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Itaca
Ho sbarrato gli occhi alle cinque del mattino. Ho cominciato a torcermi nel lenzuolo. Tra i fari delle macchine di fuori in corsa sul muro della mia camera. Nei pensieri. I pensieri delle cinque del mattino assomigliano a un funerale. Vedevo me. Morto. Vedevo noi. Che usciamo, guardiamo la tv, mangiamo, parliamo, discutiamo, ci arrampichiamo sugli specchi, mendichiamo un filo di attenzione a chiunque ci capiti sottomano, ci infiliamo gli assorbenti. Così abrasi e costretti al terrore. Eccomi. Fatuo e insulso. Mi ero addormentato anch’io sugli allori, mi ero spiaggiato a Itaca. Pigro e lesso nella mia stessa vanagloria, preso solo dal numero crescente dei cazzi che il mio culo ha finora ospitato. Ho voltato le spalle a tutto, mi sono distratto. E l’abiezione era lì, pronta invece a colpire come un maledetto cecchino. Ha trovato un punto strategico. E ha premuto il grilletto. Sono sceso dal mio letto a soppalco prima della sveglia. Io non ho paura, ho detto a me stesso. Io non ho paura. Mi sono lavato la faccia, ho allacciato le scarpe, sono uscito di casa. Come da ragazzino. L’onda era talmente alta. Ma io dovevo infilarla di testa. A tutti i costi. Anche se mi cacavo sotto. Anche se rischiavo di lasciarci le penne. O così o non sono un uomo. O così. O non sono un uomo.