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Il ruolo del Mediterraneo nella geopolitica e nella geostrategia

 

Parte IV

 

Il Mediterraneo e la geopolitica dell’energia

 
 

A nessuno può sfuggire come le fonti di energia e la sicurezza degli approvvigionamenti energetici rappresentino una questione geopolitica e geostrategica di primaria importanza. Fondamentali risultano la distribuzione geografica delle principali risorse energetiche ed il controllo sulle stesse, dal momento che i principali giacimenti, sia di petrolio che di gas naturale, si trovano in massima parte, nel Medio Oriente e in Russia, la quale utilizza, sempre più, l’arma energetica per incidere sugli equilibri internazionali e per tentare di recuperare un ruolo di grande potenza, perduto con la fine dell’URSS, anche facendo ricorso ad accordi bilaterali con i paesi del Maghreb (Accordo Algeria-Gazprom). Tutti i dati, che seguono, confermano che la questione energetica è il cuore della geopolitica e della geostrategia del “Mediterraneo allargato”: le riserve energetiche, presenti nel Golfo Persico, in Asia Centrale, nel Mar Caspio e in Nord Africa, rappresentano il 70% delle riserve mondiali di petrolio e il 35% di quelle di gas; il traffico di greggio e di gas (navi e pipelines), nel Mediterraneo, è superiore a quello di qualsiasi altra area o bacino, a livello mondiale; le risorse finanziarie, ricavate da queste merci, costituiscono la principale ricchezza degli Stati del Medio Grande Oriente; la dipendenza energetica dei paesi industrializzati condiziona direttamente le politiche mediterranee di Stati Uniti e dei paesi europei. Il “Mediterraneo” allargato si conferma, quindi, uno dei teatri più importanti della geopolitica dell’energia, come già accadde negli anni ‘50-’60, sia per l’entità degli scambi di petrolio e gas naturale, sia per le previsioni di fabbisogno energetico futuro e sia, infine, per i progetti di nuove infrastrutture energetiche. Petrolio e gas naturale rappresentano le merci più scambiate nel “Mediterraneo allargato”, in quanto i paesi della sponda nord (Francia, Italia, Spagna, Portogallo e Grecia), membri dell’UE, si approvvigionano di petrolio e gas naturale presso i quattro paesi della sponda sud (Algeria, Libia, Egitto e Siria), incidendo, per il 27% del greggio e per il 32% di gas naturale, sulle importazioni dell’Unione Europea. Il fatto che queste siano le uniche merci scambiate, in grandissima quantità, tra le due sponde del Mediterraneo allargato, ne accresce l’importanza geostrategica. Senza dimenticare che, per il “Mediterraneo allargato”, transita il 25% del commercio mondiale del petrolio. Ed è un ruolo destinato a crescere ancora, nel prossimo ventennio, a causa dello sviluppo economico e della crescita demografica, che farà lievitare la domanda di energia di tutta la regione, dove 16 milioni di persone ancora non beneficiano di elettricità. Basti considerare lo sviluppo tumultuoso della Turchia, che si appresta a diventare uno dei maggiori consumatori di energia nel Mediterraneo, mentre l’Italia rimane il maggior consumatore di gas dell’area. La Turchia diventerà anche l’architrave del futuro equilibrio energetico del Mediterraneo, essendo, per collocazione naturale, un “corridoio energetico” tra il “Mediterraneo allargato” e i paesi caucasici, affacciati sul Mar Caspio, come regione esterna. In tal modo, la Turchia, ricevendo gas naturale, contemporaneamente, dalla Russia, dal Mar Caspio, dall’Iran, dall’Iraq e dall’Egitto, gestirà l’intero fabbisogno del bacino mediterraneo. Ciascun paese, quindi, deve affrontare il problema della sicurezza energetica con il criterio della diversificazione delle fonti e una serie di opzioni strategiche, come la costituzione, ad esempio, di riserve strategiche, precedentemente accumulate, sempre che l’interruzione delle forniture sia temporaneo e non indeterminata, a causa di motivazioni politiche (il recente caso Libia è esemplare). Se i paesi importatori attenuano i rischi, con la diversificazione delle fonti e dei fornitori, i paesi esportatori, come la Russia di Putin, tendono a diversificare i mercati, spesso per una politica di potenza. È noto che una minaccia per la sicurezza energetica dell’UE, il cosiddetto “accerchiamento energetico”, viene proprio dalla strategia putiniana di ricostituzione della grande potenza eurasiatica, che colleziona continui successi, alimentati dalla continuità del potere, confermato anche dal successo nelle recenti elezioni presidenziali. Sia che l’UE riesca a garantire una politica comune in materia di energia, nel rapporto con i paesi produttori, in quanto le enormi sfide geopolitiche in materia di energia non possono essere affrontate in ordine sparso, sia che ciascun paese dell’Unione proceda, da solo, per accordi bilaterali, il “Mediterraneo allargato” si conferma lo scacchiere principale, sul quale si deciderà, nel prossimo futuro, la sicurezza energetica mondiale.

 

Il ruolo del Mediterraneo nella geopolitica e nella geostrategia

 

Parte III

I diversi fattori di differenziazione nel “Mediterraneo allargato”

 

 

Per poter procedere ad un’analisi più articolata dei diversi fattori di differenziazione nel “Mediterraneo allargato”, che lo rendono un significativo laboratorio geopolitico e geostrategico, bisogna descrivere, preliminarmente, l’area, che comprende non solo il bacino del Mediterraneo, ma anche i bacini del Mar Nero e del Mar Rosso. Questi tre bacini rappresentano una vasta area che risulta essere, nel contempo, una faglia ed una cerniera, entro la quale insistono e si confrontano realtà profondamente distinte. Tale area può essere rappresentata geograficamente come un’ellisse, suddivisibile in due settori principali, Nord e Sud, e in quadranti a loro volta facenti parte di differenti regioni geopolitiche. Questa ideale linea di confine tra i due settori Nord-Sud parte da Gibilterra e arriva al Canale di Suez, mediante Malta, il canale di Sicilia e Creta, e separa, come una frontiera, mondi che risultano tra loro storicamente inconciliabili, sul piano culturale e religioso (Cristianesimo e Islam), sul piano etnico (neo-latini, slavi, arabi e turchi) e sul piano politico-istituzionale (democrazia ed autoritarismo). Quasi una barriera, che appare insormontabile! Il Mediterraneo, inoltre, costituisce un’immensa “pianura liquida”, contraddistinta da cinque grandi masse peninsulari che insistono su questa pianura acquea: Maghreb, Spagna, Italia, Balcani e Turchia. Seguendo la prima impostazione, più congeniale all’economia di questo breve studio, va precisato che, all’interno dei due settori Nord-Sud, si evidenziano differenti regioni geopolitiche, così articolate. 1) Nella dimensione Nord: a) il Mediterraneo nord-occidentale (Spagna, Francia e Italia); b) il Mediterraneo nord-orientale (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia-Montenegro, Albania, Grecia, Bulgaria, Romania e Turchia); c) l’area sud-occidentale della regione eurasiatica (Ucraina, parte della Federazione Russa, Georgia, Armenia, Azerbaijan, Repubbliche dell’Asia Centrale e Afghanistan). 2) Nella dimensione Sud (Grande Medio Oriente): a) il Mediterraneo nordafricano (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia e Egitto); b) il Corno d’Africa (Sudan, Eritrea, Etiopia e Somalia); c) l’area mediorientale (Israele, Autorità Nazionale Palestinese, Libano, Siria, Giordania, Iraq, Iran e Stati della Penisola Araba). Agli elementi di instabilità e di contrasto, che hanno, da sempre, caratterizzato i settori Nord e Sud del “Mediterraneo allargato”, si può affermare che, nell’ultimo decennio, questi elementi si siano attenuati o abbiano subito una crescita esponenziale? La domanda (retorica) trova una prima e immediata risposta nella valutazione degli effetti della globalizzazione, che, restringendo il fattore spazio-temporale ed espandendo quello transnazionale, hanno determinato la moltiplicazione delle tensioni tra le diverse regioni geopolitiche, tra gli Stati e all’interno degli Stati, alimentando numerosi focolai di violenza e di crisi. Su questo scenario, in continuo movimento, si possono individuare alcune principali questioni, che hanno un’incidenza, diretta e indiretta, sulla stabilità geopolitica e geostrategica del “Mediterraneo allargato”.

 

 

 

 

Il ruolo del Mediterraneo nella geopolitica e nella geostrategia

Parte II

 

L’evoluzione geopolitica e geostrategica: dal secondo dopoguerra ad oggi

 

Sotto il profilo strettamente geopolitico e geostrategico, il “Mediterraneo allargato”, felice definizione creata dallo Stato Maggiore dell’Esercito italiano, che include non solo la geografia fisica, ma anche quella umana, ha subito una profonda evoluzione, dal secondo dopoguerra ad oggi. Agli inizi, il Mediterraneo registrò una prevalente presenza aereonavale della NATO, senza alcuna ingerenza sovietica (Accordi di Yalta), per cui l’Alleanza Atlantica e le grandi potenze occidentali (USA, Gran Bretagna e Francia) esercitarono un controllo su tutti i paesi nord-africani e medio-orientali, con relativa stabilità dell’area, che risultò indenne dal confronto diretto Est-Ovest (guerra fredda), baricentrato nel cuore nell’Europa continentale. Questa relativa stabilità non durò molto e cominciò ad andare in crisi, non appena la Russia sovietica inaugurò una politica di potenza, che spostò la “confrontation” dal centro Europa verso nuove obiettivi, come lo sbocco sul mare aperto e, quindi, il libero accesso al Mediterraneo e all’Oceano Indiano, attraverso il ricorso all’insediamento di basi sovietiche nei paesi politicamente vicini all’URSS (India, Etiopia, Algeria e Siria). Questa politica di potenza, insieme con i processi di decolonizzazione, con l’emergere del conflitto arabo-israeliano e con la progressiva instabilità degli assetti geo-politici locali, trasformò rapidamente anche il Mediterraneo nella nuova area della competizione bipolare Est-Ovest. Ulteriori cause di instabilità derivarono anche dalle caratteristiche dei nuovi soggetti statuali, che vennero a formarsi nella regione mediterranea: la modernizzazione non omogenea delle comunità; il carattere oligarchico dei gruppi dirigenti; gli apparati partitici-statuali, come esclusivi centri di potere; la politicizzazione, come identità nazionale, della lingua e della religione e, non da ultimo, l’incapacità di includere tutte le espressioni politiche, religiose, sociali e culturali, presenti sul territorio. Le conseguenze furono (e sono ancora) inevitabili: nazionalismi, radicalismi e fondamentalismi dei gruppi etnico-religiosi minoritari, esclusi dalla gestione del potere; urbanizzazione accelerata ed esplosione demografia; disoccupazione e fuga dalle campagne per il fallimento delle politiche agricole e la scelta di politiche industriali. In poche parole, una serie di focolai di tensioni e di conflitti endogeni, nel quali si inserì la contrapposizione Est-Ovest. Con la caduta successiva del regime sovietico e la fine della contrapposizione bipolare Est-Ovest, invece di ricomporsi, la instabilità si è ulteriormente accentuata con l’acutizzarsi delle spinte etnico-religiose, accompagnata dalla crisi di transizione alle economie di mercato, con nuovi focolai di tensione che hanno travolto alcune sub-regioni. Un esempio per tutte: l’ex-Jugoslavia e il Caucaso. Il provvidenziale intervento politico, economico-finanziario e militare dell’Occidente (la NATO) ha evitato l’estendersi di questi focolai, che avrebbero portato, altrimenti, alla destabilizzazione dell’intera area. La fine del confronto Est-Ovest, tuttavia, non ha impedito, specie nel Corno d’Africa, che, con la fine degli aiuti politici, economici e militari, forniti dai due contendenti, si disgregassero gli apparati statuali, con conseguenti guerre civili (Etiopia e Somalia) e conflitti armati (Etiopia ed Eritrea). Nel Grande Medio Oriente, poi, la caduta delle ideologie politiche e dei socialismi arabi ha aperto la strada alla formazione di movimenti di contestazione, di matrice religiosa. Per cui, l’islamismo, utilizzato, in origine, come mastice dell’identità nazionale nelle guerre di liberazione dalle potenze coloniali, è diventato un’ideologia autonoma, ad appannaggio delle masse musulmane scontente, contestatrici dei regimi mediorientali al potere, tutti autoritari, autoreferenziali e repressivi di ogni manifestazione di libertà. Dalle lotte interne alle oligarchie al potere, personalistiche e familiari, man mano, quindi, l’islamismo è diventato un’ideologia politica identitaria, a carattere transnazionale, in funzione anti-occidentale, con collegamenti, anche operativi, con le minoranze immigrate nei paesi occidentali. Su questo “humus”, ha cercato di radicarsi il terrorismo islamico di matrice religiosa. In poche parole, la fusione tra islamismo e anti-occidentalismo, identificato con l’obiettivo della distruzione di Israele, è diventato un fattore destabilizzante che ha travagliato (e travaglia) tutti i processi di transizione, seguiti alla caduta del comunismo, nei Balcani (Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia e Albania), nel Caucaso (Cecenia e Daghestan) e nell’Asia centrale (Afghanistan e Tagikistan). La stessa instabilità ha caratterizzato (e caratterizza) gli assetti interni degli Stati mediorientali, che spesso, a loro volta, hanno intrapreso politiche di potenza con il ricorso ad apparati militari competitivi, dando origine ad alleanze strumentali e a contro-alleanze, per il controllo di risorse naturali o per pretestuose contestazioni sui confini territoriali, spesso ammantate da contrasti ideologico-religiosi. La fine del confronto tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica non ha contenuto lo sviluppo competitivo di strumenti militari, con pericolosi accessi, in alcuni casi, ad armi non convenzionali, per cui risultano accresciuti la dimensione e l’impatto politico-strategico dell’instabilità mediorientale. Molti Stati anti-occidentali, non potendo più beneficiare di armamenti a basso prezzo, forniti in precedenza dall’URSS, e che la Federazione Russa, diventata una potenza regionale alle prese con notevoli difficoltà interne, economiche e sociali, non ha potuto più onorare, hanno cominciato una corsa per acquisire armi di distruzioni di massa, come unica strada per garantirsi un equilibrio nei confronti degli Stati filo-occidentali. In questo quadro, anche per l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa globali, sono cresciute le aspirazioni individuali e le aspettative sociali, che hanno portato alla fine dei regimi personali, in Tunisia e in Egitto, la “primavera araba”, sulla quale si tornerà di seguito, mentre la caduta del regime di Gheddafi ha avuto cause più complesse. Da quanto sopra, si evince come, dal secondo dopoguerra ad oggi, il Mediterraneo ha mantenuto ed accresciuto il suo ruolo geopolitico e geostrategico, il quale, oggi e in futuro, si pone, sempre più, come un laboratorio non secondario, delle linee di confronto, su scala globale, tra le diverse potenze continentali e i cosiddetti paesi emergenti.

 

 

Il ruolo del Mediterraneo nella geopolitica e nella geostrategia

 

Parte I

 

Che cos’è il Mediterraneo? Un insieme

 

Per tentare di definire la presente e futura vocazione geopolitica e geostrategica del Mediterraneo e il suo complesso ruolo bisogna, preliminarmente, rispondere alla domanda: che cos’è il Mediterraneo? Diventa quasi obbligato, nel dare la risposta, partire dalle stesse parole del grande studioso francese, Fernand Braudel, uno dei massimi storici europei del XX secolo (F. Braudel, Il Mediterraneo, Bompiani, Milano 1987, p. 12): “Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà, accatastate l’una sulle altre. Viaggiare nel Mediterraneo è trovare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco in Jugoslavia…”. Da questa suggestiva premessa, si coglie immediatamente la difficoltà di individuare una cultura mediterranea, cioè un’unica identità mediterranea, per cui il Mediterraneo, in tutta la sua storia, dalle origini fino ad oggi, è stato e rimane un coacervo di culture, un “crocevia” di realtà politiche diverse, talvolta radicalmente opposte e potenzialmente conflittuali, raccordate fisicamente soltanto dal mare. Il mare rappresenta l’unico elemento di continuità tra tante diversità, che, nel momento in cui fu soppiantato da un altro mare (Oceano Atlantico), si identificò con il vecchio e con l’antico, rispetto al “nuovo”, simbolo dei moderni Stati continentali. Questa identificazione si è accentuata con il processo di globalizzazione planetaria, nel quale la competizione si svolge sul controllo delle rotte commerciali, che collegano le diverse dimensioni economiche e politiche, secondo linee di divisione, di conflitto e di contrapposizioni. Come mai, allora, il Mediterraneo, pur identificato con il vecchio e con l’antico, mantiene, quando addirittura non vede accresciuto, il suo ruolo geopolitico e geostrategico? Il Mediterraneo allargato registra, oggi, su scala regionale, le stesse linee di divisione, di conflitto e di contrapposizioni, molto fluide, che caratterizzano lo spazio globale. Basterebbe citare soltanto le emigrazioni di massa dai paesi poveri, i fondamentalismi etnico-religiosi e gli effetti destabilizzanti della globalizzazione sui sistemi economici. Individuare un ruolo geopolitico e geostrategico del Mediterraneo per la soluzione dei conflitti, riscoprire quella funzione di mediazione (medium-terrarum) tra terre diverse, contenuta anche nell’etimo, potrebbe contribuire anche agli equilibri dello spazio globale, in continuo mutamento. Un luogo di mediazione politica ed antropologica, di dimensione regionale, potrebbe costituire una risorsa per la dimensione globale. Una governance mediterranea, laboratorio di una futura governance mondiale? La regione (o, meglio, le regioni) del Mediterraneo può svolgere, in futuro, un ruolo di mediazione fondamentale, tra il locale e il globale, tra l’epoca del mare e quella dell’aria: sulle sue acque navigano i grandi cargo asiatici, come i gommoni degli emigranti. Il Mediterraneo, quindi, appare il paradigma dei rapporti tra il Nord e il Sud del mondo e delle line di congiunzione tra le terre, che vanno dall’Est all’Ovest. Da qui discende, la sua rinnovata importanza geopolitica e geostrategica.

 

 

Giovanni Pico della Mirandola e la sua memoria prodigiosa

 

Giovanni Pico nacque a Mirandola, in provincia di Modena, il 24 febbraio 1463, dal conte Giovan Francesco I e da Giulia Boiardo, zia di Matteo Maria Boiardo, insigne letterato e poeta quattrocentesco. Pico fu un vero prodigio della natura: passò la sua breve vita, morì a soli 31 anni, a studiare e raccogliere libri di ogni specie. Parlava latino, greco, ebraico e arabo. Conosceva la filosofia platonica e aristotelica a menadito, forse meglio degli stessi Platone e Aristotele. Fu studioso rigoroso della cabala ebraica che, grazie a lui, fu introdotta in Europa. Aveva una memoria portentosa, si diceva che conoscesse a memoria tutta la “Divina Commedia” di Dante (circa 4000 versi) e che, una volta terminata, riuscisse a recitarla al contrario, dall’ultima parola alla prima, utilizzando degli stratagemmi e delle tecniche, rivelati in alcuni suoi scritti. Già durante la sua esistenza, quindi, fu considerato un personaggio mitico. Per quanto riguarda il pensiero, Pico, come Marsilio Ficino, tentò avvicinare tutte le filosofie del mondo, attraverso alcune verità generali, in modo che i dotti si potessero mettere d’accordo all’insegna della pace e del sapere universale (servirebbe oggi un uomo del genere!) Per questo, cercò di organizzare, a Roma, una sorta di congresso, al quale avrebbero dovuto partecipare autorità, luminari, professori e scienziati del mondo allora conosciuto, per discutere novecento tesi che lui aveva elaborato, “proposizioni dialettiche, morali, fisiche matematiche, teologiche, magiche, cabalistiche, sia proprie che dei sapienti caldei, arabi, ebrei, greci, egizi e latini”. Allo scopo, scrisse, nel 1486, l’“Oratio hominis dignitate” (Orazione sulla dignità dell’uomo), un’introduzione all’incontro. Papa Innocenzo VIII, però, non solo si oppose alla cosa, ma lo costrinse a fuggire in Francia, dove fu arrestato e rilasciato dopo un mese, grazie all’intervento di Lorenzo de’ Medici. Rientrato a Firenze, se la prese con gli umanisti della sua compagnia, perché questi gli ripetevano che la filosofia, da lui tanto amata, fosse linguisticamente barbara. Rispondeva: “Ragazzi, il linguaggio è come la gonna di una donna, serve soltanto a vestire i concetti. L’importante è quello che c’è sotto!” (Questo esempio, ovviamente, è mio. Il sommo letterato si espresse in tutt’altro modo!”). Il 17 febbraio 1494, dopo due settimane di febbre strana, Pico morì. Si pensò ad un avvelenamento, da parte del suo segretario, ma niente fu mai provato. Sulla lapide della tomba fu inciso l’epitaffio degno di un re: “Joannes iacet hic Mirandola. Cetera norunt et Tagus et Ganges forsan et Antipodes”, ovvero, “Qui giace Giovanni di Mirandola. Il resto lo sanno sia il fiume Tago, sia il Gange e forse anche gli Antipodi!”. Un personaggio davvero unico e ancora troppo poco conosciuto!

 

Pubblicato l’1 febbraio 2017 su La Lumaca

 

Francesco d’Assisi: santo e letterato

 

 

Francesco di Pietro Bernardone dei Moriconi, l’uomo del secolo, anzi, del millennio, eletto non dal magazine americano Time, ma da tutti i cattolici del mondo, si sarebbe dovuto chiamare Giovanni. Questo il nome che gli aveva dato la madre, Pica Bourlemont, quando lo aveva portato a battezzare. Suo marito Pietro, però, di ritorno dalla Francia, dove si recava periodicamente per affari, era stato irremovibile: “Diletta moglie, pecunia non olet! Li danari non puzzano. Chiamerollo Francesco, dacché commerciamo grande co’ i franceschi! (così, gli italiani del Medioevo chiamavano i francesi). Pica dovette sottostare. Poco più che adolescente, Francesco fu avviato dal padre al commercio nella boutique di famiglia. Ne fu contento perché guadagnava bene e poteva spassarsela un sacco con gli amici. Bevute, fanciulle (rigorosamente maggiorenni!), divertimento sfrenato, non si faceva mancare proprio niente, fino a quando accadde qualcosa che gli cambiò la vita. Cosa, esattamente, bisognerebbe chiederlo a lui o a Dio! Nel 1202, scoppiò la guerra tra Perugia e Assisi. Il nostro baldo giovane, come tutti i rampolli di buona famiglia, andò a combattere. Nella battaglia di Collestrada il suo esercito le prese di santa ragione dai perugini e lui cadde prigioniero. Fu liberato dopo un anno, solo perché si era ammalato e dietro pagamento di un ingente riscatto. Tornato a casa, dimenticò gli amici e i loro stravizi e, per rimettersi prima possibile, si chiuse in camera, trascorrendo le giornate in completa solitudine. Proprio allora, cominciò a pensare che, forse, sarebbe stato meglio fare una inversione a U e percorrere altre strade nella sua esistenza. Da quel momento, a detta di chi lo conosceva (io non mi permetterei neppure di pensarlo!), principiò a manifestare segni di squilibrio mentale: raccolse le stoffe più preziose dal negozio paterno, le vendette e diede tutto ai poveri; lo stesso fece col suo bel cavallo, consegnando il ricavato al parroco; spesso parlava con i crocifissi nelle chiese; fu mandato, per affari, dal padre, a Roma, provvisto di un gruzzolo di monete, che, allegramente, distribuì ai bisognosi e, non ancora pago, scambiò i suoi vestiti con quelli di un mendicante, sedendosi, poi, accanto al portone principale della chiesa di San Pietro (l’imponente basilica che possiamo ammirare oggi non era stata ancora costruita!), a chiedere la carità. Il babbo, disperato, si vide costretto di denunciarlo alla pubblica autorità per rovina del patrimonio familiare, sperando, così, che la smettesse con quella sfrenata beneficenza e tornasse ad essere normale. Niente da fare. Il processo a Francesco si svolse nella piazza principale, ad Assisi. C’erano proprio tutti: il sindaco, i consiglieri comunali, il vescovo, il capo delle guardie, gli amici, le sue donne affrante. Pietro strillava che voleva giustizia e il rinsavimento del suo erede ma il figlio, appena il genitore smise di sbraitare, si tolse tutti i vestiti, glieli restituì, rimanendo come lo aveva fatto la mamma, cioè nudo, e gli disse: “Fino a oggi ho chiamato voi papà. Da questo istante, cambio genitore e mi affido al Padre che è in Cielo!”.Il povero Pietro dovette rassegnarsi. Francesco, così, cominciò il tour nella provincia di Perugia, confortando oppressi, curando lebbrosi, ammaestrando lupi, ricostruendo chiese, parlando a uccelli e augurando a tutti “pace e bene”. Tornò ad Assisi e, insieme con gli uomini che in quegli anni si erano uniti a lui, fondò un ordine di frati, chiamato Ordo fratrum Minorum (ordine dei frati minori), la cui regola fu approvata da papa Innocenzo III, nel 1210. Una sua cara amica, Chiara, anch’ella, poi, santa, gli chiese aiuto per organizzare un ordine femminile sul modello di quello suo: nacquero le Clarisse. Qualche anno avanti la morte, allestì il primo presepe vivente della storia, a Greccio, e, nel 1225, ricevette le stigmate sul Monte della Verna. Polverizzando ogni record precedente e seguente, soltanto due anni dopo aver raggiunto la casa del Padre, fu proclamato santo da papa Gregorio IX. Alla cerimonia parteciparono la madre Pica, il fratello Angelo, cardinali, vescovi e una folla interminabile. Durante la vita, Francesco scrisse poche cose, tutte in latino: la Regula non bullata cioè non approvata, la Regula bullata, le Admonitiones, consigli per un comportamento da buon cristiano, e il Testamentum, redatto qualche mese prima di morire, nel quale invitò i suoi frati a non aggiungere spiegazioni ridondanti alla regola dell’ordine ma ad osservarla semplicemente, come lui l’aveva scritta. Il motivo per cui lo troviamo anche nella storia della Letteratura Italiana, addirittura tra gli iniziatori, è il Cantico delle Creature o Laudes Creaturarum, scritto in volgare umbro, dopo una notte di fortissime sofferenze fisiche e dolori, nella cella invasa dai topi. In quest’inno Francesco loda la potenza e la grandezza di Dio, attraverso le sue opere meglio riuscite: le creature, il sole, la luna, le stelle, il vento, l’acqua, il fuoco e la madre Terra. Glorifica Dio per quegli uomini che sanno perdonare per amor suo, che sopportano tormenti e afflizioni. Un pensiero va anche alla morte, che arriva per tutti e distingue i buoni dai cattivi:

Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: […]
 
Laudato si’, mi Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fior et herba. […]
 
Laudato si’ mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.

Una nota: avendo avuto come padrino un sant’uomo del genere, poteva la nostra Letteratura Italiana essere inferiore alle altre? Certo che no!

 

 

Lo stato di natura in Hobbes, Locke e Rousseau

 

 

I tre grandi teorici dello stato di natura, una congetturata condizione in cui gli uomini non sarebbero stati ancora associati tra loro da un sistema governativo e dalle leggi ad esso connesse, sono stati Thomas Hobbes (1588-1679), John Locke (1632-1704) e Jean Jacques Rousseau (1712-1778).
Thomas Hobbes (immagine a sinistra) espose nel Leviatano (1651) la sua teoria sullo stato di natura. Secondo il filosofo inglese, il diritto ha origine naturale per ogni essere vivente. Nello stato di natura gli uomini posseggono i medesimi diritti su qualsiasi cosa, combattendo, così, una guerra che li vede gli uni contro gli altri. Homo homini lupus. L’uomo è un lupo divoratore di altri uomini. Ma esso ha, comunque, interesse a che questa guerra cessi, altrimenti sarebbe costretto a trascorrere l’intera vita a combattere, non potendo godere di quei beni per i quali, invece, è costretto a lottare. Ecco che, allora, gli uomini formarono le società, stipulando un contratto sociale, che Hobbes chiamò “Patto”, con cui limitavano la propria libertà, accettando regole che sarebbero state fatte rispettare dal Leviatano, il capo dello Stato. Queste le parole di Hobbes: “Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto – per parlare con più riverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa.” (Leviatano, Parte II, cap. 17). Per affrancarsi, quindi, dalla condizione primitiva, in cui ciascuno è in competizione con gli altri, bellum omnium contra omnes, sarebbe stato necessario costruire una società efficiente, che garantisse la sicurezza degli individui, condizione primaria per il perseguimento dei desideri. Per questo, ognuno rinunciò ai propri diritti naturali, stringendo con gli altri un patto mediante il quale li trasferì ad un singolo soggetto, un monarca o un’assemblea di uomini, che si assumesse il compito di garantire la pace all’interno di quella società.
John Locke (immagine a destra), invece, nell’opera Due trattati sul governo (1690) riteneva che lo stato di natura fosse quello in cui gli uomini godessero della libertà di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri possessi come meglio credessero, entro i limiti della legge di natura, senza dipendere dalla volontà di nessun altro. Ciò detto, precisò il filosofo, la libertà e l’uguaglianza degli uomini non implicavano che lo stato di natura fosse uno stato di licenza: nessuno aveva il diritto di distruggersi e di distruggere gli altri per la propria conservazione. Lo stato di natura, infatti, era limitato da una legge di natura, che coincideva con la ragione, sulla cui base era possibile costituire una società ordinata, con rispetto e uguaglianza reciproca. Secondo la medesima legge di natura, che sottintendeva la pace e la conservazione di tutti gli uomini, era necessario sia conservare e difendere gli altri, anche sopprimendo l’offensore, sia punire i trasgressori di questa legge. Per il principio di uguaglianza, tutti potevano far osservare questa legge: nessuno aveva superiorità e giurisdizione assoluta o arbitraria sopra un altro. La naturale condizione umana non era, quindi, per Locke, come era stata per Hobbes, il bellum omnium contra omnes. Ogni uomo aveva in sé una naturale predisposizione alla giustizia e alla pace. Diversamente, né la pace né giustizia sarebbero state realizzabili. Tuttavia, la parzialità degli uomini nel giudicare se stessi e i propri amici comportava confusione e disordine. Per questo, il filosofo pose il governo civile quale rimedio adatto agli inconvenienti dello stato di natura. Nello stato di diritto, o stato sociale, l’uomo deve rispettare regole stabili, da sempre impresse nel suo cuore e non imposte da nessuno. Prima dello stato deve esistere una società autosufficiente, come la famiglia, che si costituisce a partire da una naturale tendenza dell’uomo verso gli altri. Gli uomini sono stati creati per vivere in società e non in solitudine.
Jean Jacques Rousseau (immagine a sinistra), al contrario, presupponeva una effettiva difformità tra la società e la natura umana. Affermava, infatti, che l’uomo fosse, in natura, buono, un “buon selvaggio” (questo assunto suscitò la caustica ironia di Voltaire, il quale dichiarò: “Leggendo Rousseau viene voglia di mettersi a camminare a quattro zampe!”), e venisse corrotto, in seguito, dalla società, che riteneva un prodotto artificiale, nocivo per il benessere degli individui. Nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini (1755), illustrò il progresso e la degenerazione dell’umanità da un primitivo stato di natura sino alla società moderna. Per il filosofo ginevrino gli uomini primordiali erano individui isolati – diversi dagli animali solamente a causa del possesso del libero arbitrio e della capacità di perfezionarsi – dominati dall’impulso all’autoconservazione e da una disposizione naturale alla compassione e alla pietà verso i simili. Quando, però, l’umanità fu costretta a vivere in comunità, a causa della crescita della popolazione, subì una trasformazione psicologica, in seguito alla quale cominciò a considerare la buona opinione degli altri come un valore indispensabile per il proprio benessere. Lo sviluppo dell’agricoltura e della metallurgia, con la conseguente creazione della proprietà privata e della divisione del lavoro, portarono a una crescente dipendenza reciproca degli individui e alla disuguaglianza tra gli uomini. La conseguente condizione di conflitto, tra chi aveva molto e chi poco o nulla, fece sì che il primo Stato fosse concepito come una forma di contratto sociale, suggerito dai più ricchi e potenti. Questi, infatti, tramite proprio il contratto sociale, sanzionarono la proprietà privata, istituzionalizzando la diseguaglianza come se fosse inerente alla società umana. Il desiderio di essere considerati dallo sguardo altrui aveva corrotto l’integrità e l’autenticità degli individui all’interno di una società, quella moderna, segnata dalla dipendenza reciproca, dalle gerarchie e dalle diseguaglianze sociali.

 

 

 

La Guerra fredda

 

 

AREE DI APERTO CONFLITTO DURANTE LA GUERRA FREDDA: IL PONTE AEREO DI BERLINO E LA DIVISIONE DELLA COREA

Alla fine della Seconda guerra mondiale, Berlino rappresentava il punto caldo della questione tedesca. La stessa Germania era divisa nei due blocchi, rappresentativi delle due opposte ideologie: la Germania occidentale, la cui ripresa si basava sull’economia di mercato, e la Germania orientale, sede di alcuni dei più importanti centri industriali tedeschi prebellici e paese più avanzato dell’area economica socialista, fonte di tecnologie e capacità professionali, utili per tutto il sistema. Berlino, localizzata nella Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est), risultava divisa in quattro zone, occupate una dall’URSS (Berlino Est) e le altre, site nella ponte-aereo-berlino-ovestBerlino Ovest, dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dagli USA. Berlino Est diventò la capitale della Repubblica Democratica Tedesca, mentre Berlino Ovest, derivante dall’unione tra le zone occupate dalle forze occidentali, rappresentava un’appendice della Repubblica Federale Tedesca. Per raggiungere Berlino, dalla Germania occidentale, era necessario percorrere una strada che attraversava il territorio della Germania orientale. Il maggio del 1948 segnò l’inizio del blocco di Berlino, che durò circa un anno. Tale blocco fu esercitato dalla potenza sovietica, che controllava il movimento stradale e ferroviario di persone e di beni. Il ritiro occidentale da Berlino, tuttavia, sarebbe stato interpretato dal mondo come un segno di estrema debolezza. Per questo, gli Stati Uniti, sfoggiando la loro superiorità aerea e dimostrando l’inutilità della strategia sovietica, rifornivano Berlino Ovest con aiuti e merci aviotrasportati (ponte aereo). Il ponte aereo non fu ostacolato dall’URSS: se ciò fosse accaduto, ne sarebbe potuto nascere un incidente che avrebbe potuto aprire la strada alla Terza guerra mondiale. Fortunatamente, i contatti tra le due parti e i tentativi per risolvere la crisi non si interruppero e il ponte aereo risultò un completo successo, tecnico e psicologico, per l’Occidente, concludendosi, dopo oltre un anno, con una evidente sconfitta dei sovietici. L’impegno americano, per di più, avvantaggiò i partiti democratici, che ottennero importanti vittorie elettorali nella Germania occidentale.muro-di-berlino-caduta-picconate Negli anni a seguire, la città rimase il punto di massimo attrito tra i due blocchi e rappresentò, per gli abitanti della Germania orientale e degli altri Paesi del blocco sovietico, la porta d’ingresso verso l’Europa occidentale. L’afflusso di milioni di lavoratori, spesso altamente qualificati, dall’Est, divenne, durante gli anni ’50, motivo di sviluppo economico per la Germania occidentale e di preoccupazione per l’URSS e per tutti i Paesi satelliti. Nel 1961, la Repubblica Democratica Tedesca, per chiudere le proprie frontiere verso l’Ovest, eresse un muro che attraversava Berlino, ponendo fine, in tale maniera, al deflusso di profughi. Il 9 novembre 1989, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il governo della Germania Est annunciò che le visite a Berlino Ovest sarebbero state permesse; dopo questo annuncio una moltitudine di cittadini dell’Est si arrampicò sul muro, superandolo, per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest. La caduta del muro di Berlino aprì la strada alla riunificazione tedesca che, formalmente, si concluse il 3 ottobre 1990.

Nel secondo dopoguerra, la penisola coreana fu suddivisa tra i due blocchi, lungo il confine artificioso del 38° parallelo, in Corea del Nord, socialista, e in Corea del Sud, filoamericana. Le due parti risultarono contrapposte, in quanto, la Corea del Nord auspicava a riunificare il Paese, mentre, la Corea del Sud mirava ad una divisione, a tempo indeterminato. Il 25 giugno 1950, l43-101123124801_mediumun contingente militare della Corea del Nord passò la frontiera e occupò tutto il territorio meridionale. Alle Nazioni Unite tale azione fu fatta passare, da parte degli USA, come un tentativo di aggressione, comportando l’intervento delle truppe ONU. Una volta respinte le truppe del Nord, oltre il 38° parallelo, le forze americane e dell’ONU oltrepassarono esse stesse la frontiera, raggiungendo quella cinese. L’intervento diretto in guerra delle truppe cinesi generò una divisione nel campo occidentale: uno schieramento favorevole al proseguimento del conflitto, l’altro al ripristino della situazione originaria. La guerra si protrasse per diversi anni, fino all’armistizio che, nel 1953, ristabilì i confini tra la Corea del Nord e la Corea del Sud, fissati nel 1945. La guerra di Corea è stato il primo conflitto dell’era atomica, ma anche la prima guerra in cui gli statunitensi non risultarono vincitori. Da quel momento, nel continente asiatico e in quello europeo, si fissarono confini stabili tra i due blocchi. Negli Stati Uniti la lezione della Corea fu interpretata come la prova dell’aggressività dei comunisti e come dimostrazione delle difficoltà di una soluzione di forza. In tutto l’Occidente si aprì il dibattito tra i sostenitori di una linea di contenimento e quelli di una più decisa offensiva politica e militare contro l’URSS.

 

 

Lo schiaffo di Anagni a papa Bonifacio VIII

 

 

Il 7 settembre ricorre l’anniversario dell’oltraggio a papa Bonifacio VIII, passato alla storia come lo “schiaffo di Anagni”. Un gesto, certamente simbolico, che rappresentò la fine del Medioevo cristiano e l’inizio di quel processo storico che avrebbe portato all’età moderna. Benedetto Caetani, anagnino, nato nel 1230, fu papa dal 1294 al 1303. Il suo pontificato conobbe tragiche vicende, causate soprattutto dalle sue continue ingerenze nell’amministrazione dei regni e dei potentati italiani ed europei, in special modo con Filippo IV il Bello, re di Francia. La lotta tra la Chiesa di Roma e la monarchia transalpina portò agli eventi della notte del 7 settembre. L’indomani, Bonifacio VIII avrebbe scomunicato Filippo il Bello, ma Guglielmo di Nogaret, membro del Consiglio di Stato di Francia, e Giacomo Colonna, detto Sciarra, della famiglia nobiliare avversa ai Caetani, fecero irruzione il nel palazzo del papa, ad Anagni, per impedire che fosse pubblicata la scomunica. Qui, storia o leggenda, Sciarra colpì al volto, con uno schiaffo, il pontefice.

 

Papa Bonifacio VIII (Benedetto Caetani – 1230-1303)

 

Sciarra Colonna colpisce Bonifacio VIII col famoso schiaffo

 

 

 

L’Editto di Milano e la falsa esclusività del Cristianesimo

 

 

Sono anni che mi chiedo il motivo per cui, su molti libri di storia, anche di una certa autorevolezza, e, soprattutto, in documentari e programmi televisivi, venga continuamente propugnato un sostanziale falso storico: quello secondo cui l’Editto di Milano del 313 d. C., emanato dall’imperatore Costantino, avesse elevato il Cristianesimo a religione ufficiale dell’impero romano. Falso! Falso! Falso! L’editto, in realtà, non decretò alcuna esclusività al Cristianesimo, in quanto consentì la pratica libera della propria religione a tutti coloro che avessero un credo. Le uniche concessioni specifiche a quella particolare confessione consistettero nell’abolizione delle persecuzioni e nella restituzione, ai cristiani, delle chiese e dei beni precedentemente confiscati. Duemila anni dopo, nell’opinione comune, specialistica o meno, si continua a sostenere, con molta leggerezza, questa bugia. Dobbiamo attendere l’opera di un altro Lorenzo Valla, autore, nel 1517, del De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio (Discorso sulla donazione di Costantino, contraffatta e falsamente ritenuta vera), scritto in cui il celebre umanista denunciò la falsità della cosiddetta Donazione di Costantino, documento (contraffatto, nell’VIII secolo, dalla stessa curia pontificia) sul quale, per secoli, la Chiesa Cattolica Romana aveva fondato la legittimazione del proprio potere temporale nell’Europa Occidentale?