Una cronaca manoscritta delle “Cose e fatti accaduti a Verona fra il 1731 e il 1734” ricorda la creazione sulle scene del “Nuovo teatro Filarmonico” de La fida ninfa di Vivaldi e del Gianguir di Geminiano Giacomelli. La nuova opera vivaldiana rendeva omaggio a un evento maggiore per Verona, inaugurando il suo nuovo teatro d’opera, realizzato sui piani del famoso architetto Bibiena e la cui apertura era attesa. La pazienza dei veronesi era stata messa a dura prova per tutto il tempo trascorso fra la chiusura del Teatro del Capitano nel 1715 e l’inaugurazione del Nuovo teatro Filarmonico con La fida ninfa…
Sotto l’immenso cielo greco, tra le ombre degli dèi e i sussurri del destino, si staglia una figura luminosa e tragica: Antigone. L’opera di Sofocle, un capolavoro intramontabile, è un’ode alla ribellione dell’anima umana contro l’ineluttabilità del fato e la durezza del potere. Nella città di Tebe, luogo intriso di miti e tragedie, il coro delle anziane donne introduce alla vicenda. Il suono delle parole di Sofocle è come un canto antico, che riecheggia nei cuori con la forza di una tempesta lontana. Qui, la voce di Antigone, decisa a dare sepoltura al fratello Polinice, contro la legge del re Creonte, si leva come un grido di dolore e di sfida. Tebe è una polis dilaniata dalla guerra civile tra i figli di Edipo, Eteocle e Polinice. Entrambi cadono in battaglia, lasciando Creonte, nuovo re della città, a prendere dure decisioni per ristabilire l’ordine. Il sovrano decreta che Eteocle, difensore della città, riceverà una sepoltura onorevole, mentre Polinice, considerato un traditore, verrà lasciato insepolto, in balia delle bestie e degli elementi. Antigone, sorella dei due defunti, non può accettare questa ingiustizia. Guidata dall’amore fraterno e dalle leggi divine che impongono la sepoltura dei morti, decide di sfidare il decreto di Creonte. Di fronte alla sorella Ismene, che cerca di dissuaderla, la giovane rivela la sua incrollabile determinazione: seppellirà Polinice, anche a costo della vita. Questo atto di ribellione non è solo un gesto di pietà, ma una dichiarazione di guerra contro l’arbitrio del potere. Antigone viene catturata mentre compie il rito funebre per Polinice. Portata al cospetto di Creonte, difende fieramente le sue azioni, sostenendo che le leggi degli dèi siano superiori a quelle degli uomini. Creonte, irremovibile, vede nel gesto di Antigone un pericolo per l’ordine dello Stato e decide di punirla con la morte. Ismene, colpita dal coraggio della sorella, cerca di condividere la sua sorte, ma Antigone rifiuta la solidarietà tardiva. Il coro, composto dai cittadini tebani, presenta riflessioni profonde sulla natura del potere, della giustizia e della sorte. Il suo canto funge da eco delle tensioni interne ai personaggi principali e amplifica il dramma che si sta consumando. Attraverso le sue parole, Sofocle guida in una meditazione collettiva sulle conseguenze delle azioni umane e sull’inflessibilità del destino. Emone, figlio di Creonte e promesso sposo di Antigone, tenta disperatamente di salvare la sua amata. In un acceso dialogo con il padre, cerca di farlo ragionare, evidenziando l’errore di giudizio e le ripercussioni del suo decreto. Ma Creonte, accecato dal suo stesso orgoglio, rifiuta di ascoltarlo. Emone, sconvolto, minaccia di suicidarsi se Antigone verrà uccisa. Tiresia, l’indovino cieco, avverte Creonte delle terribili conseguenze delle sue azioni. Il suo consiglio è di seppellire Polinice e liberare Antigone. Il re, inizialmente sordo a questi avvertimenti, è infine persuaso quando Tiresia predice che la maledizione degli dèi si abbatterà sulla sua casa. Tuttavia, il pentimento arriva troppo tardi. Quando Creonte decide di cedere, Antigone è già morta, suicidatasi nella prigione in cui era stata rinchiusa. Emone, disperato, si uccide accanto al corpo della sua amata. Euridice, moglie di Creonte e madre di Emone, sopraffatta dal dolore per la perdita del figlio, si toglie la vita maledicendo il marito. Creonte, distrutto e solo, comprende troppo tardi la follia della sua ostinazione. La tragedia si chiude con una nota di profonda amarezza, lasciando un monito sulla fragilità dell’esistenza umana e sull’ineluttabilità del destino.
Creonte, incarnazione del rigore e dell’ordine, rappresenta il potere che si erge inflessibile contro il fluire delle emozioni e dei legami familiari. Egli è un re che cerca di dominare il caos con il ferro e con il fuoco, ma si trova di fronte alla forza inarrestabile della pietà filiale. Antigone, delicata e forte come una rosa selvatica, sfida il suo volere con la purezza di un ideale inviolabile. Il dialogo tra i personaggi è come un tessuto finemente ricamato, ogni parola un filo che intreccia destino e volontà. Il coro, testimone e narratore, arricchisce la scena con riflessioni poetiche sulla natura degli dèi, della giustizia e della fragilità umana. La tragedia si dispiega con una bellezza dolorosa, dove ogni gesto e ogni silenzio sono carichi di significato. Nel culmine della rappresentazione, è messa in scena la solitudine di Creonte, un uomo piegato dalla sua stessa rigidità, e la gloria funesta di Antigone, il cui sacrificio riecheggia eternamente nelle pieghe del tempo. Il loro scontro non ha vincitori, solo una profonda meditazione sulla condizione umana e sulla forza inarrestabile della verità interiore.
In Antigone, la legittimità della legge è uno dei temi centrali, che Sofocle sonda con profondità e complessità. Creonte rappresenta la legge dello Stato, che egli vede come indispensabile per mantenere l’ordine e la stabilità nella città di Tebe. La sua decisione di vietare la sepoltura di Polinice è basata su una visione di giustizia che privilegia la sicurezza e la coesione sociale rispetto ai diritti individuali e ai legami familiari. Tuttavia, il tragediografo mette in discussione questa visione della legge attraverso il personaggio di Antigone. La sua ribellione non è solo un atto di disobbedienza civile, ma un’affermazione della superiorità delle leggi divine e morali rispetto a quelle umane. Antigone crede fermamente che esistano leggi eterne e immutabili che regolano la pietà e il rispetto per i morti, leggi che sono superiori a qualsiasi decreto umano. Questo contrasto tra la legge dello Stato e la legge divina crea una tensione drammatica che permea tutta l’opera, sollevando domande sulla vera natura della giustizia e sull’autorità morale delle leggi imposte dagli uomini. Creonte è un sovrano che incarna l’autorità e il potere. La sua figura è complessa, delineando sia la necessità di un governo forte sia i pericoli di un’autorità eccessiva e inflessibile. La sua determinazione a punire Polinice e a far rispettare le sue leggi è motivata dal desiderio di affermare il controllo su una città appena uscita da una guerra civile. Creonte crede che la stabilità dello Stato dipenda dall’obbedienza assoluta alle leggi da lui promulgate. Tuttavia, la sua autorità si trasforma rapidamente in tirannia, quando si rifiuta di ascoltare le ragioni di Antigone e di suo figlio Emone. La sua incapacità di adattarsi e di riconoscere l’umanità delle persone che governa lo porta a una serie di decisioni tragiche e, infine, alla sua rovina personale. Sofocle utilizza il personaggio di Creonte per indagare i limiti del potere e le conseguenze della sua assolutizzazione. Creonte rappresenta un monito contro l’arroganza e l’ostinazione di chi detiene l’autorità. Antigone è l’eroina tragica la cui ribellione è il fulcro della trama. La sua decisione di seppellire il fratello Polinice, nonostante il divieto di Creonte, è un atto di coraggio e di fede nei principi morali superiori. Antigone agisce in nome della pietà, dell’amore fraterno e del rispetto delle leggi divine, sfidando apertamente l’autorità del re. La ribellione di Antigone è anche un atto di affermazione dell’identità femminile in un mondo dominato da leggi e valori patriarcali. La sua determinazione e la sua forza morale contrastano con la passività di Ismene e la durezza di Creonte, rendendo il suo personaggio un simbolo di resistenza e di integrità. Sofocle dipinge Antigone come una figura tragica il cui destino è segnato dal suo stesso senso di giustizia e dalla sua fedeltà ai valori ancestrali. La sua ribellione è una sfida non solo al potere tirannico, ma anche alla concezione stessa di cosa significhi essere umano e rispettare gli altri.
Antigone è costruita su una serie di contrasti che arricchiscono il dramma e ne amplificano il significato.
Legge umana vs. legge divina: il conflitto tra le leggi dello Stato, rappresentate da Creonte, e le leggi divine, sostenute da Antigone, è il nucleo della tragedia. Questo contrasto solleva domande fondamentali sulla natura della giustizia e della moralità.
Autorità vs. ribellione: Creonte e Antigone impersonano, rispettivamente, l’autorità dello Stato e la ribellione morale. Il loro scontro è una riflessione sulla legittimità del potere e sui diritti dell’individuo di opporsi alle ingiustizie.
Pubblico vs. privato: il conflitto tra doveri pubblici e obblighi privati è incarnato nella decisione di Antigone di dare sepoltura al fratello, un atto privato con conseguenze pubbliche devastanti.
Uomo vs. donna: la dinamica di genere è un elemento significativo nel dramma. Antigone sfida i ruoli tradizionali delle donne nella società greca, mentre Creonte rappresenta il patriarcato che cerca di mantenere il controllo.
Destino vs. libero arbitrio: il destino ineluttabile dei personaggi e le loro scelte personali si intrecciano continuamente. La tragedia esplora quanto i personaggi siano padroni del loro destino e quanto siano vittime delle circostanze.
Antigone di Sofocle è un viaggio attraverso i meandri dell’animo umano, un incontro con le forze invisibili che guidano i nostri passi. È un poema di ribellione e amore, di leggi infrante e destini segnati. In ogni verso, Sofocle ci ricorda che la vera tragedia non è nella caduta, ma nel non lottare per ciò che è giusto. In questo affresco di dolore e bellezza, Antigone ci invita a riflettere sulla nostra stessa natura, sui vincoli che ci legano e sulle forze che ci spingono oltre i limiti dell’esistenza. Un’opera che continua a risplendere, come una stella nell’oscurità, guidandoci con la sua luce immortale.
Alessandro Manzoni, universalmente noto per aver scritto i Promessi Sposi, è stato anche autore di tragedie, che hanno rivoluzionato la struttura classica di questo particolare genere teatrale. Il letterato milanese avrebbe fatto molto arrabbiare Aristotele, massima autorità del campo, se quest’ultimo avesse potuto leggere le sue due opere drammatiche, “Il conte di Carmagnola” (1820) e “Adelchi” (1822), perché, in esse, le unità di tempo, di luogo e d’azione, come teorizzate dal filosofo greco nella Poetica e sulle quali era strutturata la tragedia greca classica, non sono assolutamente prese in considerazione. Aristotele, infatti, sosteneva che la rappresentazione tragica dovesse svolgersi nello stesso luogo e, al massimo, in due giorni. L’esposizione degli antefatti e di altre eventuali chiarificazioni sarebbero state compito del coro che avrebbe, così, informato gli spettatori. Manzoni, in barba al Filosofo, impiega sette anni per far morire il conte di Carmagnola e tre per Adelchi; situa le azioni in campi coltivati e campi di battaglia, nel palazzo del Senato Veneto per la prima tragedia e nell’accampamento di Carlo Magno, nella reggia del re Desiderio e nel convento dove langue Ermangarda per la seconda. All’Autore, evidentemente, interessava dimostrare altro, non la sua bravura ad accordarsi ad un modello che aveva fatto scuola per più di 2000 anni, quanto dar voce a virtù, atteggiamenti e modi di fare, passioni pure e rovinose, azioni spregiudicate, drammi interiori e collettivi, da lui descritti in modo impareggiabile e profondo, spesso velando riferimenti all’Italia del suo tempo. In più, sempre contro la lezione di Aristotele, adoperò i cori per esprimere, in versi, le sue personali riflessioni e il suo punto di vista, tanto che questi potrebbero essere eliminati dal dramma, senza impedirne la comprensione dello sviluppo. Anche nelle antologie scolastiche, infatti, sono i cori, anziché le restanti parti delle tragedie, ad essere solitamente letti e studiati. Capita, non di rado, che gli studenti ne confondano i versi con poesie indipendenti, piuttosto che considerarli parti di opere composte, comunque, più per la lettura che per la rappresentazione a teatro.
Il conte di Carmagnola
Francesco Bussone è un contadino di Carmagnola che diventa soldato di ventura e mercenario al servizio del duca di Milano, Filippo Maria Visconti. La sua abilità con le armi gli permette una brillante carriera, culminante con la nomina a conte e col matrimonio con la figlia del suo signore. L’invidia dei colleghi, la quale è sempre stata una malattia vecchia come il mondo, fa sì che questi riescano a convincere il duca a cacciarlo da Milano. Il conte di Carmagnola non si perde d’animo e va al servizio dei Veneziani, che stanno preparando la guerra ai milanesi. Valoroso in battaglia come al solito, sbaraglia le truppe meneghine a Maclodio ma non fa rincorrere, per fare prigionieri, i nemici che si erano ritirati e neppure avanza per sfruttare la vittoria. Tutto questo viene considerato un tradimento dal Senato Veneziano che, attiratolo con una scusa a Venezia, lo processa e condanna a morte. L’Autore intende dimostrare come un uomo dallo spirito nobile e generoso, giunto all’apice del successo personale e del potere, possa, poi, cadere in disgrazia, travolto dalla forza malvagia che governa il mondo, trovando, infine, conforto nella fede cristiana.
Adelchi
Ermengarda, moglie ripudiata da Carlo Magno, torna a Pavia dal padre Desiderio, re dei Longobardi. Questi, avendo invaso i territori del papato, ora alleato dei Franchi, e non avendo dato seguito all’ultimatum di Carlo, che gli intimava di ritirarsi, gli dichiara guerra. Ermengarda si reca dalla sorella badessa di un convento a Brescia. Qui, sapute delle nuove nozze del suo ancora amato Carlo, muore per il dispiacere. A questo punto, il famosissimo canto del coro, meglio noto come “La morte di Ermengarda“:
“Sparsa le trecce morbide sull’affannoso petto, lenta le palme, e rorida di morte il bianco aspetto, giace la pia, col tremolo sguardo cercando il ciel“.
(Adelchi, Atto IV, scena I, vv. 1 – 6)
L’esercito franco, intanto, grazie alla spia di un traditore longobardo, riesce a valicare le Alpi, attraverso un passaggio non difeso, giungendo a Verona. Adelchi, il quale si era sempre opposto alla guerra, ma che niente aveva potuto contro il fermo volere del padre, viene ferito gravemente in battaglia ed è portato nella tenda di Carlo, dove si trova pure Desiderio, fatto prigioniero. Muore tra le braccia del padre.
Adelchi: “O Re de’ re tradito da un tuo Fedel, dagli altri abbandonato!… Vengo alla pace tua: l’anima stanca accogli”. Desiderio: “Ei t’ode: oh ciel! tu manchi! ed io… In servitude a piangerti rimango“.
(Adelchi, Atto V, scena X, vv. 6-11)
L’Adelchi è, innanzitutto, la tragedia della lotta dei personaggi contro i propri sentimenti. Bellissima la figura di Ermengarda, la quale, seppure ripudiata, vittima sacrificale della ragion di Stato, prova ancora forte e delicata passione per Carlo. Allo stesso modo, Adelchi, il quale, sottomesso alla volontà del padre, combatte, con valore, una guerra ingiusta e senza speranza di vittoria, trovandovi la morte. Chiaro è anche il contributo che Manzoni, con quest’opera, volle dare al risveglio degli italiani del Risorgimento. L’Adelchi, infatti, rappresenta il dramma di tre popoli: il longobardo in fuga, il franco vincitore, a prezzo, però, di grandi sacrifici, e l’italico, da sempre diviso, nell’illusione di poter riacquistare la libertà grazie agli stranieri i quali, invece, lo dominano ferocemente. L’indipendenza, secondo il futuro senatore del Regno d’Italia, sarebbe potuta essere conquistata soltanto se il popolo italiano si fosse unito e disposto a combattere qualunque invasore straniero.
Adolfo Celi incarna l’essenza dell’arte drammatica con una presenza che risuona tanto nella memoria collettiva quanto nelle anime individuali. Nato il 27 luglio 1922, a Messina, si è distinto come attore, regista e sceneggiatore, navigando con maestria tra le acque delle arti performative. Sin dalla giovinezza fu attratto dal palcoscenico, un luogo dove le sue emozioni trovavano espressione e la sua creatività poteva fiorire senza restrizioni. Studiò all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma, un tempio di apprendimento, che affinò il suo talento innato e gli fornì gli strumenti per dominare l’arte della recitazione. La carriera cinematografica di Celi è segnata da interpretazioni memorabili, che lo hanno reso una figura di spicco nel panorama internazionale. Il suo ruolo nel film “Agente 007 – Thunderball” (Operazione tuono), come Emilio Largo, rimane iconico, un perfetto antagonista dal carisma oscuro e magnetico. La sua abilità di interpretare personaggi complessi con una profondità psicologica rara lo ha reso un attore ricercato in tutto il mondo. Ma è nel cinema italiano che ha dato il meglio di sé, lasciando un’impronta indelebile con interpretazioni che hanno attraversato generi e stili. Collaborò con alcuni dei più grandi registi del tempo, tra cui Federico Fellini, Francesco Rosi e Luigi Comencini. In film come “Amici miei” e “Sotto il segno dello scorpione”, dimostrò una versatilità straordinaria, capace di passare dal dramma alla commedia con una naturalezza disarmante.
La tecnica attoriale di Celi si distingueva per la sua intensità e precisione. Era un maestro nell’uso della voce, modulandone i toni per trasmettere una gamma di emozioni che andavano dal sussurro più delicato al grido più potente. La sua presenza scenica era imponente, capace di catturare l’attenzione del pubblico con un solo sguardo. Lavorava sul personaggio con una dedizione quasi maniacale, contemplando ogni sfumatura del ruolo, per portare alla luce verità nascoste e contrasti interiori. Era noto per la sua capacità di entrare completamente nel personaggio, abbandonando se stesso e diventando una tela bianca su cui dipingere nuove vite. Adolfo Celi ci ha lasciati il 19 febbraio 1986. Le sue interpretazioni rimangono a testimoniare la sua grandezza e il suo impegno verso l’arte della recitazione. I suoi film e spettacoli teatrali sono studiati e ammirati, fonte di ispirazione per le nuove generazioni di attori e registi. In ogni scena, in ogni parola pronunciata, Adolfo Celi ha infuso un pezzo della sua anima, rendendo ogni sua performance un’opera d’arte. Il suo nome rimarrà per sempre scolpito nella storia del cinema e del teatro, un esempio di eccellenza e dedizione per chiunque scelga di seguire le sue orme.
Laurence Olivier, attore il cui nome rimarrà per sempre scolpito nel pantheon del teatro e del cinema, non è stato solo un interprete, ma un maestro della recitazione, capace di incarnare, con straordinaria profondità, personaggi diversi e complessi. La sua carriera, costellata di successi e riconoscimenti, costituisce un capitolo fondamentale nella storia delle arti performative. Laurence Kerr Olivier nacque nel 1907 a Dorking, nel Surrey, e fin dai suoi primi passi nel mondo del teatro dimostrò un talento che lo avrebbe presto reso una figura di riferimento. La sua formazione presso il Central School of Speech and Drama di Londra affinò le sue innate capacità, permettendogli di emergere rapidamente sulle scene teatrali britanniche. Olivier è forse meglio conosciuto per le sue interpretazioni shakespeariane, che rimangono pietre miliari nella storia del teatro. “Amleto”, “Otello”, “Riccardo III”: ruoli iconici che egli rese propri, infondendo a ognuno di essi una vita unica e inimitabile. La sua versione di Amleto, sia sul palco che nel film del 1948, rimane un esempio insuperato di come il teatro possa essere trasformato in cinema senza perdere la sua essenza drammatica.
Nel cinema, Olivier non fu meno straordinario. Interpretazioni come quella in “Wuthering Heights” (1939), dove vestì i panni del tormentato Heathcliff, dimostrano la sua capacità di trasmettere emozioni intense e complesse. In “Rebecca” di Alfred Hitchcock, la sua performance nei panni di Maxim de Winter aggiunse una dimensione di profondità psicologica che arricchì notevolmente la narrazione. La recitazione di Laurence Olivier era caratterizzata da una precisione tecnica impeccabile e una profonda comprensione emotiva dei personaggi. La sua abilità nel passare da ruoli drammatici a quelli tragici, mantenendo sempre un livello elevatissimo di performance, lo distingue come uno degli attori più versatili non solo del suo tempo ma dell’intera storia del cinema. Laurence Olivier ci ha lasciati nel 1989, ma la sua eredità vive ancora. I suoi contributi al teatro e al cinema continuano a ispirare generazioni di attori e spettatori. Guardando indietro alla sua carriera, non posso fare a meno di sentirmi colmo di ammirazione e nostalgia. Olivier non era solo un attore; era un’istituzione, un simbolo di eccellenza artistica che ha elevato gli standard della recitazione a livelli ineguagliabili. Concludendo questo ricordo risuona un senso di perdita per un’epoca in cui la maestria attoriale di Laurence Olivier incantava il mondo. Ma rimane con noi, nel silenzio delle sale teatrali e nelle immagini dei vecchi film, un ricordo vivido e indelebile di ciò che il teatro e il cinema possono raggiungere quando un genio come Olivier li abita.
La Commedia dell’arte, fenomeno culturale nato in Italia nel XVI secolo, prese il nome dall’accezione medievale del termine arte, ovvero mestiere, perché, per i recitanti, il teatro costituiva un lavoro e non una passione a cui dedicarsi nel tempo libero. Unitisi in cooperative, la compagnie teatrali, attori e, per la prima volta sulle scene, attrici, portavano le loro rappresentazioni sia nei palazzi signorili che nelle piazze e nei mercati. Tra le più celebri compagnie, quelle di Ser Maphio, padovana, dei Gelosi, milanese, dei Confidenti, fiorentina, degli Accesi, dei Fedeli e degli Uniti, mantovane. Tra gli attori, invece, degni di essere ricordati, Francesco Andreini, Alberto Naselli, Pier Maria Cecchini e la moglie Orsola, Francesco Gabrielli, Flaminio Scala, Silvio Fiorillo, Virginia Rotari e Giovanni Pellesini. La vera novità della Commedia dell’Arte era nel fatto che gli artisti non interpretavano testi scritti od opere drammaturgiche vere e proprie, quanto piuttosto recitavano rifacendosi ad un canovaccio, cioè all’insieme, a grandissime linee, degli elementi di una trama. Salivano sul palcoscenico improvvisando, con grande bravura e abilità, le situazioni più varie e divertenti possibili, ma che avevano sempre gli stessi protagonisti, le maschere, personaggi facilmente riconoscibili dall’abbigliamento e da caratteri propri, ogni volta identici. Esse avevano le stesse fattezze di quelle con le quali molti dei bimbi della mia generazione, me compreso, si travestivano a Carnevale: Arlecchino, servo imbroglione e sempre alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti; Balanzone, chiacchierone e presuntuoso; Brighella, servitore furbissimo e macchinatore di truffe e inganni di tutti i tipi; Colombina, giovinetta intelligente e maliziosa; Pulcinella, gobbo, spaccone e bugiardo; Tartaglia, cieco e balbuziente; Pantalone, vecchiaccio che correva sempre dietro alle donne. Queste maschere rappresentavano spettacoli davvero comici, i quali, però, a causa del carattere di improvvisazione, non sono stati quasi mai trascritti, per cui, oggi è alquanto difficile ricostruire con precisione, né tanto meno poter rappresentare, un’opera della Commedia dell’arte. Accanto a questi attori, comunque, ci fu, tuttavia, chi, tra il XVI e XVII secolo, continuò a fare teatro alla vecchia maniera, vale a dire, seguendo i soliti generi, la commedia, la tragedia e i drammi, ma con linguaggi e significati diversi, rispetto alla tradizione precedente: Giovan Battista Guarini, Federico Della Valle e Carlo de’ Dottori.
Nel profondo vortice di un mare furioso, dove l’ira di Nettuno si scaglia con rabbia sulle indifese navi, nasce l’incanto di “La Tempesta”, sublime creazione shakespeariana, che gioca tra i fili dell’arte magica e della profonda umanità. Quest’opera, ultima gemma nata dalla penna del Bardo, è, in realtà, un viaggio che trasporta l’anima oltre i confini del reale, in un’isola dove ogni sasso e ogni granello di sabbia consegnano mistero. Il dramma si apre con una tempesta evocata dal mago Prospero, il quale, con il suo potente libro di incantesimi, scatena i venti e le onde per far naufragare una nave vicino alla sua isola. Questo naufragio non è solo un caso di cieca vendetta, ma una mossa calcolata per riportare nella sua vita coloro che lo avevano tradito, compreso suo fratello Antonio, che gli aveva usurpato il ducato di Milano. Sull’isola, Prospero vive con sua figlia Miranda, cresciuta lontana dalla civiltà e ignara delle vicende che hanno portato all’esilio suo e del padre. Insieme a loro, vi è Calibano, un essere deforme e brutale, figlio della strega Sycorax, precedentemente signora dell’isola. Calibano serve Prospero, sebbene con rancore e malcontento, sognando di liberarsi dal suo controllo. Prospero usa il suo spirito servo, Ariel, per controllare gli eventi sulla nave naufragata e guidare i sopravvissuti sull’isola. Tra questi vi sono Ferdinando, il figlio del re di Napoli, e altri nobili come Gonzalo, il gentile consigliere che aveva aiutato Prospero e Miranda a fuggire anni prima. Mentre Ferdinando si separa dagli altri superstiti, incontra Miranda e i due si innamorano rapidamente, un’unione che Prospero desidera segretamente, ma che mette alla prova con ostacoli e impacci. Nel frattempo, Calibano si allea con Stefano, il servo del re, e Trinculo, il buffone, in un comico ma fallimentare tentativo di rovesciare Prospero. Questi complotti secondari si intrecciano con la magia e le illusioni create da Prospero per redimere i suoi nemici, il quale, però, dopo aver orchestrato una serie di rivelazioni e pentimenti, decide di perdonare i suoi avversari, rivelando l’umanità e la saggezza acquisita durante gli anni di esilio. Restituisce Ferdinando a suo padre e rinuncia alla sua magia, manifestando il suo desiderio di lasciarsi alle spalle le manipolazioni e i trucchi per tornare alla vita normale a Milano.
“La Tempesta”, William Hamilton (1790 c.a.)
La tempesta che dà il titolo all’opera è l’inizio di una catena di riconciliazioni, un tumulto delle onde che rispecchia il trambusto dei cuori, portando i naufraghi verso una riva di perdono e rinascita. Antonio, Alonso e i loro complici affrontano il naufragio dei loro piani e delle loro anime, ritrovandosi faccia a faccia con i propri demoni, in un confronto che scuote le fondamenta del loro essere. Calibano, mostro e vittima, è la voce dell’isola stessa, selvaggio e indomito, figlio di una strega e di un diavolo, evoca un’empatia torbida e profonda, un richiamo alla libertà che rifiuta catene, anche quando queste sono forgiate dalle stelle. Ariel, spirito etereo e fedele servitore di Prospero, danza tra l’aria e il fuoco, un soffio di vento che compie i desideri del suo padrone con una grazia che sfiora la tristezza, la malinconia di chi sogna una libertà ancora lontana. Shakespeare tesse una trama dove magia e realtà si intrecciano inestricabilmente, lasciando che il soprannaturale e l’umano si influenzino a vicenda, in un balletto di cause ed effetti. “La Tempesta” è un’opera di straordinaria profondità psicologica, che esplora temi di potere, controllo, libertà e il difficile percorso verso il perdono. In questo testo, Shakespeare sembra quasi dialogare con se stesso, riflettendo sul potere dell’arte e del teatro di evocare tempeste e di placarle, di creare mondi e di dissolverli, proprio come Prospero con la sua bacchetta magica. Alla fine, quando il mago rinuncia ai suoi poteri, assistiamo forse al commiato del drammaturgo dall’arte che tanto ha amato e plasmato. “La Tempesta” è, quindi, più di una semplice rappresentazione teatrale; è un inno al potere salvifico della narrazione, un richiamo poetico che risuona attraverso i secoli, sussurrando che anche nei nostri giorni turbolenti, il teatro e la letteratura possiedono la magica capacità di trasformare la più oscura tempesta dell’anima in una calma, luminosa alba. L’opera si conclude con una celebrazione del potere riconciliatore del perdono e dell’amore. Nell’ultima scena, la figura di Prospero emerge in tutta la sua complessità umana e magica. Egli si rivolge direttamente al pubblico, in un rompere della quarta parete che è tanto un atto di magia quanto uno di umiltà. Con un discorso che sovrappone speranza e malinconia, Prospero chiede di essere liberato dal peso dei suoi poteri magici e dall’isolamento dell’isola attraverso l’applauso del pubblico, un gesto che simboleggia il perdono e l’accettazione collettiva. “La Tempesta”, in questo epilogo, si rivela non solo come un’opera di intrattenimento ma anche come un profondo esame della natura umana e del suo potenziale di cambiamento e rinnovamento. Shakespeare, con maestria ineguagliabile, collega i temi del potere e della giustizia con quelli della redenzione e del riscatto personale. Il drammaturgo esplora come il potere possa essere usato sia per dominare che per liberare, e come alla fine, il più grande atto di potere possa essere il perdono. In quest’opera, il teatro stesso diventa uno strumento di magia e di guarigione. Shakespeare usa il palcoscenico per creare un luogo dove le tempeste dell’anima possono essere quietate e i legami spezzati possono essere rinnovati. L’arte del teatro è mostrata come un mezzo per esplorare e alla fine pacificare i conflitti interni e esterni, offrendo al pubblico non solo una fuga dalla realtà, ma anche una via per comprendere meglio se stessi e il mondo. “La Tempesta” si conclude, quindi, con un inno alla possibilità di trasformazione e di rinnovamento che risiede in ognuno di noi. L’appello finale di Prospero per un applauso che lo liberi diventa un simbolo potente della capacità dell’arte di connettere, curare ed elevare lo spirito umano. In questo modo, l’opera di Shakespeare rimane un testamento luminoso della sua capacità di fondere temi profondi con un intrattenimento vivace e coinvolgente, unendo il pubblico in una riflessione comune su potere, giustizia e la redenzione umana attraverso l’immortale arte del teatro.
Violetta Elvin, nata Prokhorova e vedova di Fernando Savarese, ha firmato, a Vico Equense, Palazzo Savarese, insieme con il figlio Antonio Vasilij Savarese, nelle mani di Riccardo Piroddi, l’autorizzazione alla pubblicazione del romanzo “Dance The Love – Una stella a Vico Equense”, il terzo e ultimo romanzo de “La Trilogia Sorrentina” di Raffaele Lauro, edito dalla GoldenGate Edizioni. L’Autore, per questo lavoro, si è avvalso della consulenza di Antonio Vasilij Savarese, Salvatore Ferraro, Antonio Cioffi e Riccardo Piroddi. La nuova e attesissima opera dello scrittore sorrentino sarà presentata a Vico Equense, in anteprima nazionale, a fine luglio 2016, nell’ambito del Social World Film Festival 2016, la Mostra Internazionale del Cinema Sociale, diretta dal regista Giuseppe Alessio Nuzzo, con una serata di gala, in onore della grande danzatrice russa. Dopo Vico Equense, il libro sarà presentato a Meta, a Piano di Sorrento, a Sorrento, a Massa Lubrense, a Positano, a Capri e a Roma, nella storica location cinquecentesca del Casale di San Pio V, nuova e prestigiosa sede della Link Campus University di Roma, in attesa delle programmate tappe di Londra e di Mosca.
Questa rivista, uscita in settantaquattro numeri, uno ogni dieci giorni, tra il giugno 1764 e il maggio 1766, raccolse intorno a sé i maggiori intellettuali dell’Illuminismo milanese. Fondata da Pietro Verri, ad essa facevano capo i membri dell’Accademia dei Pugni, società culturale tra i cui soci sarebbero stati annoverati anche Primo Carnera, Nino Benvenuti, Patrizio Oliva e Agostino Cardamone (scherzo!), e così chiamata a causa dell’epilogo molto animato delle riunioni: scazzottate degne di Bud Spencer e Terence Hill. Gli articoli, tutti molto interessanti e riguardanti gli argomenti più vari e di interesse pubblico, ebbero le firme prestigiose di Pietro e Alessandro Verri, Cesare Beccaria, Pietro Secchi, Paolo Frisi, per citare i più autorevoli. Il comitato di redazione decise di rivolgersi ad un pubblico nuovo di lettori, non solo sapientoni e letterati, ma anche gente comune, piccoli professionisti, artigiani e donne. Questa fu una grande novità perché permise al sapere di uscire dalla torre d’avorio, dove, per secoli, era stato confinato, e di mettersi al servizio di tutti, secondo quel precetto tipicamente illuminista dell’uso intelligente della conoscenza per migliorare la società. Nei quattro fogli del Caffè, infatti, si poteva leggere tutto quello che era di interesse pubblico, dal commercio all’economia, dalla medicina all’agricoltura, dalla sanità alla politica.
Pietro Verri
Figlio del conte Gabriele e di Barbara Dati, nacque a Milano il 12 dicembre 1728. Il padre, col quale non ebbe mai un buon rapporto, fu molto severo, tanto da farlo studiare presso i collegi più terribili di Milano e provincia, esperienze che segnarono profondamente l’animo del giovane Pietro. Al ritorno in famiglia, i litigi col babbo ripresero più forti di prima, fino alla rottura definitiva, quando divenne l’amante di Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni, moglie del duca Gabrio Serbelloni, gente molto in vista a Milano. Fu scandalo e il conte Gabriele, un alto funzionario del governo milanese, per lo scorno quasi non usciva più di casa. La relazione con la duchessa, donna molto colta e chic, instillò nel giovanotto la passione per il teatro e per la cultura francese, oltre che la voluttà nell’alcova. Il ménage con l’aristocratica amante, però, dopo qualche anno finì, lasciandolo così male da decidere di darsi alla vita militare, andando a combattere come ufficiale dell’esercito austriaco contro i prussiani. Al rientro a Milano fondò, col fratello Alessandro e i “pugili” della citata Accademia, Il Caffé e, allo stesso tempo, prese lavoro nell’amministrazione pubblica austriaca del capoluogo lombardo. A questi anni risale la composizione delle sue opere principali: le Meditazioni sull’economia politica, il Discorso sull’indole del piacere e del dolore, le Osservazioni sulla tortura, e i Ricordi a mia figlia, scritto per la figlioletta Teresa, nata proprio poche settimane prima. Posso dire con (quasi) certezza che, senza Pietro Verri e i suoi instancabili sforzi per la cultura e la sua diffusione, l’Illuminismo milanese sarebbe stato molto meno luminoso.
Alessandro Verri
Fratello minore di Pietro, nacque nel 1741 e fu più furbo del maggiore perché, per non farsi ammorbare oltremodo dal padre, molto presto, fece i bagagli e, dopo aver collaborato al Caffè, se ne andò a Parigi e Londra e, poi, a Roma, dove visse fino alla morte, nel 1816. Appassionato di teatro e lui stesso attore per diletto, fu uno dei primi a tradurre le opere di Shakespeare in italiano. Scrisse anche due romanzi, le Avventure di Saffo poetessa di Mitilene e la Vita di Erostrato. Avendo vissuto così tanto tempo lontano da Milano, pian piano, abbandonò lo spirito illuminista che aveva caratterizzato la prima fase della sua vita e ripiegò su visioni un po’ più cupe dell’esistenza, che saranno, poi, determinanti nel Romanticismo. Ne è prova una sua opera, le Notti romane al sepolcro degli Scipioni, scritto che compose in occasione del ritrovamento archeologico delle sepolture di quest’importante famiglia della Roma antica, in cui figura, che dalle tombe escano le ombre di romani illustri per discutere della grandezza e della rovina dell’impero più potente della Terra.
Cesare Beccaria
Il marchese Beccaria nacque a Milano nel 1738. Come Pietro Verri ebbe grosse e dure litigate con i genitori, a causa di una donna che, però, non era moglie di un nobile conosciutissimo, quanto una ragazza di famiglia povera, Teresa Blasco, che lui amò tantissimo e che, grazie anche all’aiuto proprio del Verri, il quale mediò con i suoi parenti, riuscì a sposare. Oltre ai contributi giornalistici al Caffè, Beccaria fece due cose importanti nella vita: la prima, diede i natali alla figlia Giulia, la futura madre di Alessandro Manzoni, e la seconda, scrisse Dei delitti e delle pene, un saggio che ebbe un successo esagerato in tutta Europa, tanto da farlo diventare l’idolo di molti dei filosofi dell’Illuminismo francese, in particolare di Voltaire. In questo trattato, colmo di spirito illuminista, Beccaria sostiene l’abolizione della pena di morte perché, a suo avviso, questa non fa né diminuire i crimini, né è buona come deterrente. “È più utile prevenire i delitti mostrando la certezza della pena – scrive l’autore – perché, per un criminale, è meglio morire che passare la vita in galera. Ma quando un ergastolano scappa dal carcere e mette in pericolo la vita dei cittadini, allora può essere messo a morte.” Questo libro dovrebbe rappresentare un articolo fondamentale della Costituzione di molti paesi del mondo, i quali, ahimè, evidentemente, ancora non hanno ancora visto o sentito parlare di Illuminismo.
Serata di teatro leggero. Quattro situazioni comiche e non solo, intervallate da letture di poesie, e portate in scena nel ristretto spazio che concede una libreria. Quattro scene nelle quali, più che il corpo, contano il viso, lo sguardo, la voce e le parole. E la musica. In apertura, “L’attore”, breve pièce scritta da Mimmo Bencivenga, interpretata da Marilena Altieri e Nino Casola. Due poesie di Totò, “Ludovico e Sarchiapone” e “’A livella”, lette da Pasquale Carrino. A seguire, “La separazione” di Ambrogio Coppola, divertente sketch interpretato da Nino Casola e dai bravissimi coniugi Teresa e Armando Simioli. Ancora letture di poesie, questa volta di Raffaele Viviani: “’O vico”, recitata da Pasquale Carrino; “’O muorto ‘e famme”, interpretata da Armando Simioli, e “’A caravana”, declamata da Benedetta De Nicola. In conclusione, un’altra breve pièce di Mimmo Bencivenga, speculare a quella di apertura, “L’attrice”, interpretata da Marilena Altieri e Nino Casola. Introduzione al mondo del racconto recitato e intermezzi di Riccardo Piroddi. Organizzazione generale e commento musicale di Mimmo Bencivenga, proprietario della Libreria Indipendente.
Le foto delle performances sono state scattate da Carlo Alfaro