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Mi ci sono voluti cinque anni. Cinque anni buoni. Cinque anni di Facebook. Ma alla fine credo di aver capito. Il regno del vuoto sterminato. Il sommo paradigma del nulla. Ecco cos’è. Un’umanità che si parla addosso, che si specchia in pubblico perché a farlo in solitudine le farebbe troppa paura. Incapaci di interagire nei sapori e negli odori, ci muoviamo in chat imbarazzanti e imbarazzate. Ché oggi se telefoni a qualcuno sei uno stalker. Allora faccine e poi faccine e poi di nuovo faccine. Siamo emoticon sgrammaticate. Tento con sforzi disumani di costruire qualcosa di nuovo, qualcosa di buono. Di uscire da questa griglia artificiale. Ma non ce la faccio. Che beffa. Incroci di belle occasioni che temono per il loro stesso fiorire. Meglio seguitare a farci selfie sperando in un paio di “likes”. Meglio vagare per chat armati di copia e incolla. Meglio le tette, i culi, i tatuaggi, i cibi, le spiagge. Tanto è in questo che ci siamo specializzati. Ciascuno un banco, ciascuno la propria merce. E sarebbe perfino struggente se poi non ci illudessimo che qui si fa sul serio. Meglio battere le mani che parlare. Ma sì. Dopotutto questo è un concerto rock. Noi sul palco, giù la claque.