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Standard&Poor’s: gli effetti del Grexit in Eurozona

 

Lo scorso 29 giugno, l’agenzia di rating Standard&Poor’s ha abbassato il rating di lungo periodo della Grecia da CCC a CCC-. La decisione, spiegano, è il diretto risultato di un’accresciuta probabilità che il Paese rinunci alla moneta unica, stimata al 50%, dopo che il Governo greco ha rifiutato Standard-and-Poorstutte le proposte dei creditori e indetto, oggi, domenica 5 luglio, un referendum per demandare al popolo la decisione ultima. Come noto, le indicazioni del Governo sono di votare “OXI” (no). S&P ha recentemente pubblicato un documento in cui cerca di stimare quali sarebbero gli effetti di un abbandono greco della moneta unica. Per gli analisti, le conseguenze sarebbero disastrose per l’economia ellenica, per le sue banche e per tutte le imprese non finanziarie. La Grecia perderebbe definitivamente l’accesso ai finanziamenti della BCE, il ché creerebbe una grave carenza di valuta estera per i settori pubblico e privato. Senza il supporto dell’Eurosistema, il quale, secondo le analisi di S&P attualmente supera il 70% del PIL, il sistema di pagamenti della Grecia crollerebbe e le sue banche non sarebbero più in grado di funzionare. Inoltre, il debito pubblico e privato, denominato fino ad ora in euro, vedrebbe il suo valore nominale aumentato, una volta convertito nella nuova moneta. Tuttavia, la società di rating vede come contenibile il rischio di contagio del Grexit. L’attuale situazione è molto diversa rispetto al 2012, quando la Grecia diventò una preoccupazione diretta: tutti i membri della zona euro (periferia compresa), oggi, infatti, sono più solidi, sia economicamente sia strutturalmente, e la BCE ha finalmente intrapreso un programma di QE (leggi articolo). Le reazioni dei mercati all’inadempienza della Grecia nei confronti del FMI e alla scadenza del programma di aggiustamento UE, sembrano confermare questo punto di vista. Ma, avvertono gli analisti, se la Grecia uscisse dalla moneta unica, sarà stato dimostrato che qualsiasi paese potrebbe rinunciare alla sua permanenza nell’unione monetaria e ciò metterebbe anche in discussione tutte le ipotesi alla base di più di vent’anni di politica e di politica economica. Una strada pericolosa che potrebbe innescare conseguenze a lungo termine, difficili da prevedere. I mercati, ad esempio, potrebbero sollevare dubbi circa gli accordi istituzionali vigenti in Europa, circa il ruolo dei creditori ufficiali e l’efficacia dei controlli UE sull’applicazione dei programmi di sostegno finanziario. L’ambiente macroeconomico potrebbe diventare meno prevedibile, aumenterebbero le controversie legali e l’impegno stesso per la moneta unica potrebbe essere messo in discussione, aggravando la già fragile situazione economica della regione europea. A livello politico, invece, il Grexit accrescerebbe i dubbi circa l’impegno di rafforzare l’intera architettura alla base dell’Unione Europea. imagesAnche se, dalle parti di S&P, ritengono che i partiti anti UE perderanno molto consenso dopo che i costi sociali ed economici greci si saranno manifestati. Reputano, pertanto, che l’uscita della Grecia dall’Euro sia un evento unico nel suo genere, che potrebbe portare, nel lungo termine, notevoli danni, in tema di coesione politica, in Europa. In base alle simulazioni Standard&Poor’s e Oxford Economics, l’impatto economico complessivo del Grexit sarebbe grave per la Grecia, ma più contenuto per il resto della zona Euro. Le ipotesi chiave per condurre lo studio sono state:

  • la Grecia abbandona la zona Euro il 1° luglio 2015;
  • la Grecia torna alla Dracma. I mercati spingono la moneta sotto il suo tasso di pre-conversione, GDR340/€1, fino a GDR540/€1 nel 4° trimestre;
  • la Grecia fallisce e taglia il suo debito pubblico da 314 Mld€ a 164 Mld€. I restanti membri dell’Eurozona “fanno buone” le perdite della BCE e incrementano il loro debito;
  • un enorme shock di fiducia colpisce l’economia greca, pari a quattro volte l’impatto che sperimentò con la caduta della Lehman;
  • il Grexit richiede alla BCE di rispondere in modo aggressivo, anticipando i piani del QE nel quadrimestre immediatamente successivo al default.

Poiché la Grecia è una piccola economia e tradizionalmente più chiusa rispetto alle altre del blocco europeo, gli effetti commerciali diretti di una sua uscita sarebbero ridotti per le altre economie. Escludendo Cipro (19% di esportazioni verso la Grecia, nel 2013), solo due economie esportano più del 2% del loro totale verso Atene: Macedonia (4,2%) e Malta (3,3%). Eurozone Real GDPAnche ipotizzando un crollo delle importazioni greche del 50% l’anno dopo la sua uscita, questo avrebbe un impatto limitato su Germania, Francia e Italia, stimato tra -0,3% e -0,5% sulla domanda totale di esportazioni, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tale calo ridurrebbe il PIL dei tre paesi tra lo 0,2% e lo 0,3% (grafico  a sinistra). L’effetto principale, in particolar modo sui Paesi periferici (quelli economicamente più deboli), si avrebbe, però, attraverso il mercato dei capitali. La simulazione condotta suggerisce che, data la percezione della revocabilità dell’adesione all’Euro, la conseguenza più significativa potrebbe essere quella di reintrodurre un premio per rischio di cambio valutario sui rendimenti Germany 10y Yieldobbligazionari di tutta la regione europea. Il contagio, in tal senso, può causare un picco di rendimenti, soprattutto per quelle economie percepite più deboli dai mercati (cfr. grafici a destra e sottostante). Il programma di QE sarebbe in grado di limitare il rialzo dei rendimenti, ma è probabile che un premio per il rischio di valuta resti in modo permanente. Nell’esercizio, l’aumento dei costi di finanziamento per la zona Euro nel suo complesso, nel periodo 2015/2016, si assesterebbe a circa 30 Mld€, ma l’aumento non sarà distribuito uniformemente. Sarà l’Italia a sostenerne il peso maggiore, con un incremento di 11 Mld€. S&P stima, dunque, un maggior costo del rifinanziamento dei debiti pubblici di 30 Mld€ complessivi per l’intera area e di 11 Mld€ per l’Italia. Italy 10y YieldMa la cifra potrebbe essere sovrastimata: per il calcolo, S&P avrebbe ipotizzato che i tassi dei Btp decennali salgano di 120 b.p., dall’attuale 2,3% al 3,5%. Ma per arrivare a 11 Mld€ di maggiori oneri sul debito nei due anni, sarebbe necessario applicare l’aumento a tutte le emissioni del 2015 e del 2016 (programmate per un totale di 420 miliardi l’anno), e anche immaginare che i titoli a tasso variabile facciano registrare un incremento allineato. La stima dimenticherebbe, però, che il 63% delle emissioni di Btp decennali nel 2015 è già stato realizzato: restano da emettere meno di 200 miliardi. E tralascerebbe che i titoli con tassi variabili sono indicizzati all’Euribor. Insomma: il conto dell’uscita della Grecia dalla moneta unica potrebbe non essere così salato come Standard&Poor’s immagina.

Giuseppe De Simone

 

 

Debito pubblico, Europa e monetizzazione

 

Tra i tanti problemi che attanagliano l’economia italiana ormai da decenni, un ruolo predominante è rivestito dall’enorme debito pubblico. Accumulato già a partire dagli anni ’80, quando si consumò il divorzio tra Tesoro e Palazzo Koch, la sua genesi storica mostra come ne siano state determinanti per la crescita il basso gettito fiscale e gli alti costi di remunerazione del capitale preso in prestito. Alla radice del problema, poi, non bisogna dimenticare l’evasione fiscale e la scarsa competitività del sistema produttivo italiano, come dimostrato da anni di deficit commerciale. Senza una forte crescita del PIL, ridurre l’onere del debito risulta operazione assai ardua. Come qualsiasi debitore in crisi, anche lo Stato ha due possibili vie d’uscita: l’austerity o il ripudio del debito dichiarando il default. Cattura12Quali sarebbero, dunque, le conseguenze di un fallimento sovrano? Il debito pubblico italiano è detenuto dalle banche e da altri intermediari finanziari italiani (circa il 35%), dalle famiglie italiane (circa il 13%), dagli investitori esteri (circa il 30%) e, infine, dalla BCE e dalla Banca d’Italia (10%). Rinnegarlo oggi, quindi, comporterebbe l’impoverimento di una buona parte dell’economia. La prima conseguenza di un default sarebbe il collasso del sistema finanziario (in quanto le banche si troverebbero con un patrimonio netto negativo), che si riverserebbe, poi, drammaticamente, sull’economia reale. Indagando i dati relativi a cento crisi sistemiche, si osserva come il PIL della nazione che ripudia il debito cala tra il 10% e il 35% e sono necessari, mediamente, 8 anni per ritornare ai livelli ante crisi. Alla luce di ciò, si discute sul serio di come questa possa essere una possibilità concreta per l’Italia? Il nostro Paese è già in una perdurante crisi finanziaria e aggiungervi un default sul debito sovrano spingerebbe ancor di più verso il baratro quel che resta della nostra economia. Da tempo, nel dibattito europeo si dibatteva dell’opportunità di una terza via: la monetizzazione del debito pubblico. gAnche la BCE con il suo QE, nonostante abbia dovuto cedere sulla ripartizione delle responsabilità, sembra muoversi nella stessa direzione seguita, in passato, dalla Bank of England, dalla Bank of Japan e dalla FED (foto a destra)  Interessante, soprattutto, il caso giapponese, che presenta molte analogie con la nostra condizione, tant’è che da molti l’Italia è vista come il possibile Giappone europeo. Il Paese nipponico ha vissuto vent’anni di stagnazione e deflazione, fin quando, nel 2013, il nuovo premier Shinzo Abe ha nominato governatore della Bank of Japan Haruhiko Kuroda il quale ha immediatamente annunciato un piano di quantitative and qualitative easing (QQE), che, combinato con le altre politiche giapponesi, sembra stia dando i suoi frutti su molti fronti. L’inflazione è salita all’1,5% e “inaspettatamente” anche l’economia si è rimessa in moto, posizionando nuovamente il Giappone fra le economie più performanti del globo. Premettendo che buona parte dei problemi europei e di paesi come l’Italia sono dovuti anche, e soprattutto, a difficoltà strutturali e, dunque, non solo alle politiche eccessivamente restrittive della BCE del governatore Mario Draghi (foto a lato), le evidenze mostrano come le politiche espansive si siano rilevate più efficienti, in un’ottica di crescita e di occupazione. La disoccupazione, negli Stati Uniti, ad esempio, è calata dal 12% al 6,7% e sembra che, su 4 milioni di nuovi posti di lavoro creati dal settore privato in America, tra il 2009 e il 2012, la metà siano la conseguenza delle azioni della Banca Centrale e delle politiche di deficit spending del Governo. Finalmente anche la BCE ha deciso di agire dal lato dell’offerta di moneta, finalmente… Anche se con colpevole ritardo. Attendiamo ora le risposte dei Governi.

 Giuseppe De Simone