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Incomprensibilità di una sensazione
Non so perché questo tema musicale (ascolta) mi riporta come ad una memoria ancestrale: è come se ricordassi gli anni della gioventù di mia madre anche se io non ero ancora nato, gli anni cupi e poveri del fascismo. Il brano si chiama Son tanto triste, ed è la versione strumentale, resa celebre da Pier Paolo Pasolini, che nel 1975 la inserì nella colonna sonora del suo film “Salò o le centoventi giornate di Sodoma“, di un brano dei primi anni Quaranta (testo di Alfredo Bracchi e musica di Franco Ansaldo). Quando l’ho fatto ascoltare a mia mamma, che non ricorda quasi più nulla, prima ha mosso un po’ la testa al ritmo swing, poi, ha perfino accennato a cantarne qualche strofa: mi è venuto da piangere, perché, quanto ascoltai per la prima volta questo brano, al cinema, mentre guardavo il film di Pier Paolo Pasolini, io ebbi come l’impressione di conoscerlo già, di averlo già sentito, questo brano e, mentre nel film, orrendo nella sua rappresentazione, andava più volte come commento musicale, io pensavo ad un’epoca non mia che non era strettamente connessa alle immagini che andavano sulla pellicola. Il film è il film più terribile della storia del cinema, io non sono riuscito più a vederlo, e anche il più discusso e forse discutibile del regista poeta e scrittore: si pone, nella produzione pasoliniana, come una sorta di metafora dell’impotenza al potere, come una ritualizzazione mondana della violenza senza limiti, come un macabro apologo. Masturbazione, travestimento, voyerismo, coprofagia, occupano tempo e pensieri dei quattro signori della morte protagonisti del racconto tratto da De Sade. Ma, ogni volta che ascolto questo brano, oltre a quella cupezza, non so perchè, non me lo so spiegare, va al di là della mia comprensione, mi ritornano in mente figure remote di un altro tempo, un tempo che io non ho mai vissuto o il vissuto della vita di un altro, in questo caso, credo, il vissuto di mia madre, come se io fossi già inscritto nelle molecole del suo corpo.