Federico II di Svevia
In un articolo precedente (leggi) avevo trattato la poetica della Scuola siciliana, riservandomi, successivamente, di illustrarvene i poeti. Detto fatto! Cominciamo dal più importante di essi, almeno dal punto di vista della carica: el padrino, per quelli che hanno vissuto sulla Luna negli ultimi vent’anni, il capo, il boss di tutta quanta la baracca, el magíco, il señor Pablo Es…scusate, ho rivisto il film “Blow” proprio qualche giorno fa!, l’imperatore Federico II di Svevia. È inutile che io, qui, mi dilunghi a descrivere la figura e il valore storico di quest’uomo, anche perché, non basterebbero duecento pagine. Dico soltanto che, se i coevi lo chiamarono Stupor mundi, certamente non era l’ultimo arrivato. Tutt’altro! Federico parlava correntemente almeno cinque lingue, scrisse un trattato sulla caccia col falcone, De arte venandi cum avibus (L’arte di cacciare con gli uccelli), la prima, vera opera, redatta in Occidente, su questo particolare argomento, elaborata con rigore scientifico e basata sull’esperienza e sulle numerose osservazioni, fatte personalmente in trent’anni, e componeva versi. Eccone alcuni:
Poi ch’a voi piace, amore,
che eo degia trovare,
faronde mia possanza
ch’io vegna a compimento.
(“Poi c’a voi piace, amore“, vv. 1-4)
Omo c’è posto in alto signoragio
e in riccheze abunda, tosto scende,
credendo fermo stare in signoria.
Unde non salti troppo omo ch’è sagio,
per grande alteze che ventura prende,
ma tuttora mantegna cortesia.
(“Misura, providenzia e meritanza“, vv. 9-14)
Giacomo da Lentini
Il “notaro”, come fu soprannominato, poi, dai poeti toscani, fu un funzionario imperiale, poiché la sua attività è documentata, alla corte di Palermo, per almeno un quindicennio. Fu proprio lui a inventare il sonetto, il componimento rimato tipicamente siciliano, e aveva l’aria di essere il caposcuola di tutti i poeti di corte. Scrisse sonetti e canzonette, circa trenta. A lui si deve anche la fissazione dei canoni della poesia siciliana, di cui ho già parlato nell’articolo precedente.
Amor è un desio che ven da core
per abondanza di gran piacimento;
e li occhi in prima generan l’amore
e lo core li dà nutricamento.
(“Amor è un desio che ven da core“, vv. 1-4)
Giacomo, in sostanza, vuol significare che possiamo sì infatuarci di una donna, pur non avendola mai vista, ma l’amore vero e la passione nascono da altro: sono gli occhi, in definitiva, ad accendere il cuore! Se non si è mai vista in faccia una donna, è difficile che ci si possa innamorare davvero di lei, soprattutto perché potrebbe essere brutta. Effettivamente, ha ragione. Sentite cosa mi è capitato qualche anno fa: chiesi alla sorella di un mio collega se avesse avuto qualche amica da presentarmi, perché in quel periodo mi sentivo solo. Lei mi disse di sì e per una decina di giorni mi parlò, senza posa, di questa ragazza, di quanto fosse bella, descrivendomela in tutti i particolari, e ripetendomi, fino allo stremo, che fosse tanto dolce e delicata e che desiderasse avere un fidanzato. Non avendola mai vista, dopo quanto mi era stato raccontato, presi quasi una cotta per questa bellissima “idea”. Giunse, finalmente, il giorno del nostro primo appuntamento (pure quello mi era stato combinato!): ci saremmo dovuti incontrare in un bar. Quella sera, la piazza dove si trovava il locale, fortunatamente, era piena di gente. Quando arrivai e, da lontano, la intravidi accanto alla mia amica, scappai. Qualche minuto dopo, telefonai il mio collega chiedendogli di avvisare la sorella che avevo avuto un problema alla macchina ed ero rimasto per strada. Se prima di quell’incontro avessi potuto vedere almeno una foto di questa descritta Venere del Botticelli, quella sera sarei andato, direttamente, con i miei amici a bere una birra!
Pier delle Vigne
La pianta dalla quale Dante, nella selva dei suicidi, all’Inferno (Canto XIII, vv. 31 e sgg), spezzò un ramoscello secco, e che, lamentandosi, così gli parlò: “Ma che cosa stai facendo? Non vedi che mi fai male!”, racchiudeva l’anima di Pier delle Vigne, consigliere di Federico II, logoteta, cioè ordinatore di parole e documenti, poeta, morto suicida a causa dell’invidia delle malelingue infami, le quali, non solo gli fecero fare una figuraccia con la sua signora, ma lo inguaiarono seriamente davanti all’imperatore. Per la cronaca (giudiziaria), nacque a Capua, studiò diritto a Bologna e trovò lavoro alla corte di Palermo. Un brutto giorno, senza alcuna spiegazione, fu fatto arrestare e accecare, per tradimento, dall’imperatore in persona. In carcere si ammazzò, fracassandosi la testa contro il muro. Prima di questa tragedia personale, comunque, aveva vissuto anni felici, componendo canzoni e sonetti per le donne palermitane.
Amor, in cui disio ed ho speranza,
di voi, bella, mi ha dato guiderdone;
guardomi infin che venga la speranza,
pur aspettando bon tempo e stagione;
com’om ch’è in mare ed à spene di gire,
quando vede lo tempo ed ello spanna
e già mai la speranza no lo ‘nganna,
così faccio, madonna, in voi venire.
(“Amor, in cui disio ed ho speranza“, vv. 1-8)
Stefano Protonotaro
Messinese, prestò servizio alla corte sveva. Il protonotaro, infatti, era quel magistrato preposto al controllo dei notai, addetti alla redazione degli atti della cancelleria del re. Servì anche il successore di Federico, il figlio Manfredi, per il quale tradusse, dal greco in latino, due trattati arabi di astronomia.
Pir meu cori alligrari,
chi multu longiamenti
senza alligranza e joí d’amuri è statu
mi ritornu in cantari,
ca forsi levimenti
da dimuranza turniria in usatu
di lu troppu taciri;
e quandu l’omu ha rasuni di diri,
ben di’ cantari e mustrari alligranza,
ca senza dimustranza
joi siria sempri di pocu valuri
dunca ben di’ cantar onni amaduri.
(“Pir meu cori alligrari“, vv. 1-12)
Questa canzone è un documento importantissimo perché è l’unico componimento ad esserci pervenuto nella lingua che si parlava, a Palermo e dintorni, nel XIII secolo. Questi versi di Stefano Protonotaro, infatti, sono diversi da quelli degli altri poeti siciliani che avete letto sinora, quasi fossero in un’altra lingua, perché questi ultimi ci sono giunti attraverso codici toscani, trascritti o, meglio, tradotti in lingua toscana, da chi compilò, settecento anni fa, le prime antologie della poesia italiana.
Guido delle Colonne
Forse concittadino del Protonotaro o, forse, romano, giudice e funzionario di corte, ebbe l’onore, insieme con Giacomo da Lentini, di finire nel De vulgari eloquentia di Dante (Libro 2, cap. V), celebrato come sommo tra i poeti di Federico. Scrisse una Historia destructionis Troiae (Storia della distruzione di Troia) imitando, anzi, quasi traducendo, il Roman de Troie, e cinque canzoni molto elaborate dal punto di vista metrico, nelle quali cantò che, nonostante le inevitabili delusioni, l’amore fosse sempre una gioia senza fine.
Ma più deggio laudari
Voi, donna caunoscente
donde lo meo cor sente
la gioi che mai non fina.
(“Gioiosamente canto“, vv. 41-44)
Cielo d’Alcamo
Ultimo di questa sequenza, ma non certo per importanza, è l’autore del più famoso componimento di tutta la Scuola Siciliana: il contrasto (dialogo poetico, serio o giocoso, tra persone reali o immaginarie) intitolato Rosa fresca aulentissima. Cielo, che per alcuni fu Ciullo, diminutivo di Vincenzullo, e per altri Cheli, diminutivo di Michele, nacque, forse, ad Alcamo, in provincia di Trapani. Come si chiamasse veramente, non è che a noi interessi più di tanto, quanto, invece, ciò che scrisse: il notissimo contrasto, appunto. Trentadue strofe di cinque versi ciascuna, tutte richieste, preghiere, suppliche e necessità di un giullare, il quale, evidentemente, era abbastanza ingrifato, ad una giovane donna, la quale, all’inizio faceva la preziosa e, poi, dopo aver forse fatto due conti, gli concesse la caramellina. Per convincerla, il menestrello gliele diceva di tutti i colori, promettendole amore eterno e giurandole che l’avrebbe seguita in convento, se si fosse monacata, o in fondo al mare, se si fosse annegata di proposito. La fresca signorina, la quale, dal canto suo, non era stupida e, sotto sotto, c’aveva voglia pure lei, gli rispose: “È inutile che le spari così grosse, picciottu meu! Non ci sono riusciti conti, cavalieri, giudici e marchesi, mo’ arrivi tu beddo beddo e vulissi cùogghiri il frutticieddo da lu meu iardinu?” Ma chi la dura la vince e, alla fine, dopo aver fatto giurare all’uomo sul Vangelo che non l’avrebbe mai tradita, gli disse:
Meo sire, poi juràstimi, eo tutta quanta incenno.
Sono a la tua presenzia, da voi non mi difenno.
S’eo minespreso àjoti, merzé, a voi m’arenno
A lo letto ne gimo a la bon’ora
ché chissà cosa n’è data in ventura.
(“Rosa fresca aulentissima“, vv. 156-160)
(“Mio signore, dopo che hai giurato, sono tutta quanta un fuoco! Sono qui, dinanzi a te, e mi arrendo alle vostre richieste. Se prima ti ho maltrattato, chiedo perdono e mi arrendo. Andiamo a letto, finalmente, perché questo è il nostro destino!”). E menomale che sono solo gli uomini a pensare sempre alla stessa cosa! Cielo fornisce una rappresentazione del rapporto amoroso che va ben al di là di quella che avevano dato i suoi amici poeti. Ma l’amore è anche questo, o no?
Tutti gli altri rimatori siciliani
Tra i poeti meno conosciuti, ricordiamoci di Giacomino Pugliese, non siciliano, ma trevigiano (perché quel cognome, allora?), autore di sette canzoni e canzonette, almeno quelle che ci sono giunte, verseggiatore dallo stile semplice e immediato. Rinaldo d’Aquino, forse fratello di San Tommaso. Mazzeo di Riccio, il terzo di Messina, la città dei poeti e, infine, Jacopo Mostacci, falconiere ufficiale di Federico, il quale, come vedete, li fece diventare poeti proprio tutti. Il grande imperatore morì nel 1250, lasciando il Regno di Sicilia al figlio Manfredi (immagine a destra). Questi, fu un sovrano generoso e continuò la politica culturale del padre, accogliendo a corte, oltre agli amati poeti, anche scienziati e artisti. Papa Urbano IV, però, lungi dal farsi gli affari suoi, come, del resto, non avevano fatto i suoi predecessori e non faranno nemmeno i suoi successori, lo scomunicò e, addirittura, bandì una vera e propria crociata contro di lui, forte dell’appoggio di Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX di Francia. Quando, poi, il pontefice cadde nel sonno eterno, ci pensò il subentrante Clemente IV a continuare l’opera. Nel 1266, a Benevento, contro le truppe dell’Angiò, Manfredi perse la battaglia, la corona e pure la vita. Con la morte del figlio di Federico II, il regno svevo andò in pezzi e finì pure la poesia, che non aveva più quella sua amata corte di Palermo per esprimersi.