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Nel futuro del verbo fare
Nel futuro del verbo fare ci siamo io e te a piedi scalzi, sforbiciati da uno strappo di sole, due rami di leccio intrecciati alla neve, la coniugazione breve fra le messi del grano, la dismisura del giusto in un pugno lieve o una stretta di mano.
Dal giorno che gratta alle profondità dell’erba, a queste unghie rapaci, siamo io e te polpacci e caviglie, due franche radici. Non il capello che arruffa, né i buoni auspici, ma una breccia puntuta, questa ghiaia cruda, la vigna, la cantina, la radura brada.
A volte per una fervida mutevolezza di gronde formeremo parentesi tonde, poi quadre poi graffe, frazioni da complicare, nel futuro del verbo fare dove c’è un tal nostro modo di stare un po’ come due transenne al singolare, fra un prima ed un dopo, inesperte teorie da sbandierare in cerca del punto per poi andare a capo.
Nel futuro del verbo fare c’è un incontro di ascisse a tracciare il diagramma fedele di certe piccole inezie, minuzie, discordie represse, il mio scattare mentre tu annoti attenta le scosse pronunciate come queste solenni promesse, la mia forza che si fa conca attraverso le tue mani che addosso mi stanno e si fanno convesse.
Dopo la rada, la cala opposta alla foce, se nel futuro del verbo fare c’è un campo contiguo o l’occhio bruciato del mare, sarà doppia la voce, il rispetto del dare con cui spezzeremo il silenzio tenace, che è giovane ora ma tra le labbra loquace, e fiorisce, e perdura, e di noi due dice, e di noi due tace.