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Le tragedie di Alessandro Manzoni

 

 

 

 

Manzoni 4Alessandro Manzoni, universalmente noto per aver scritto i Promessi Sposi, è stato anche autore di tragedie, che hanno rivoluzionato la struttura classica di questo particolare genere teatrale. Il letterato milanese avrebbe fatto molto arrabbiare Aristotele, massima autorità del campo, se quest’ultimo avesse potuto leggere le sue due opere drammatiche, “Il conte di Carmagnola” (1820) e “Adelchi” (1822), perché, in esse, le unità di tempo, di luogo e d’azione, come teorizzate dal filosofo greco nella Poetica e sulle quali era strutturata la tragedia greca classica, non sono assolutamente prese in considerazione. Aristotele, infatti, sosteneva che la rappresentazione tragica dovesse svolgersi nello stesso luogo e, al massimo, in due giorni. L’esposizione degli antefatti e di altre eventuali chiarificazioni sarebbero state compito del coro che avrebbe, così, informato gli spettatori. Manzoni, in barba al Filosofo, impiega sette anni per far morire il conte di Carmagnola e tre per Adelchi; situa le azioni in campi coltivati e campi di battaglia, nel palazzo del Senato Veneto per la prima tragedia e nell’accampamento di Carlo Magno, nella reggia del re Desiderio e nel convento dove langue Ermangarda per la seconda. All’Autore, evidentemente, interessava dimostrare altro, non la sua bravura ad accordarsi ad un modello che aveva fatto scuola per più di 2000 anni, quanto dar voce a virtù, atteggiamenti e modi di fare, passioni pure e rovinose, azioni spregiudicate, drammi interiori e collettivi, da lui descritti in modo impareggiabile e profondo, spesso velando riferimenti all’Italia del suo tempo. In più, sempre contro la lezione di Aristotele, adoperò i cori per esprimere, in versi, le sue personali riflessioni e il suo punto di vista, tanto che questi potrebbero essere eliminati dal dramma, senza impedirne la comprensione dello sviluppo. Anche nelle antologie scolastiche, infatti, sono i cori, anziché le restanti parti delle tragedie, ad essere solitamente letti e studiati. Capita, non di rado, che gli studenti ne confondano i versi con poesie indipendenti, piuttosto che considerarli parti di opere composte, comunque, più per la lettura che per la rappresentazione a teatro.

Il conte di Carmagnola

Francesco Bussone è un contadino di Carmagnola che diventa soldato di ventura e mercenario al servizio del duca di Milano, Filippo Maria Visconti. Il_conte_di_Carmagnola_HayezLa sua abilità con le armi gli permette una brillante carriera, culminante con la nomina a conte e col matrimonio con la figlia del suo signore. L’invidia dei colleghi, la quale è sempre stata una malattia vecchia come il mondo, fa sì che questi riescano a convincere il duca a cacciarlo da Milano. Il conte di Carmagnola non si perde d’animo e va al servizio dei Veneziani, che stanno preparando la guerra ai milanesi. Valoroso in battaglia come al solito, sbaraglia le truppe meneghine a Maclodio ma non fa rincorrere, per fare prigionieri, i nemici che si erano ritirati e neppure avanza per sfruttare la vittoria. Tutto questo viene considerato un tradimento dal Senato Veneziano che, attiratolo con una scusa a Venezia, lo processa e condanna a morte. L’Autore intende dimostrare come un uomo dallo spirito nobile e generoso, giunto all’apice del successo personale e del potere, possa, poi, cadere in disgrazia, travolto dalla forza malvagia che governa il mondo, trovando, infine, conforto nella fede cristiana.

Adelchi

Ermengarda, moglie ripudiata da Carlo Magno, torna a Pavia dal padre Desiderio, re dei Longobardi. Questi, avendo invaso i territori del papato, ora alleato dei Franchi, e non avendo dato seguito all’ultimatum di Carlo, che gli intimava di ritirarsi, gli dichiara guerra. Ermengarda si reca dalla sorella badessa di un convento a Brescia. Qui, sapute delle nuove nozze del suo ancora amato Carlo, muore per il dispiacere. A questo punto, il famosissimo canto del coro, meglio noto come “La morte di Ermengarda“:

Sparsa le trecce morbide
sull’affannoso petto,
lenta le palme, e rorida
di morte il bianco aspetto,
giace la pia, col tremolo
sguardo cercando il ciel“.

(Adelchi, Atto IV, scena I, vv. 1 – 6)

Giuseppe Bezzuoli, Svenimento di Ermengarda, 1837 - Firenze, Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe

L’esercito franco, intanto, grazie alla spia di un traditore longobardo, riesce a valicare le Alpi, attraverso un passaggio non difeso, giungendo a Verona. Adelchi, il quale si era sempre opposto alla guerra, ma che niente aveva potuto contro il fermo volere del padre, viene ferito gravemente in battaglia ed è portato nella tenda di Carlo, dove si trova pure Desiderio, fatto prigioniero. Muore tra le braccia del padre.

Adelchi: “O Re de’ re tradito
da un tuo Fedel, dagli altri abbandonato!…
Vengo alla pace tua: l’anima stanca
accogli”.
Desiderio: “Ei t’ode: oh ciel! tu manchi! ed io…
In servitude a piangerti rimango“.

(Adelchi, Atto V, scena X, vv. 6-11)

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L’Adelchi è, innanzitutto, la tragedia della lotta dei personaggi contro i propri sentimenti. Bellissima la figura di Ermengarda, la quale, seppure ripudiata, vittima sacrificale della ragion di Stato, prova ancora forte e delicata passione per Carlo. Allo stesso modo, Adelchi, il quale, sottomesso alla volontà del padre, combatte, con valore, una guerra ingiusta e senza speranza di vittoria, trovandovi la morte. Chiaro è anche il contributo che Manzoni, con quest’opera, volle dare al risveglio degli italiani del Risorgimento. L’Adelchi, infatti, rappresenta il dramma di tre popoli: il longobardo in fuga, il franco vincitore, a prezzo, però, di grandi sacrifici, e l’italico, da sempre diviso, nell’illusione di poter riacquistare la libertà grazie agli stranieri i quali, invece, lo dominano ferocemente. L’indipendenza, secondo il futuro senatore del Regno d’Italia, sarebbe potuta essere conquistata soltanto se il popolo italiano si fosse unito e disposto a combattere qualunque invasore straniero.

 

 

Il conte Attilio, ritratto di un’anima frivola

 

di

Giorgio Bàrberi Squarotti

 

 

In questo saggio dedicato al conte cugino di don Rodrigo, lo studioso sottolinea il carattere giocoso e beffardo del personaggio che si presenta come “doppio” del tutto opposto al malvagio del romanzo, che invece si incaponisce nella persecuzione ai danni di Lucia per un puntiglio che sembra completamente assente nel suo compagno di stravizi (anche se, a dire il vero, è proprio Attilio a spingere don Rodrigo nella sua azione e dunque la sua responsabilità morale è forse meno lieve di quanto appaia nell’analisi citata).
G. Bàrberi Squarotti (1929-2017) è stato ordinario di Letteratura Italiana all’Università di Torino ed autore di numerosi saggi critici sui principali autori della nostra tradizione, inclusi Dante, Machiavelli, Pascoli, D’Annunzio. Esponente della scuola cattolica, ha messo in luce nei suoi studi il pessimismo di fondo di Manzoni accentuatosi dopo il romanzo, come è evidente dal titolo del libro da cui è tratto il passo seguente (“Le delusioni della letteratura”)…

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Giosuè Carducci

 

Nacque a Valdicastello, un borgo di Pietrasanta, in Versilia, quando questa, però, non era ancora famosa per i locali notturni e la movida, il 27 Luglio 1835. Trascorse l’infanzia tra prati, colline e boschi, lunghe passeggiate nel verde e le calde serate estive a giocare all’aperto col fratello e gli amichetti. Ma anche tra i libri, che il papà Michele gli faceva leggere. Michele Carducci, medico condotto e uomo di buona cultura, aveva idee liberali e non disdegnava l’azione.carducci Per questo, fu accusato di attività antigovernative e dovette trasferirsi con la famiglia a Firenze. Nella città dell’Arno Giosuè continuò i suoi studi e, nel 1853, entrò alla Scuola Normale Superiore di Pisa, laureandosi, in soli tre anni, in Filosofia e Filologia. Dopo la laurea e il primo insegnamento in un ginnasio di San Miniato, la vita gli si cominciò a presentare in tutta la sua durezza: il fratello Dante si suicidò o, molto più probabilmente, fu ammazzato involontariamente dal padre dopo una lite, e lo stesso genitore, poco dopo, forse per la disperazione, forse per il rimorso, volle volontariamente raggiungere il figlio morto. Il futuro poeta dovette farsi carico della madre e dell’altro fratello, arrangiandosi come poté. Nel 1859, sposò Elvira Menicucci e parve trovare un po’ di sollievo alla sua tristezza. L’anno successivo, ottenne la cattedra di Eloquenza italiana alla prestigiosa Università di Bologna e, anche se tra mille difficoltà e pochi soldi, si dedicò con passione all’insegnamento. Nel 1870, altre sciagure si abbatterono sulla sua vita: la morte della madre e del figlio Dante. Tentò di consolarsi, allora, con una relazione amorosa con Carolina Cristofori Piva, donna intellettualmente molto vogliosa, e si mise a far politica, candidandosi al Parlamento per le elezioni del 1876. Conobbe personalmente i sovrani, dedicò alla regina Margherita, moglie di Umberto I, l’ode Alla regina d’Italia e non perse mai occasione per lodare e celebrare la reale coppia. Nel 1890, fu nominato senatore del Regno e nel 1906, fu il primo italiano a ricevere il premio Nobel per la letteratura. Morì nel 1907.

Le opere

Per meglio comprendere l’opera di Carducci, è necessario raccontare ciò che gli capitò durante gli studi all’Università: insieme con un gruppo di colleghi, costituì la società degli 09_grAmici Pedanti, una sorta di accademia in cui si riunivano poeti o quanti ambivano ad esserlo, che avevano la poesia del romanticismo sulle scatole. Di più, ne erano proprio oppositori! Contro Manzoni, contro gli scapigliati, contro la poesia moderna, essi predicavano un ritorno al classicismo, alle forme di una volta. La maggior parte della produzione poetica di Carducci, quindi, è proprio orientata in questo senso: classicismo, classicismo, classicismo! Effettivamente, questo rigore nel suo modo di verseggiare si mostra bene già soltanto guardando un suo ritratto: il volto austero, lo sguardo severo, sembra sempre arrabbiato, senza ridere mai, pronto a sgridare. Certo, i suoi alunni dovettero sudarseli i bei voti, pare che non mettesse mai più di 6 e ben volentieri meno di 5. A scuola, poi, lo chiamavamo il mietitore, perché a fine anno falciava con le bocciature che era un piacere, anzi, un dispiacere, per chi ci incappava.

Nella sua prima raccolta di versi, “Juvenilia” (cose di gioventù), i modelli poetici antichi sono ben riconoscibili, per lui che si definì “lo scudiero dei classici”.

“Qual sovra la profonda
pace del glauco pelago
uscì Venere, e l’onda
accese e l’aer e l’isole,
quando al ciel le divine
luci alzò raccogliendo il molle crine;

(“Juvenilia”, Canto di primavera, vv. 1 – 6)

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A questa, seguì il florilegio intitolato “Levia Gravia” (cose leggere e cose pesanti), che, però, non è l’apice della sua creatività. Poi, “Giambi ed Epodi“, la raccolta delle polemiche, dove, ispirandosi alla satira del poeta greco antico Archiloco e a quella del latino Orazio, distribuisce la sua dose di rimbrotti a tutte quelle cose le quali, secondo lui, non vanno affatto bene. Le “Rime nuove” invece, contiene alcune tra le sue più belle e famose liriche. Il poeta è ormai maturo, ha un proprio stile e la consapevolezza di essere riconosciuto come grande verseggiatore. Questa, di seguito, è “Pianto antico“, dedicata del figlioletto Dante, morto di tifo a soli tre anni:

L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior,

nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita
estremo unico fior.

Sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor“.

Le “Odi barbare” sono il curioso tentativo dell’Autore di riproporre i metri della poesia classica, adattati a quelli della poesia italiana. Il titolo gli venne in mente pensando a come le sue odi sarebbero state giudicate dagli antichi greci e latini, barbare, appunto. Non soddisfatto di queste prima serie di “barbarie”, ne volle comporre ancora e le inserì, insieme ad altri versi, nella raccolta “Rime e Ritmi“.

“La nebbia a gl’irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l’aspro odor de i vini
l’anime a rallegrar.
Gira su’ ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l’uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,

com’esuli pensieri,
nel vespero migrar.

(“Rime e Ritmi”, San Martino)

nebbia

Quando frequentavo la quarta elementare, ricordo di aver passato un intero pomeriggio ad imparare a memoria questa poesia, di essermi svegliato un’ora prima la mattina dopo per ripassarla e, comunque, di aver pianto davanti alla maestra perché non la rammentavo tutta. Ho sempre odiato il dover imparare le cose a memoria. Che utilità c’è a conoscere il testo di una poesia senza, poi, riconoscerne e capirne i temi? Questo vorrei chiederlo al professor Carducci. Chissà cosa mi risponderebbe!

 

 

Qualche breve considerazione sulla lingua italiana e quella napoletana, suscitatami da alcune domande di un amico

 

 

Perché l’italiano è diventato la lingua ufficiale dell’Italia dopo l’Unità? C’entra qualcosa Alessandro Manzoni?

L’italiano che noi parliamo oggi non è una derivazione del “volgare” usato da Manzoni (lui già scriveva in italiano), ma, piuttosto, della lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio, raffinatasi, però, nei secoli. Sono state alcune delle opere letterarie, scritte nella lingua che si parlava a downloadFirenze nel ‘300 (lingua che non era dissimile da quelle parlate in tutte le zone d’Italia in quel periodo, proprio perché, anche i dialetti italici, derivavano comunque dal latino), a far diffondere quella lingua attraverso la lettura delle opere con cui erano state scritte. La lingua italiana si è diffusa grazie alla lettura di opere come la Divina Commedia, Il Canzoniere o il Decameron. Non solo i contenuti, quindi, ma anche la stessa forma! Ecco un esempio per mostrare come una lingua acquisti dignità e si diffonda attraverso le opere scritte con essa: Dante Alighieri, da uomo di cultura appassionato di poesia, nel De Vulgari Eloquentia, un’opera tutta sulle lingue, scrisse questo della lingua siciliana: “Indagheremo per primo la natura del siciliano, poiché vediamo che il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri: ché tutto quanto gli Italici producono in fatto di poesia si chiama siciliano”. Il Sommo Poeta scrisse questo perché, all’epoca sua, i sonetti dei poeti della cosiddetta scuola siciliana (quelli raccolti intorno alla corte di Federico II, a Palermo) erano famosi e letti in tutta Italia. Anzi, sulla scorta delle poesie dei siciliani, proprio in Toscana, fiorirono, prima, i cosiddetti poeti siculo-toscani, e, poi, gli stilnovisti, cui Dante stesso, in gioventù. Se non ci fossero stati i poeti siciliani, probabilmente Dante non avrebbe sentito parlare nemmeno della lingua siciliana. È come se dicessi: conosco William Wallace solo perché ho visto il film Braveheart, famoso e diffuso in tutto il mondo, non perché io sia stato in Scozia o abbia studiato la sua storia! Ecco, pertanto, cosa è successo: grandi opere sono state scritte in una variante geografica dell’italiano (il fiorentino del ‘300); queste si sono diffuse perché belle e interessanti; a partire dal ‘500 molti letterati, tra cui Pietro Bembo, grazie a queste opere cominciarono a occuparsi di questioni di lingua, indicando quella di Petrarca specialmente, come la lingua (italiana) più pura e da adottarsi, prima nella comunità dei dotti, e, poi, come lingua di tutta la Penisola (i tentativi di unire l’Italia, almeno dal punto di vista linguistico, sono cominciati molto prima dei Savoia); da un lato i dotti, dall’altro il popolo, pian piano fecero sì che la comunicazione, scritta e orale, si uniformasse ad un unico registro linguistico, comprensibile da tutti, dalle Alpi alla Sicilia.

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E Alessandro Manzoni?

Manzoni compì soltanto un’operazione volta a purificare, dal suo punto di vista, l’italiano che si parlava nella prima metà dell’Ottocento. Lo scrittore milanese non elevò alcunché manzoni-01a lingua nazionale, raffinò soltanto quella parlata correntemente. Poi, si inventò la storiella di essere andato a sciacquare i panni in Arno, cioè, metaforicamente, di aver purificato la lingua italiana, facendola tornare alle origini, quelle fiorentine, per i motivi legati alle opere famose prodotte in fiorentino, di cui ho scritto sopra (anche la lingua, come i territori che, poi, sarebbero diventati Regno d’Italia, è stata sottoposta alle numerosissime dominazioni straniere, che hanno inevitabilmente lasciato tracce della loro lingua nell’italiano. Per questo Manzoni volle purificarla).

A proposito della nostra lingua napoletana?

Per quanto riguarda il napoletano, esso è una vera e propria lingua, oggi riconosciuta anche dall’UNESCO, che ha la stessa origine dell’italiano (dal latino) e che, come l’italiano, viene definito “idioma romanzo” (le mie pagine ti saranno d’aiuto a comprendere. Quando le leggerai, puoi riferire al napoletano tutte le caratteristiche e gli sconvolgimenti di cui io parlo a proposito dell’italiano). Quindi, tra italiano e napoletano, nessuna lingua è precedente all’altra. Sono, in definitiva, due varianti del latino che si parlavano in zone geograficamente contigue e, dunque, simili tra loro. Per quanto riguarda il glorioso Regno delle Due Sicilie, la lingua ufficiale, o, meglio, le lingue ufficiali, erano il napoletano, parlato a nord dello stretto di Messina, e il siciliano, che si parlava al di là dello stretto (il siciliano ha caratteristiche “storiche” simili al napoletano ed è anch’esso una lingua).

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L’Illuminismo a Milano: Il Caffè, Pietro Verri, Alessandro Verri e Cesare Beccaria

 

Il Caffè

Questa rivista, uscita in settantaquattro numeri, uno ogni dieci giorni, tra il giugno 1764 e il maggio 1766, raccolse intorno a sé i maggiori intellettuali dell’Illuminismo milanese. Fondata da Pietro Verri, ad essa facevano capo i membri dell’Accademia dei Pugni, società culturale tra i cui soci sarebbero stati annoverati anche Primo Carnera, Nino Benvenuti, Patrizio Oliva e caffe-201x300Agostino Cardamone (scherzo!), e così chiamata a causa dell’epilogo molto animato delle riunioni: scazzottate degne di Bud Spencer e Terence Hill. Gli articoli, tutti molto interessanti e riguardanti gli argomenti più vari e di interesse pubblico, ebbero le firme prestigiose di Pietro e Alessandro Verri, Cesare Beccaria, Pietro Secchi, Paolo Frisi, per citare i più autorevoli. Il comitato di redazione decise di rivolgersi ad un pubblico nuovo di lettori, non solo sapientoni e letterati, ma anche gente comune, piccoli professionisti, artigiani e donne. Questa fu una grande novità perché permise al sapere di uscire dalla torre d’avorio, dove, per secoli, era stato confinato, e di mettersi al servizio di tutti, secondo quel precetto tipicamente illuminista dell’uso intelligente della conoscenza per migliorare la società. Nei quattro fogli del Caffè, infatti, si poteva leggere tutto quello che era di interesse pubblico, dal commercio all’economia, dalla medicina all’agricoltura, dalla sanità alla politica.

Pietro Verri

Figlio del conte Gabriele e di Barbara Dati, nacque a Milano il 12 dicembre 1728. Il padre, col quale non ebbe mai un buon rapporto, fu molto severo, tanto da farlo studiare presso i collegi più terribili di Milano e provincia, esperienze che segnarono profondamente l’animo del giovane Pietro.Pietro_Verri Al ritorno in famiglia, i litigi col babbo ripresero più forti di prima, fino alla rottura definitiva, quando divenne l’amante di Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni, moglie del duca Gabrio Serbelloni, gente molto in vista a Milano. Fu scandalo e il conte Gabriele, un alto funzionario del governo milanese, per lo scorno quasi non usciva più di casa. La relazione con la duchessa, donna molto colta e chic, instillò nel giovanotto la passione per il teatro e per la cultura francese, oltre che la voluttà nell’alcova. Il ménage con l’aristocratica amante, però, dopo qualche anno finì, lasciandolo così male da decidere di darsi alla vita militare, andando a combattere come ufficiale dell’esercito austriaco contro i prussiani. Al rientro a Milano fondò, col fratello Alessandro e i “pugili” della citata Accademia, Il Caffé e, allo stesso tempo, prese lavoro nell’amministrazione pubblica austriaca del capoluogo lombardo. A questi anni risale la composizione delle sue opere principali: le Meditazioni sull’economia politica, il Discorso sull’indole del piacere e del dolore, le Osservazioni sulla tortura, e i Ricordi a mia figlia, scritto per la figlioletta Teresa, nata proprio poche settimane prima. Posso dire con (quasi) certezza che, senza Pietro Verri e i suoi instancabili sforzi per la cultura e la sua diffusione, l’Illuminismo milanese sarebbe stato molto meno luminoso.

Alessandro Verri

Fratello minore di Pietro, nacque nel 1741 e fu più furbo del maggiore perché, per non farsi ammorbare oltremodo dal padre, molto presto, fece i bagagli e, dopo aver collaborato al Caffè, se ne andò Alessandro_Verria Parigi e Londra e, poi, a Roma, dove visse fino alla morte, nel 1816. Appassionato di teatro e lui stesso attore per diletto, fu uno dei primi a tradurre le opere di Shakespeare in italiano. Scrisse anche due romanzi, le Avventure di Saffo poetessa di Mitilene e la Vita di Erostrato. Avendo vissuto così tanto tempo lontano da Milano, pian piano, abbandonò lo spirito illuminista che aveva caratterizzato la prima fase della sua vita e ripiegò su visioni un po’ più cupe dell’esistenza, che saranno, poi, determinanti nel Romanticismo. Ne è prova una sua opera, le Notti romane al sepolcro degli Scipioni, scritto che compose in occasione del ritrovamento archeologico delle sepolture di quest’importante famiglia della Roma antica, in cui figura, che dalle tombe escano le ombre di romani illustri per discutere della grandezza e della rovina dell’impero più potente della Terra.

Cesare Beccaria

Il marchese Beccaria nacque a Milano nel 1738. Come Pietro Verri ebbe grosse e dure litigate con i genitori, a causa di una donna che, però, non era  moglie di un nobile conosciutissimo, quanto una ragazza di famiglia povera, Teresa Blasco, che lui amò tantissimo e che, grazie Cesare_Beccaria_in_Dei_delitti_cropanche all’aiuto proprio del Verri, il quale mediò con i suoi parenti, riuscì a sposare. Oltre ai contributi giornalistici al Caffè, Beccaria fece due cose importanti nella vita: la prima, diede i natali alla figlia Giulia, la futura madre di Alessandro Manzoni, e la seconda, scrisse Dei delitti e delle pene, un saggio che ebbe un successo esagerato in tutta Europa, tanto da farlo diventare l’idolo di molti dei filosofi dell’Illuminismo francese, in particolare di Voltaire. In questo trattato, colmo di spirito illuminista, Beccaria sostiene l’abolizione della pena di morte perché, a suo avviso, questa non fa né diminuire i crimini, né è buona come deterrente. “È più utile prevenire i delitti mostrando la certezza della pena – scrive l’autore – perché, per un criminale, è meglio morire che passare la vita in galera. Ma quando un ergastolano scappa dal carcere e mette in pericolo la vita dei cittadini, allora può essere messo a morte.” Questo libro dovrebbe rappresentare un articolo fondamentale della Costituzione di molti paesi del mondo, i quali, ahimè, evidentemente, ancora non hanno ancora visto o sentito parlare di Illuminismo.