C’è sempre un epilogo per queste storie, per questi racconti e quest’ultimo ne racchiude il senso, la verità sapete qual’è? La verità è che non siamo ancora stati salvati. Sì, siamo stati addomesticati tutti quanti e oggi viviamo tutti in una specie di recinto, di parco protetto e custodito. Siamo guardati a vista sempre, ogni giorno, tutti i giorni, C’è chi si illude di volersi bene e di auto gratificarsi, chi insegue il sogno di essere sempre giovane e scattante anche a settant’anni, con piccole punturine e parrucchini vari, chi insegue progetti di lavoro, ma l’unica realtà è che siamo tutti dentro un recinto che non è neanche più un hortus conclusus. Tutti su un treno in corsa, tra stazioni diverse, si sale si scende, non ci si guarda in faccia, ci si urta, si impreca l’uno contro l’altro e il treno sferraglia rumoroso in un recinto chiuso: abbiamo tutti l’illusione di andare da qualche parte, ma in realtà nessuno va da nessuna parte. Se per molti solo un dio poteva salvarci, io, guardando tutti i visi che ho incontrato in questi anni, ne ho dedotto che non siamo ancora stati salvati, ma che, forse, non è più neanche il caso di attendere, perché non c’è nessuna salvezza, tranne l’illusione di coltivare la propria vanità. Si chiamava Domenico, lo trovavo nel treno già seduto al suo posto, minuto, femmineo nei modi, un libro tra le mani tutte le mattine. Conoscevo il suo nome perché una mattina una signora lo aveva salutato chiamandolo: ecco, quell’uomo femmineo coltivava compiaciuto le sue vanità: era talmente preso di sé che pensava di essere superiore a tutti quelli che gli stavano intorno, ma, nello stesso tempo, dai discorsi che gli sentii fare con la signora – una biondona molto cheap – ostentava una finta umiltà edificante e un finto altruismo e una finta bontà che lui praticava compiaciuto e con compunzione: ecco, Domenico si compiaceva di se stesso metodicamente. Tutte le mattine lui dava il buon giorno a tutti, regalando sorrisi fioriti e buoni propositi, ma, in realtà, era solo a lui che pensava. Bastava un nonnulla in quel vagone sgangherato per smascherare quel minuetto che lui inscenava tutte le mattine. Come una mattina che aggredì violentemente un signore un po’ goffo, che inavvertitamente aveva fatto gocciolare il suo ombrello sulle sue scarpe, o un’altra mattina, con fare disgustato, aveva sbattuto in faccia ad una poverina un: “Signora! Ma lei non si lava e che diamine! Si vendono tanti deodoranti e profumi, potrebbe pure usarne qualcuno!”. La malcapitata, che, poverina, io vedevo tutte le mattine, come tanti su quel treno, lo guardò con commiserazione, evidenziando il pensiero, come in un fumetto sulla sua testa che conteneva queste parole: “Ci tocca pure questo al mattino, non basta tutto il resto!”, cambiò posto e andò a dormicchiare su un altro sedile. In realtà, Domenico odiava il mondo e tutti quelli che gli stavano intorno. Le sue abitudini, cresciute nel segreto, coltivavano una oscura avversione per l’umanità che lo circondava, a meno che non si trattasse di un bel giovanotto: se ne adocchiava uno, erano tutte mossettine e gentilezze e ammiccamenti, trascurando anche la biondona, che manifestava tutto il suo disappunto serrando le labbra in una smorfia, che come una ferita gli tagliava il viso. Lui era un costruttore identitario di egoismo puro. Tutte le mattine, tranne il sabato, con la signora bionda tutto il mondo era passato al setaccio, tra raccapriccianti luoghi comuni e leziosismi stomachevoli. Erano insegnanti entrambi. Una mattina, con discrezione, ma in cuor mio non ne potevo più di ascoltare quelle scemenze sull’amore per tutti gli essere viventi, sull’azzurro del cielo e su quanto fosse bella la Penisola Sorrentina e i suoi scorci, azzardai un intervento del tipo: “Mi scusi, sono sinceramente colpito dalle cose che lei dice con tanta certezza, ma non le viene qualche volta il dubbio che forse il mare non è sempre azzurro e il cielo non è sempre blu, che la Penisola Sorrentina sta affogando nel cemento, che amare tutti gli essere viventi incondizionatamente è una enunciazione di principio ma che riesce difficile da realizzare e dunque non la realizza nessuno, a parte di non essere San Francesco o Gesù (cha amava solo l’umanità, ma non l’animalità) o Buddha (che amava di più l’animalità e meno l’umanità)?”. La biondona che era con lui, si girò di scatto, con fare stizzito, quasi a dire: “Ma come si permette? Ma non si rende conto di quello che ha detto?”. Lui, con uno sguardo che sembrò lanciasse saette, girandosi lentamente sul sedile, a gambe strette e piedi uniti, accennando ad un sorriso finto e contenendo tutta la rabbia che avrebbe voluto fare esplodere contro di me che avevo osato distruggergli tutti gli oggetti della sua vanità, disse, come se stesse distillando perle di saggezza: “Piacere a tutti, del resto, significherebbe non piacere a nessuno. Ma la cosa fondamentale è piacere a se stessi, volersi bene”. Questa frase, che forse sarebbe stata credibile se pronunciata con un altro tono, evidenziò tutta la vistosa stonatura di quell’uomo dai modi femminei e tutta la sua rabbia dall’esser stato contraddetto da me. In fondo, chi ero io se non un tizio qualsiasi che viaggiava su un treno sgangherato come lui? Ma, soprattutto, fece venir fuori la sua vanità e il suo egoismo praticato con metodo: lui, tutte le mattine, voleva solo piacere a se stesso e voleva bene solo a se stesso.
Franco Cuomo
Franco Cuomo, “Lady Goldenberg”