mill prima, con tutte le implicazioni morali (o moralmente inglesi), legate ai concetti di “utile” e di “felicità“, e quello di Henry Sidgwick (immagine a sinistra), poi, col suo edonismo etico, mediante il quale aggiunse importanti precisazioni ai concetti dell’utilitarismo classico. Queste riflessioni filosofiche hanno certo corrispettivo pratico allorquando si osservano attentamente tutte le sfaccettature dell’English way of life e dei princìpi che, ancora oggi, lo animano. Il motivo per cui gli inglesi, fino a circa settant’anni fa, hanno realmente dominato il mondo (basti pensare al British Empire e al Commonwealth), ha le proprie basi nel pragmatismo che, dal 1200 in poi, ha caratterizzato le sue classi intellettuali e, di riflesso, quelle deputate all’azione. Un popolo non condizionato dalla religione, come lo sono stati, dal Medioevo alle soglie dell’età contemporanea, la maggior parte dei Paesi cattolici europei, libero di sottomettere altre genti, che non ha combattuto in nome di Dio ma degli uomini, era destinato ad avere il ruolo che ha avuto e che ancora ha. Del resto, negli stessi anni in cui un bardo venuto dalle Midlands incantava gli spettatori del Globe Theatre a Londra, mettendo in scena l’amore tra Romeo e Giulietta, la filosofia dell’essere e del non essere e la gelosia di Otello, la regina Elisabetta I nominava baronetto il più astuto e lesto pirata della storia: sir Francis Drake!
LA LIBRERIA INDIPENDENTE DI SORRENTO OMAGGIA DANTE ALIGHIERI, NEL 695° ANNIVERSARIO DELLA MORTE, CON LA “LECTURA DANTIS: INFERNO. I PERSONAGGI”, REALIZZATA DA RICCARDO PIRODDI
In occasione del 695° anniversario della morte di Dante Alighieri (14 settembre 1321 – 14 settembre 2016), la Libreria Indipendente di Sorrento rende omaggio al sommo poeta con la videoproiezione della “Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi”, realizzata da Riccardo Piroddi, pubblicista, blogger e autore, nel 2011, del saggio dal titolo, “Storia (non troppo seria) della Letteratura Italiana”, Edizioni Albatros. L’evento culturale si terrà sabato 17 settembre 2016, alle ore 20.00, presso i locali della libreria, in Corso Italia, 258/c, a Sorrento. “Sin dai decenni immediatamente successivi alla morte di Dante – ha dichiarato Piroddi – cominciarono a tenersi pubbliche letture dei suoi versi, sovente accompagnate da interventi analitici di commentatori. Tra i primi, Giovanni Boccaccio, nel 1373, a Firenze. La grandezza e l’immutato fascino dell’opera di Dante si aprono, oggi, alla tecnologia, pur nella secolare tradizione della lectura espressiva e della lectura esegetica. Questo è lo spirito che anima la mia realizzazione. Immagini, musiche, effetti sonori e gli stessi versi danteschi, magistralmente interpretati dalla potente voce recitante di Giulio Iaccarino, danno vita ad alcuni tra i più celebri personaggi dell’Inferno, prima cantica del Divino Poema (Paolo e Francesca, Farinata degli Uberti, Pier delle Vigne, Ugolino della Gherardesca e altri), le cui vicende storiche e poetiche saranno oggetto di mie riflessioni nel corso della serata”.