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L’ordine divino e il mistero del male

Il De ordine di Agostino d’Ippona

 

 

 

 

 

Il De ordine è un’opera giovanile di Agostino, composta tra il 386 e il 387 d.C., poco prima del suo battesimo e della definitiva conversione al cristianesimo. Questo testo appartiene a un ciclo di dialoghi scritti in un momento fondamentale della vita del filosofo, quando il suo pensiero stava abbandonando le certezze del manicheismo per avvicinarsi alla filosofia neoplatonica e, infine, alla fede cristiana. L’opera affronta una delle questioni capitali della riflessione filosofica e teologica: l’esistenza di un ordine nel mondo e la relazione tra questo ordine e il problema del male. La scrittura del De ordine avvenne durante il soggiorno di Agostino nella villa di Verecondo, a Cassiciaco, una fase che rappresentò un vero e proprio ritiro spirituale e intellettuale. Insieme ad amici e discepoli, il filosofo si dedicò alla riflessione e alla discussione filosofica, adottando il metodo dialogico ispirato ai modelli platonici. Il testo si sviluppa in due libri, in cui Agostino si confronta con l’idea di ordine universale e cerca di conciliare la presenza del male con la bontà divina.
L’opera fa parte di una serie di dialoghi che includono anche il Contra Academicos, il De beata vita e i Soliloquia. In queste opere emerge il passaggio dalla pura speculazione filosofica verso una prospettiva cristiana, senza tuttavia un immediato abbandono del linguaggio e delle categorie concettuali proprie del neoplatonismo. Questo momento rappresenta una fase intermedia nella sua evoluzione intellettuale: Agostino è ancora legato agli schemi della filosofia classica, ma inizia a reinterpretarli alla luce della Rivelazione.
Uno dei temi centrali del De ordine è la convinzione che l’universo sia retto da un ordine divino, un’armonia superiore che sfugge alla percezione immediata dell’uomo. Il mondo, pur presentando apparenti disordini e ingiustizie, segue una logica provvidenziale che solo la riflessione filosofica e la fede possono riconoscere. In questo senso, Agostino sviluppa un primo tentativo di teodicea, cercando di spiegare come il male possa coesistere con la bontà di Dio senza intaccare la perfezione dell’ordine cosmico.
L’idea che il male sia parte di un disegno più grande si intreccia con la concezione della privatio boni, teoria che sarà sviluppata pienamente nelle opere successive. Secondo questa visione, il male non è una sostanza autonoma, ma una semplice privazione di bene. Questo concetto si oppone alla dottrina manichea, che invece considerava il male come una forza ontologica pari e contrapposta al bene. Nel De ordine, Agostino mostra come anche le sofferenze e le imperfezioni dell’universo abbiano una loro funzione all’interno di un progetto divino più ampio.
Un’altra questione centrale affrontata nel testo è il ruolo dell’educazione nella comprensione dell’ordine universale. Agostino sostiene che l’anima, per avvicinarsi alla verità, debba seguire un percorso di conoscenza che parte dalle discipline terrene per giungere alla contemplazione di Dio. Questo processo ricalca in parte l’idea platonica della dialettica come ascesa verso il mondo intellegibile, ma si arricchisce di una prospettiva cristiana: la conoscenza non è un fine in sé, ma un mezzo per avvicinarsi al Creatore. La gerarchia della conoscenza proposta da Agostino riprende lo schema delle arti liberali, considerate come un primo livello di apprendimento necessario per ordinare la mente e prepararla alla comprensione della verità ultima. La grammatica, la retorica, la logica, la matematica e le altre discipline non sono fini a sé stesse, ma strumenti che permettono all’uomo di affinare la ragione e ascendere alla conoscenza divina. Questa visione riflette parte del pensiero classico, in particolare delle concezioni pedagogiche platoniche e ciceroniane, ma le supera introducendo un elemento essenziale della fede cristiana: il rapporto personale con Dio come vertice della ricerca della verità.

Il De ordine mostra chiaramente l’influenza del pensiero platonico e neoplatonico, ma allo stesso tempo segna una distinzione fondamentale tra la filosofia classica e la prospettiva cristiana che Agostino sta progressivamente adottando. La convinzione che esista un ordine nel mondo e che questo ordine sia intelligibile è un’eredità diretta del platonismo, così come l’idea che la conoscenza debba avvenire attraverso un processo di ascesa dal sensibile all’intellegibile. Tuttavia, la differenza principale tra Platone e Agostino risiede nell’identificazione della realtà ultima: mentre per Platone il Bene supremo è un principio astratto e impersonale, per Agostino è un Dio personale e provvidenziale.
L’influenza di Plotino è particolarmente evidente nella concezione della realtà come gerarchica e ordinata secondo gradi di perfezione. Come il filosofo neoplatonico, Agostino vede il mondo sensibile come inferiore rispetto al mondo intellegibile e considera la conoscenza come un ritorno all’unità originaria. Tuttavia, mentre in Plotino il processo di elevazione è una risalita dell’anima verso l’Uno attraverso l’introspezione e la purificazione, in Agostino questo percorso diventa una relazione con un Dio personale che guida l’uomo con la sua grazia.
Anche la riflessione sull’ordine del cosmo si discosta da quella neoplatonica, poiché Agostino introduce la nozione di creazione ex nihilo, rifiutando la visione del mondo come un’emanazione necessaria da un principio originario. Per il cristianesimo, il mondo è stato creato liberamente da Dio e l’ordine che vi si trova è il risultato della sua volontà, non una conseguenza inevitabile di un principio metafisico astratto.
L’opera mostra, inoltre, un debito nei confronti di Cicerone e della filosofia stoica, specialmente nell’idea che tutto nell’universo segua una logica razionale e che l’uomo debba accettare la propria condizione con serenità. Tuttavia, mentre lo stoicismo proponeva una concezione dell’ordine come immanente e autosufficiente, Agostino lo subordina alla volontà di Dio, sottolineando la necessità della fede per comprenderne il senso più profondo.
Il De ordine è una testimonianza preziosa del percorso intellettuale di Agostino e del suo progressivo distacco dalla filosofia classica per abbracciare pienamente la visione cristiana della realtà. L’opera segna il passaggio da una concezione del mondo dominata dalla necessità filosofica a una visione della storia e dell’universo come frutto della libera volontà divina, un tema che diventerà centrale nel pensiero agostiniano.

 

 

 

 

 

Maggioranza e opposizione in politica

Un’analisi alla luce della dottrina dell’Io e del Non-Io di Fichte

 

 

 

La dialettica tra maggioranza e opposizione costituisce una delle dinamiche centrali del sistema democratico. Questo rapporto non è solo una questione di contrapposizione ideologica o di alternanza di potere, ma può essere interpretato attraverso un quadro filosofico più profondo. La dottrina dell’Io e del Non-Io elaborata da Johann Gottlieb Fichte offre una chiave di lettura interessante per comprendere il modo in cui queste due forze si definiscono reciprocamente e danno forma al processo politico.
Secondo Fichte, il principio fondamentale della realtà è l’Io puro, un soggetto trascendentale che si autopone come attività originaria e infinita. Tuttavia, affinché l’Io possa definirsi, deve porsi un Non-Io, un elemento esterno che rappresenta il suo limite e al contempo la condizione della sua esistenza. Questo schema dialettico può essere applicato alla politica: la maggioranza (Io) governa e si autodetermina ponendosi in relazione con l’opposizione (Non-Io), che funge da limite critico, ma anche da elemento necessario per la stessa legittimazione del potere.

Maggioranza come Io: autodeterminazione e identità politica

Nella filosofia di Fichte, l’Io assoluto è un principio attivo e autoaffermativo: esso esiste solo nella misura in cui si pone e si riconosce come attività. Analogamente, in un sistema democratico, la maggioranza politica si costituisce come tale attraverso la sua azione di governo, che implica la formulazione di un programma, la gestione del potere e la definizione delle politiche pubbliche. Tuttavia, questa identità politica non può esistere nel vuoto: essa necessita di un elemento dialettico di confronto, rappresentato dall’opposizione.
L’Io fichtiano non può essere pensato senza il Non-Io, perché è proprio il limite imposto da quest’ultimo a consentire all’Io di svilupparsi. Allo stesso modo, una maggioranza senza opposizione perderebbe la propria funzione dinamica, trasformandosi in un’entità statica e autoreferenziale. La presenza dell’opposizione costringe la maggioranza a giustificare le proprie scelte, a rispondere alle critiche e a mantenere un rapporto attivo con il corpo elettorale.
Inoltre, Fichte introduce il concetto di attività infinita dell’Io, che non può mai fermarsi, ma è costantemente in tensione verso un’autotrascendenza. Traslato nella politica, questo principio suggerisce che una maggioranza efficace non può semplicemente amministrare il potere in modo meccanico, ma deve continuamente ridefinire le proprie strategie in risposta alle sfide poste dall’opposizione e dal mutamento delle circostanze storiche.

Opposizione come Non-Io: negazione e limite costruttivo

Se la maggioranza rappresenta l’Io, allora l’opposizione incarna il Non-Io, il principio di negazione che funge da limite e da stimolo per l’evoluzione politica. Nella filosofia di Fichte, il Non-Io non è un elemento puramente passivo o distruttivo, ma è una componente essenziale del processo dialettico dell’autocoscienza. Senza un Non-Io che lo sfidi e lo delimiti, l’Io non potrebbe prendere pienamente coscienza di sé.
In politica, l’opposizione non è semplicemente una forza negativa che ostacola la maggioranza, ma una parte integrante del funzionamento democratico. Il ruolo dell’opposizione è quello di:

  • criticare le scelte della maggioranza, ponendo in evidenza i limiti e le contraddizioni;
  • offrire alternative, elaborando proposte che possano costituire un’alternativa credibile all’attuale governo;
  • rappresentare una potenziale futura maggioranza, mantenendo vivo il dibattito e permettendo una dinamica di alternanza democratica.

Nel pensiero di Fichte, l’Io e il Non-Io sono in un rapporto di opposizione reciproca, ma questa opposizione non è sterile: essa rappresenta il motore del progresso. In un sistema politico sano, il confronto tra maggioranza e opposizione non è un semplice gioco di potere, ma un meccanismo che consente lo sviluppo delle istituzioni democratiche e il miglioramento delle politiche pubbliche.

La dialettica maggioranza-opposizione come processo di autotrascendenza

Uno degli aspetti più interessanti del pensiero fichtiano è l’idea che la relazione tra Io e Non-Io non sia statica, ma costituisca un processo dinamico di sintesi. Questo si traduce in politica nel fatto che maggioranza e opposizione non sono entità rigide e immutabili, ma possono trasformarsi reciprocamente nel corso del tempo.
Quando la maggioranza decade o perde il consenso popolare, può diventare opposizione; allo stesso modo, l’opposizione può trasformarsi in maggioranza attraverso il processo elettorale. Questo continuo scambio di ruoli riflette l’attività infinita dell’Io, che in Fichte è sempre in movimento, sempre in divenire.
Dal punto di vista pratico, questa dinamica implica che:

  • la maggioranza deve essere consapevole della sua temporaneità, evitando di esercitare il potere in modo assolutistico o autoreferenziale;
  • l’opposizione deve prepararsi a governare, non limitandosi a una negazione passiva, ma costruendo progetti politici credibili;
  • il sistema democratico stesso si evolve attraverso il confronto e la sintesi tra tesi (maggioranza) e antitesi (opposizione).

In un certo senso, il concetto fichtiano di azione reciproca tra Io e Non-Io può essere visto come un’anticipazione della dialettica hegeliana di tesi, antitesi e sintesi. L’alternanza democratica tra maggioranza e opposizione rappresenta un movimento continuo che impedisce il consolidarsi di una struttura statica del potere e garantisce il progresso istituzionale.

Sintesi: verso una concezione dinamica della politica

Alla luce della filosofia di Fichte, possiamo comprendere che la politica democratica non è semplicemente un campo di battaglia tra forze contrapposte, ma un processo dialettico attraverso cui la società si autodefinisce e si sviluppa. La maggioranza esiste solo in relazione all’opposizione, e viceversa: entrambe sono elementi costitutivi della dinamica democratica.
Il pensiero fichtiano ci offre una prospettiva che va oltre la semplice lotta di potere: la dialettica Io/Non-Io applicata alla politica mostra che il conflitto tra maggioranza e opposizione è necessario e produttivo, a patto che esso si svolga in un quadro di riconoscimento reciproco.
La dottrina di Fichte, pertanto, ci insegna che la politica democratica non può essere vista come un sistema rigido di comando e obbedienza, ma come un processo vivente e dinamico, in cui il potere si definisce sempre in relazione al suo limite e in cui l’opposizione non è una semplice negazione, ma una forza attiva che contribuisce all’evoluzione del sistema stesso.

 

 

 

 

La nascita, nell’Europa medievale, delle scuole laiche
e delle Università, interpretata in maniera molto singolare

 

 

 

Tratto dal mio “La Letteratura Italiana – Dalle origini al primo Novecento”, Eurilink University Press, 2022, pp. 42-43

 

“…Verso la metà dell’XI secolo, tuttavia, qualcosa cominciò a cambiare. Qualcuno decise di mettersi in concorrenza con la Chiesa. “Perché devono essere solo loro a insegnare, a scegliere le materie e i programmi? Perché la Bibbia deve essere l’unico manuale in uso di storia, geografia, letteratura, lingua, psicologia, fisica, chimica, architettura, ingegneria, astronomia, religione e pure educazione fisica?”.
Molti uomini, allora, estranei ai ranghi ecclesiastici, quando si incontravano all’osteria, la sera, dopo cena, cominciarono a discutere di filosofia aristotelica la quale, anche attraverso le traduzioni e i commenti dei dotti arabi Avicenna e Averroè, era giunta in Occidente. Così, parla oggi, discuti domani, leggiti il libro per dopodomani, i conversanti aumentavano sempre di più. Gli osti facevano affari d’oro, perché avevano messo la consumazione obbligatoria e, quando si faceva tardi, fittavano pure qualche camera per la notte con la prima colazione compresa. La cuccagna, per i gestori di osterie e taverne, però, durò poco. Ben presto, in tanti decisero di riunirsi in luoghi più adatti alle discussioni, alla lettura e allo studio.
Ed ecco che nacquero le Università e, in due secoli, dall’XI al XIII, ne sorsero in tutta Europa. Ogni città importante aveva la propria. Vi si poteva studiare la filosofia, le lettere, il diritto e le cosiddette arti liberali, fondamento di tutta l’istruzione dei secoli precedenti: la grammatica, la retorica, la dialettica, la musica, l’astronomia, l’aritmetica e la geometria. Tutto era molto ben organizzato: gli studenti, dopo aver letto i testi consigliati dai maestri, sceglievano quale corso seguire e in che materia diventare dotti.
Essi, inoltre, erano liberi di discettare con i docenti, senza dover sostenere esami, né scritti, né orali, ma, semplicemente, confrontando il loro pensiero con quello degli antichi, come, ad esempio, Aristotele e tanti altri, e con i compagni di banco. Era, dunque, un metodo di insegnamento e apprendimento molto particolare. Se oggi fosse ancora così, molti studentelli ne approfitterebbero e non imparerebbero un bel niente…”.