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L’amore come ascesa, vincolo e potenza

Un viaggio filosofico tra sapienza, divino e destino

 

 

 

 

L’amore è una delle forze più profonde e misteriose dell’esperienza umana e nel corso della storia della filosofia ha assunto significati diversi, riflettendo le concezioni metafisiche, etiche e antropologiche di ciascun pensatore. Da Socrate e Platone, che lo intesero come un’aspirazione al sapere e alla bellezza assoluta, fino a Nietzsche, che lo reinterpretò come espressione della volontà di potenza, l’amore è stato al centro della riflessione filosofica, rivelando la sua complessità e la sua capacità di trasformare l’individuo e la realtà che lo circonda.
Socrate non ha lasciato scritti propri, ma la sua concezione dell’amore è stata tramandata principalmente attraverso i dialoghi di Platone, in particolare nel Simposio. Qui, il filosofo ateniese riferisce gli insegnamenti ricevuti dalla sacerdotessa Diotima di Mantinea, secondo cui l’amore non è un dio, bensì un daimon, un essere intermedio tra il mondo umano e quello divino. L’amore, dunque, non possiede né la bellezza né la sapienza, ma le desidera, ed è proprio in questa mancanza che risiede la sua essenza. Per Socrate, l’amore nasce dalla tensione verso ciò che non si possiede e si manifesta come un’incessante ricerca della bellezza e della conoscenza. Il desiderio amoroso non si esaurisce nell’attrazione fisica, ma si sviluppa in un percorso di elevazione interiore che porta l’anima a rivolgersi a forme di bellezza sempre più elevate, fino alla contemplazione del bello in sé. In questo senso, l’amore è il motore della filosofia stessa, poiché solo attraverso la passione per la verità e il desiderio di conoscere si può raggiungere la vera saggezza.
Platone, ereditando e sviluppando la visione socratica, concepisce l’amore come un processo di elevazione spirituale. Nel Simposio, descrive un percorso che parte dall’attrazione per la bellezza fisica per poi trascendere verso livelli superiori di amore: dapprima il desiderio si volge alla bellezza morale e intellettuale, poi alla bellezza delle istituzioni e delle leggi, e infine alla contemplazione dell’Idea del Bello assoluto. Questa ascesa, nota come la “scala di Diotima”, mostra come l’amore, pur avendo origine nel desiderio sensibile, debba essere purificato e sublimato fino a raggiungere la sfera metafisica delle Idee. In Fedro, Platone rafforza questa concezione attraverso il mito dell’auriga, in cui l’anima è paragonata a un carro trainato da due cavalli, uno bianco e uno nero. Il cavallo nero rappresenta le passioni e gli istinti, mentre il cavallo bianco simboleggia l’impulso verso il divino. L’amore è la forza che spinge l’anima a librarsi verso il mondo intelligibile, ma solo se l’individuo riesce a dominare i suoi impulsi più bassi e a orientare il desiderio verso la verità eterna.

Aristotele si discosta dalla visione platonica e interpreta l’amore in termini più concreti e terreni, considerandolo soprattutto nella forma dell’amicizia (philia). Nell’Etica Nicomachea, distingue tra tre tipi di amicizia: quella fondata sull’utile, quella basata sul piacere e quella basata sulla virtù. Le prime due forme sono accidentali e transitorie, mentre la terza è la più elevata, poiché si basa sulla stima reciproca e sulla condivisione della vita secondo il principio della giustizia e del bene comune. L’amicizia virtuosa, secondo Aristotele, è il fondamento della vita sociale e della realizzazione personale. L’uomo è un essere naturalmente incline alla relazione e trova nella compagnia degli altri la sua piena realizzazione. Diversamente da Platone, Aristotele non concepisce l’amore come un mezzo per ascendere a una realtà trascendente, ma come un elemento essenziale per una vita felice e ben vissuta, in cui la condivisione e il rispetto reciproco costituiscono il fondamento di ogni legame autentico.
Sant’Agostino introduce una prospettiva teologica nell’analisi dell’amore, distinguendo tra l’amor Dei, che è rivolto a Dio, e l’amor sui et mundi, che è l’amore egoistico per sé e per le cose terrene. Nel suo cammino spirituale, descritto nelle Confessioni, Agostino racconta come inizialmente fosse stato dominato da un amore sensuale e disordinato, ma che solo l’incontro con Dio gli avesse permesso di comprendere il vero significato dell’amore. In La Città di Dio, Agostino oppone la civitas Dei, fondata sull’amore divino e sulla carità, alla civitas terrena, che si basa sull’amore di sé e sul desiderio di dominio. L’amore terreno, se non ordinato in funzione dell’amore per Dio, diventa una forma di idolatria e conduce alla corruzione morale. Solo chi ama Dio sopra ogni cosa può raggiungere la vera felicità, poiché in Lui si trova la pienezza dell’essere e del bene.
Marsilio Ficino, influenzato dal neoplatonismo e dalla tradizione cristiana, concepisce l’amore come un principio cosmico che unisce tutte le cose e spinge l’anima a tornare alla sua origine divina. Nel De Amore, descrive l’amore come un’energia spirituale che eleva l’individuo dal mondo materiale a quello divino, in un processo di purificazione e ascesi. La bellezza fisica è solo un riflesso della bellezza celeste e il vero amore consiste nella capacità di riconoscere questa realtà superiore e di orientare il desiderio verso di essa.
Giordano Bruno sviluppa una visione radicale dell’amore, interpretandolo come una forza cosmica che permea l’intero universo. In De gli eroici furori, l’amore è una tensione eroica verso l’infinito, un desiderio che spinge l’anima oltre i limiti imposti dalle convenzioni religiose e sociali. Per Bruno, l’universo stesso è pervaso d’amore, che si manifesta come un’energia creatrice e dinamica, capace di trasformare l’uomo in un essere libero e illuminato.
Nietzsche critica aspramente le concezioni tradizionali dell’amore, soprattutto quelle platoniche e cristiane, vedendole come espressioni di debolezza e negazione della vita. L’amore, per lui, è un aspetto della volontà di potenza, ovvero della spinta creatrice e affermativa dell’individuo. In Così parlò Zarathustra, l’amore altruistico è spesso una maschera per l’istinto di dominio, mentre il vero amore è quello che afferma la vita nella sua interezza, senza rinnegare la forza e la passione.
Dalla tensione verso il sapere di Socrate e Platone all’amicizia virtuosa di Aristotele, dall’amore divino di Agostino alla forza cosmica di Bruno, fino alla volontà di potenza di Nietzsche, l’amore si rivela come un concetto poliedrico, che attraversa la storia della filosofia trasformandosi e adattandosi alle diverse visioni del mondo.

 

 

 

 

Le tragedie di Alessandro Manzoni

 

 

 

 

Manzoni 4Alessandro Manzoni, universalmente noto per aver scritto i Promessi Sposi, è stato anche autore di tragedie, che hanno rivoluzionato la struttura classica di questo particolare genere teatrale. Il letterato milanese avrebbe fatto molto arrabbiare Aristotele, massima autorità del campo, se quest’ultimo avesse potuto leggere le sue due opere drammatiche, “Il conte di Carmagnola” (1820) e “Adelchi” (1822), perché, in esse, le unità di tempo, di luogo e d’azione, come teorizzate dal filosofo greco nella Poetica e sulle quali era strutturata la tragedia greca classica, non sono assolutamente prese in considerazione. Aristotele, infatti, sosteneva che la rappresentazione tragica dovesse svolgersi nello stesso luogo e, al massimo, in due giorni. L’esposizione degli antefatti e di altre eventuali chiarificazioni sarebbero state compito del coro che avrebbe, così, informato gli spettatori. Manzoni, in barba al Filosofo, impiega sette anni per far morire il conte di Carmagnola e tre per Adelchi; situa le azioni in campi coltivati e campi di battaglia, nel palazzo del Senato Veneto per la prima tragedia e nell’accampamento di Carlo Magno, nella reggia del re Desiderio e nel convento dove langue Ermangarda per la seconda. All’Autore, evidentemente, interessava dimostrare altro, non la sua bravura ad accordarsi ad un modello che aveva fatto scuola per più di 2000 anni, quanto dar voce a virtù, atteggiamenti e modi di fare, passioni pure e rovinose, azioni spregiudicate, drammi interiori e collettivi, da lui descritti in modo impareggiabile e profondo, spesso velando riferimenti all’Italia del suo tempo. In più, sempre contro la lezione di Aristotele, adoperò i cori per esprimere, in versi, le sue personali riflessioni e il suo punto di vista, tanto che questi potrebbero essere eliminati dal dramma, senza impedirne la comprensione dello sviluppo. Anche nelle antologie scolastiche, infatti, sono i cori, anziché le restanti parti delle tragedie, ad essere solitamente letti e studiati. Capita, non di rado, che gli studenti ne confondano i versi con poesie indipendenti, piuttosto che considerarli parti di opere composte, comunque, più per la lettura che per la rappresentazione a teatro.

Il conte di Carmagnola

Francesco Bussone è un contadino di Carmagnola che diventa soldato di ventura e mercenario al servizio del duca di Milano, Filippo Maria Visconti. Il_conte_di_Carmagnola_HayezLa sua abilità con le armi gli permette una brillante carriera, culminante con la nomina a conte e col matrimonio con la figlia del suo signore. L’invidia dei colleghi, la quale è sempre stata una malattia vecchia come il mondo, fa sì che questi riescano a convincere il duca a cacciarlo da Milano. Il conte di Carmagnola non si perde d’animo e va al servizio dei Veneziani, che stanno preparando la guerra ai milanesi. Valoroso in battaglia come al solito, sbaraglia le truppe meneghine a Maclodio ma non fa rincorrere, per fare prigionieri, i nemici che si erano ritirati e neppure avanza per sfruttare la vittoria. Tutto questo viene considerato un tradimento dal Senato Veneziano che, attiratolo con una scusa a Venezia, lo processa e condanna a morte. L’Autore intende dimostrare come un uomo dallo spirito nobile e generoso, giunto all’apice del successo personale e del potere, possa, poi, cadere in disgrazia, travolto dalla forza malvagia che governa il mondo, trovando, infine, conforto nella fede cristiana.

Adelchi

Ermengarda, moglie ripudiata da Carlo Magno, torna a Pavia dal padre Desiderio, re dei Longobardi. Questi, avendo invaso i territori del papato, ora alleato dei Franchi, e non avendo dato seguito all’ultimatum di Carlo, che gli intimava di ritirarsi, gli dichiara guerra. Ermengarda si reca dalla sorella badessa di un convento a Brescia. Qui, sapute delle nuove nozze del suo ancora amato Carlo, muore per il dispiacere. A questo punto, il famosissimo canto del coro, meglio noto come “La morte di Ermengarda“:

Sparsa le trecce morbide
sull’affannoso petto,
lenta le palme, e rorida
di morte il bianco aspetto,
giace la pia, col tremolo
sguardo cercando il ciel“.

(Adelchi, Atto IV, scena I, vv. 1 – 6)

Giuseppe Bezzuoli, Svenimento di Ermengarda, 1837 - Firenze, Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe

L’esercito franco, intanto, grazie alla spia di un traditore longobardo, riesce a valicare le Alpi, attraverso un passaggio non difeso, giungendo a Verona. Adelchi, il quale si era sempre opposto alla guerra, ma che niente aveva potuto contro il fermo volere del padre, viene ferito gravemente in battaglia ed è portato nella tenda di Carlo, dove si trova pure Desiderio, fatto prigioniero. Muore tra le braccia del padre.

Adelchi: “O Re de’ re tradito
da un tuo Fedel, dagli altri abbandonato!…
Vengo alla pace tua: l’anima stanca
accogli”.
Desiderio: “Ei t’ode: oh ciel! tu manchi! ed io…
In servitude a piangerti rimango“.

(Adelchi, Atto V, scena X, vv. 6-11)

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L’Adelchi è, innanzitutto, la tragedia della lotta dei personaggi contro i propri sentimenti. Bellissima la figura di Ermengarda, la quale, seppure ripudiata, vittima sacrificale della ragion di Stato, prova ancora forte e delicata passione per Carlo. Allo stesso modo, Adelchi, il quale, sottomesso alla volontà del padre, combatte, con valore, una guerra ingiusta e senza speranza di vittoria, trovandovi la morte. Chiaro è anche il contributo che Manzoni, con quest’opera, volle dare al risveglio degli italiani del Risorgimento. L’Adelchi, infatti, rappresenta il dramma di tre popoli: il longobardo in fuga, il franco vincitore, a prezzo, però, di grandi sacrifici, e l’italico, da sempre diviso, nell’illusione di poter riacquistare la libertà grazie agli stranieri i quali, invece, lo dominano ferocemente. L’indipendenza, secondo il futuro senatore del Regno d’Italia, sarebbe potuta essere conquistata soltanto se il popolo italiano si fosse unito e disposto a combattere qualunque invasore straniero.