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La favola della botte

L’audace satira di Jonathan Swift

 

 

 

 

La favola della botte (A Tale of a Tub) è una delle opere satiriche più complesse e provocatorie di Jonathan Swift. Questo testo, utilizzando uno stile ironico e una struttura frammentaria che mescola narrazione, parodia e digressioni, costituisce un attacco feroce alla corruzione religiosa e intellettuale del suo tempo. L’opera, fin dalla sua pubblicazione, suscitò grande scalpore, attirando su Swift accuse di empietà e minando la sua carriera ecclesiastica. Tuttavia, proprio questa sua audacia e l’abilità con cui l’autore gioca con il linguaggio e le idee l’hanno resa un capolavoro della letteratura satirica. La stesura de La favola della botte ebbe inizio tra il 1694 e il 1697, durante il periodo in cui Swift lavorava come segretario di Sir William Temple a Moor Park. In quegli anni, l’autore sviluppò una profonda avversione per l’ipocrisia religiosa e per le pretese intellettuali di filosofi e studiosi della sua epoca, sentimenti cristallizzatisi nel libro. Dopo alcuni anni di riflessione e revisione, Swift decise di pubblicare il libro nel 1704, in forma anonima, insieme a The Battle of the Books (La battaglia dei libri), un altro testo satirico in cui prendeva posizione nella disputa tra antichi e moderni, sostenendo la superiorità della tradizione classica. Nonostante l’anonimato, l’opera divenne immediatamente oggetto di discussione e polemica.
La ricezione del libro fu controversa. Se da un lato molti lo considerarono un capolavoro di satira e lo apprezzarono per la sua intelligenza e arguzia, dall’altro venne duramente attaccato per il suo atteggiamento irriverente nei confronti delle istituzioni religiose. Le accuse di blasfemia perseguitarono Swift per anni e condizionarono negativamente la sua carriera ecclesiastica, tanto che egli stesso cercò in seguito di minimizzare il significato dell’opera per evitare ulteriori ripercussioni.
La favola della botte si articola in una narrazione principale, affiancata da una serie di digressioni che interrompono e frammentano il racconto. La storia principale racconta le vicende di tre fratelli, i quali simboleggiano le tre principali confessioni cristiane dell’epoca: Pietro rappresenta la Chiesa cattolica, Giacomo incarna il protestantesimo radicale, in particolare i puritani e i calvinisti, mentre Martino rappresenta la Chiesa anglicana.

I tre fratelli ricevono in eredità dal padre, che simboleggia Dio, un cappotto, metafora della fede cristiana, con l’ordine di non modificarlo in alcun modo. Tuttavia, nel corso del tempo, ciascuno di loro interpreta il comando a modo proprio. Pietro, con il passare degli anni, inizia ad arricchire il cappotto con ornamenti e aggiunte inutili, simboleggiando così la corruzione e le sovrastrutture della Chiesa Cattolica, come il culto dei santi, le indulgenze e le dottrine elaborate nel corso dei secoli. Giacomo, invece, spinto da uno spirito di ribellione, decide di strappare via pezzi del cappotto, riducendolo quasi all’essenziale, espressione della rigidità e del rigore eccessivo del protestantesimo più estremo. Martino, a differenza dei fratelli, cerca di mantenere l’abito il più vicino possibile alla forma originale, raffigurando così la posizione moderata della Chiesa anglicana, che Swift vede come la via più equilibrata tra gli estremi del cattolicesimo e del puritanesimo.
Accanto a questa narrazione principale, il libro è arricchito da una serie di digressioni, che costituiscono una parte fondamentale della satira di Swift. Attraverso queste diversioni, l’autore attacca le pretese intellettuali dei filosofi, degli scienziati, dei critici letterari e dei teologi, smascherando la loro superficialità e il loro desiderio di apparire colti e sofisticati senza possedere una reale profondità di pensiero. Le digressioni parodiano il linguaggio pomposo e le dissertazioni astratte che caratterizzavano molti scritti accademici del tempo, rendendo il libro una satira non solo della religione, ma anche del mondo della cultura e del sapere.
La favola della botte è una delle opere più significative di Swift perché riesce a fondere magistralmente satira religiosa, politica e letteraria in un unico testo. Il suo linguaggio arguto e la struttura volutamente caotica riflettono l’intento di smascherare le incoerenze e le ipocrisie della società del suo tempo. La critica alla religione organizzata e alla presunzione intellettuale è tanto tagliente quanto innovativa, e il suo impatto si è fatto sentire ben oltre il XVIII secolo. Nonostante le polemiche e i problemi che ne derivarono per Swift, il libro rimane un capolavoro della letteratura satirica inglese, un esempio brillante della capacità dell’autore di usare l’ironia come strumento per mettere a nudo i difetti della società. Ancora oggi, La favola della botte è studiata e apprezzata per la sua originalità e per la sua straordinaria capacità di mescolare critica e umorismo in un’opera unica nel suo genere.

 

 

 

 

Il conte Attilio, ritratto di un’anima frivola

 

di

Giorgio Bàrberi Squarotti

 

 

In questo saggio dedicato al conte cugino di don Rodrigo, lo studioso sottolinea il carattere giocoso e beffardo del personaggio che si presenta come “doppio” del tutto opposto al malvagio del romanzo, che invece si incaponisce nella persecuzione ai danni di Lucia per un puntiglio che sembra completamente assente nel suo compagno di stravizi (anche se, a dire il vero, è proprio Attilio a spingere don Rodrigo nella sua azione e dunque la sua responsabilità morale è forse meno lieve di quanto appaia nell’analisi citata).
G. Bàrberi Squarotti (1929-2017) è stato ordinario di Letteratura Italiana all’Università di Torino ed autore di numerosi saggi critici sui principali autori della nostra tradizione, inclusi Dante, Machiavelli, Pascoli, D’Annunzio. Esponente della scuola cattolica, ha messo in luce nei suoi studi il pessimismo di fondo di Manzoni accentuatosi dopo il romanzo, come è evidente dal titolo del libro da cui è tratto il passo seguente (“Le delusioni della letteratura”)…

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L’effimero e la poesia crepuscolare

 

 

Effimero è qualcosa di fugace e passeggero. E’ ciò che è fragile nel suo essere nel tempo. La sua attrattiva e la sua bellezza, quella che seduce e che si vorrebbe poter fissare, trova la propria ragion d’essere nell’incostanza. Nella mancanza di continuità. Nella negazione dell’eternità e, persino, nella deliberata rinunzia all’Assoluto. Proprio lì, in quell’attimo di non perpetuo, guido_gozzanodavanti alla vacuità del tempo, saltano gli schemi, i piani e tutte le certezze. Si annullano le distinzioni e le consuetudini. Si mandano all’aria le regole. Si sovverte lo status quo ante. I poeti crepuscolari, Guido Gozzano (immagine a destra) (1883-1916), Corrado Govoni (1885-1965), Tito Marrone (1882-1967) e Sergio Corazzini (1886-1907), massimi cantori dell’effimero nella storia della Letteratura italiana, dopo la stagione della poesia celebrativa di Giosuè Carducci e dell’estetismo superomistico di Gabriele D’Annunzio, con il mito del poeta, come animatore della storia e creatore delle forze del futuro, avevano ripiegato su temi e movimenti più semplici, declinanti, smorzati e quasi spenti. Il loro verso si presenta privo di qualsiasi ornamento e fluttua libero dal peso della tradizione formalistica. Tutto è accomunato dal bisogno del compianto e della confessione, nonché da una sorta di rimpianto pascoliano per un tempo che non c’è più e che diviene, giocoforza, fonte di perenne insoddisfazione: un’insoddisfazione che non si trasforma, giammai, in ribellione, piuttosto in rifugio dell’anima. La poesia crepuscolare evoca la tristezza e canta la coscienza infelice, la musica raminga, le canzoni d’amore del tempo perduto, le suppellettili che sanno di polvere, le luci soffuse nelle chiese, dove le candele si consumano lente, gli autunni nostalgici, fatti di addii e, persino, le primavere disadorne, senza alberi in fiore e senza profumi di vita rinnovata. Un lirismo della malinconia, la cui bellezza diventa canto dell’illusione. Quell’illusione che, seppure concepita in un momento di entusiasmo o di disperazione, si trasforma, poi, in verità, in realtà, disvelando, come un lampo improvviso, i misteri più nascosti, gli abissi più cupi della natura, i rapporti più lontani e segreti, le cause più inaspettate e remote, le astrazioni più sublimi, nei confronti delle quali la poetessa, paziente tessitrice di stati dell’animo, per dirla leopardianamente: “si affatica indarno per tutta la vita, a forza di analisi e di sintesi”.

 

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Quantunque la bellezza brilli,
essa cade. Così
in questo mondo chi
potrebbe essere in eterno?
Valicando oggi
le profonde valli dell’esistenza
non farò più vani sogni
né mai più m’illuderò!”.

Così, il monaco buddhista giapponese Kobo Daishi, vissuto tra l’ottavo e il nono secolo d. C., medita sulla fugacità della bellezza. “Cosa bella e mortal passa e non dura”, scrive Francesco Petrarca nel sonetto 248 del “Canzoniere”. E Molière, nel terzo atto della commedia “Le donne sapienti”, ricorda come “La bellezza del viso è un fragile ornamento, un fiore che appassisce presto, il bagliore di un istante”. Il bardo immortale William Shakespeare, in “Sogno di una notte di mezza estate”, si presenta sulla stessa lunghezza d’onda: “Tanto presto, quel che risplende è pronto a sparire”. Riecheggia anche “La canzone di Marinella” di Fabrizio De André: “E come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno, come le rose”. Non valgono patti faustiani con il demonio, oppure trasferimenti wildiani su tavole dipinte! La parola diviene tutto quello che resta. “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”, recita l’excipit del romanzo di Umberto Eco, “Il nome della rosa”. La rosa, che era, ora esiste solo nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi! Nomi, parole, versi, specula dell’ispirazione poetica, cifre del vissuto dei poeti crepuscolari, pendoli silenti che oscillano tra la realtà e l’immaginazione, tra l’illusione e il disincanto.

 

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