Nei primi decenni del ‘200, Federico II di Svevia, preso pieno possesso del Regno di Sicilia, riunì, nel suo palazzo, a Palermo, funzionari, burocrati a lui fedeli e alti amministratori, annunziando loro: “È giunto il momento che io superi gli altri sovrani del mondo anche nella cultura!”. L’Hohenstaufen aveva chiaro in mente che per creare un vero Stato italiano e non soltanto “un’espressione geografica”, come avrebbe appellato l’Italia, seicento anni dopo, il principe austriaco Klemens von Metternich, avesse avuto bisogno, per prima cosa, di una lingua comprensibile a tutti i suoi sudditi. Il latino, infatti, seppure fosse la lingua franca dell’Europa medievale, restava oscuro alla quasi totalità delle genti sotto il suo imperio, le quali, tra loro, sapevano esprimersi soltanto in volgare o dialetto. La lingua di Roma antica, inoltre, era quella dei preti e della Chiesa e allo Stupor mundi (stupore del mondo), come i contemporanei chiamavano lo svevo, stavano entrambi sui due mondi. Anche per questo, quindi, il re operò per porre in essere le condizioni affinché, nell’uso quotidiano, il latino fosse definitivamente rimpiazzato dal volgare. Molti degli amministratori e dei funzionari di Federico (immagine a destra) non erano siciliani e, nelle terre di provenienza, avevano sentito dire che nelle corti del Nord Italia avessero bazzicato i trovatori, fuggiti dalla Provenza all’arrivo delle truppe di papa Innocenzo III, il quale, per ironia della sorte, fu anche tutore di Federico. Poiché Palermo era troppo lontana per invitarli a recitare colà le loro poesie, tutti insieme, re in testa, decisero che, per il maggiore prestigio della compagnia, del regno e della dinastia, avrebbero dovuto anche loro comporre versi. Fu proprio alla poesia, quindi, che il nipote del Barbarossa intese affidare il compito di veicolare la nuova lingua ufficiale. Così, tra una legge emanata e una battuta di caccia, qualche condanna a morte e un’esecuzione capitale, la redazione di documenti pubblici e una passeggiata per controllare come stessero le cose intorno al castello, alla corte di Palermo e in provincia si scrivevano poesie alle donne. La traccia fu fornita dalla lirica cortese della Provenza, lo svolgimento, invece, ebbe caratteri propri, con differenze anche notevoli. Innanzi tutto, rispetto ai trovatori, che erano di varia estrazione sociale, feudatari come cavalieri squattrinati, i poeti siciliani appartenevano tutti alla cerchia di Federico, quindi, erano persone istruite, professionalmente impegnate e vivevano agiatamente. Essi, poi, non erano musicisti (non sapevano suonare alcuno strumento) ma, semplicemente, diremmo oggi, parolieri, scrivevano, cioè, solo i versi. Per l’accompagnamento musicale, se la fortunata ascoltatrice avesse voluto il complessino, avrebbe dovuto chiamare i musicanti e pagarli a parte. Per quanto riguarda le tematiche, infine, i siciliani erano molto meno “platonici” e più efficaci dei provenzali. La donna era, sempre e comunque, signora e padrona, e il suo amante costantemente pronto a servirla, giorno e notte, in tutti i modi possibili. Nei componimenti dei siciliani, però, scompariva quella distanza incolmabile tra la dama e l’amante che, invece, era dolorosamente imprescindibile per i trovatori. Anzi, i primi celebravano proprio nel “vedere” la donna, il momento più bello di tutta la faccenda:
Meravigliosamente
un amor mi ristringe
e mi tiene ogn’ora.
Com’om che pone mente
in altro exemplo pinge
la simile pintura,
così, bella, facc’eo
che’nfra lo core meo
porto la tua figura…
scriveva Giacomo da Lentini (immagine in basso a destra). Da quella visione, poi, si libravano in volo tutta una serie di immagini, di metafore, di tricche e di ballacche, di forze della natura, di pietre preziose, di animali reali e fantastici, di figure splendide e ideali, che certamente dovevano far molto piacere alle donne, anche se queste, in mezzo a tutte quelle parole difficili, ci capivano veramente poco. Per questo, i poeti, spesso, prendevano il due di picche ed erano dolori e lamenti! Per non rimanere come dei fessi, si affrettavano a giustificarsi sostenendo che servire l’amata e impegnarsi ad esserle fedele li avrebbe resi più nobili e migliori di quanti, invece, arrivavano al sodo. Essi cantavano l’amore in quanto tale, più che un reale affaire, alla francese, o un intercourse, all’inglese (la corte di Federico era internazionale!). Le donne amate erano, prima di tutto, simboli ai quali indirizzare le proprie considerazioni su cosa fosse l’amore. C’era, tuttavia, un elemento che accomunava i siciliani ai provenzali: la paura delle malelingue, sempre in agguato, ad ogni angolo e in ogni occasione, per mettere in cattiva luce il poeta agli occhi della sua dama.