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La scena del vuoto

Esistenza e identità nel “teatro dell’assurdo”

 

 

 

 

Il teatro dell’assurdo, emerso tra gli anni ’40 e ’60 del Novecento, è una delle espressioni artistiche più radicali del disincanto moderno. Non si tratta semplicemente di una corrente estetica, ma di un vero e proprio punto di rottura con la tradizione teatrale e con l’idea che l’esistenza umana sia dotata di senso, coerenza e finalità. Sotto la superficie surreale, grottesca o comica dei suoi testi, si muove un pensiero profondamente filosofico, che affonda le radici nell’esistenzialismo, nel nichilismo e nel pensiero tragico.
Alla base del teatro dell’assurdo c’è una constatazione: l’uomo moderno si trova in un mondo che non risponde più alle sue domande fondamentali. Non c’è più Dio, né una verità oggettiva, né un destino superiore a cui affidarsi. Il soggetto è solo, in un universo che non offre garanzie. Questa visione riprende direttamente l’idea di assurdo formulata da Albert Camus, secondo cui l’assurdo nasce dal confronto tra il bisogno umano di chiarezza e di senso e il silenzio irragionevole del mondo.
In Aspettando Godot di Samuel Beckett, Vladimir ed Estragon aspettano un personaggio che non arriverà mai. Non sanno esattamente chi sia, perché lo aspettano, né se lo abbiano già incontrato. Eppure, aspettano. Il tempo si dilata, si ripete, si svuota. Ma proprio in questo nulla si consuma il dramma dell’uomo moderno: la consapevolezza dell’assurdo non lo paralizza, lo condanna a insistere, a fallire ancora, fallire meglio.
Un’altra implicazione filosofica centrale è la crisi del linguaggio. I dialoghi nei testi dell’assurdo non servono a comunicare o trasmettere informazioni ma diventano flussi disconnessi, ripetitivi, meccanici. I personaggi spesso parlano per riempire il vuoto, per evitare il silenzio, non per capirsi. Questo riflette una visione post-strutturalista ante litteram: il linguaggio non è un mezzo neutro ma una struttura opaca, instabile, che può anche deformare la realtà invece di chiarirla.

In La cantatrice calva di Eugène Ionesco, i dialoghi degenerano in puro nonsenso. Frasi scollegate, automatismi verbali, giochi fonetici: tutto denuncia la perdita di contatto tra parole e cose. Questo si può leggere come una critica radicale alla fiducia illuminista nella razionalità e nella comunicazione. L’assurdo mostra un mondo in cui le parole non salvano, non ordinano, non spiegano.
Il teatro dell’assurdo mette in scena personaggi privi di una psicologia solida, senza storia personale, senza futuro. Spesso non hanno nemmeno un nome stabile. Questo rompe con la tradizione del personaggio “realistico” e porta alla luce una concezione postmoderna dell’identità: l’io come costruzione fragile, frammentata, fluida.
In Fin de partie di Beckett, Hamm e Clov vivono in uno spazio chiuso, isolati dal mondo, ripetendo gesti e battute come prigionieri di un copione. Non c’è evoluzione, non c’è catarsi. I personaggi non cambiano ma reiterano. Questo sottintende una visione disillusa della soggettività: non siamo padroni del nostro destino, ma attori intrappolati in ruoli, maschere, automatismi.
Nel teatro classico o borghese, l’azione teatrale è orientata: c’è un conflitto, uno sviluppo, una risoluzione. Nell’assurdo, invece, le azioni non portano a nulla. Si fanno e si disfano. Si mangia, si aspetta, si parla, si dorme, si ripete. Ma non si arriva da nessuna parte. Questo svuotamento dell’agire rappresenta una critica implicita al mito moderno del progresso e dell’efficienza. Tuttavia, proprio in questo vuoto, si apre uno spazio etico. L’insistenza dei personaggi, il loro “andare avanti” nonostante tutto, ricorda l’eroismo tragico di Sisifo, condannato a spingere il masso per l’eternità. Camus scrisse: “Bisogna immaginare Sisifo felice”. Allo stesso modo, i personaggi dell’assurdo trovano una forma di dignità nell’ostinazione. Continuano, resistono. Nonostante l’assenza di senso, scelgono la presenza.
Il teatro dell’assurdo non è solo critica o provocazione, ma anche analisi di una condizione metafisica. Lo spazio scenico è spesso spoglio, astratto, simile a una zona d’attesa, una terra di nessuno. Il tempo è ciclico o sospeso. Il corpo è disarticolato, a volte ridicolo. Tutto questo contribuisce a creare un senso di sospensione ontologica: siamo, ma non sappiamo perché. Ci muoviamo, ma non andiamo da nessuna parte. Il teatro dell’assurdo, quindi, non è tanto un teatro del nichilismo, quanto un teatro della domanda. Non offre risposte, ma costringe lo spettatore a confrontarsi con il vuoto, con il limite, con l’inspiegabile. E in questo confronto, paradossalmente, si produce pensiero.
Il teatro dell’assurdo è una delle forme più spietate e oneste di riflessione sulla condizione umana contemporanea. Attraverso il silenzio, il fallimento, il non-senso, mette a nudo l’inquietudine metafisica dell’uomo moderno. Non consola, non redime, ma espone. E proprio in questo gesto – crudo, ironico, lucido – risiede la sua potenza filosofica.