La figura più caratteristica del XVIII secolo francese è forse Francois Marie Arouet anagrammato a suo modo Voltaire, il quale appartiene tanto alla filosofia che alla letteratura. Nasce a Parigi nel 1694 da famiglia borghese. Nel pensiero voltairiano, il problema etico equivale a problema politico. Voltaire, infatti…
Giacomo Paolo della Chiesa, asceso al soglio pontificio col nome di Benedetto XV, è stato il 258° papa della Chiesa Cattolica Romana. Nato a Pegli di Genova, il 21 novembre 1854, fu eletto papa nel 1914. Si adoperò con ogni sforzo, forte della esperienza diplomatica acquisita, avendo lavorato con i Segretari di Stato Mariano Rampolla e Rafael Merry del Val, per porre fine alla Prima guerra mondiale. Morì il 22 gennaio 1922.
L’Esortazione ai popoli belligeranti e ai loro capi fu redatta due mesi dopo l’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale (24 maggio 1915), che aveva comportato un ulteriore allargamento del conflitto e posto problemi inediti anche per il normale funzionamento delle attività internazionali della Santa Sede. Il papa non si rivolse più, come nella consolidata tradizione diplomatica vaticana, soltanto ai capi di Stato, ma anche, direttamente, all’opinione pubblica di diversi Paesi. L’Esortazione esordì tratteggiando, a tinte cupissime, il quadro dell’Europa in guerra. Il pontefice rimarcò il fatto che le sue prime parole, quando era stato eletto, rivolte alle Nazioni e ai loro reggitori, erano state di pace, di amore e di invocazione alla divina Provvidenza, affinché illuminasse i governanti e facesse loro decidere di cessare il conflitto. Sarebbero stati responsabili di ciò, dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini. La ricchezza che Dio aveva fornito alle loro terre, avrebbe permesso loro di continuare la guerra, ma a quale prezzo? Era convinzione di Benedetto XV che il conflitto non potesse risolversi senza la violenza. Sarebbe stato necessario deporre il mutuo proposito di distruzione. Le Nazioni non sarebbero morte: seppure umiliate e oppresse portavano frementi il giogo loro imposto, preparando la riscossa e trasmettendo, di generazione in generazione, un retaggio di odio e di vendetta (parole profetiche queste, visto quanto sarebbe accaduto alla Germania, la quale, offesa e schiacciata dal Trattato di Versailles, favorì l’ascesa al potere di Adolf Hitler e lo scoppio della Seconda guerra mondiale). Il papa propose alcune sue idee per porre fine alla guerra: la considerazione dei diritti e delle giuste aspirazioni dei popoli, iniziando uno scambio diretto e indiretto di vedute, allo scopo di tener conto di quei diritti e di quelle aspirazioni. L’equilibrio del mondo e la tranquillità delle Nazioni, secondo il pontefice, si fondavano molto di più sulla mutua benevolenza e sul rispetto dei diritti altrui, che su una moltitudine di fortezze e di armi. Il titolo originale della Nota ai capi dei popoli belligeranti, dell’1 agosto 1917, era in francese: Dès le début (Dall’inizio). E’ stato il documento più noto di Benedetto XV e, al momento della sua pubblicazione, suscitò grande scalpore e reazioni contrastanti. Accolto favorevolmente dai fedeli cattolici di tutta Europa e dalla gente comune, stanca e avvilita per i quattro anni trascorsi di guerra, suscitò diffidenza e ostilità esplicita nei comandi militari e nelle cancellerie dei Paesi di entrambi gli schieramenti. All’inizio della nota, il pontefice rimarcò come, sin dal principio del suo pontificato (3 settembre 1914), si era proposto di mantenere la Chiesa nell’imparzialità, di adoperarsi per fare a tutti il maggior bene possibile, senza distinzione di nazionalità o religione, di mettere in atto quanto realizzabile per far cessare la guerra, inducendo i popoli e i loro governanti ad impegnarsi per una pace giusta e duratura. Gli appelli, però, non furono ascoltati e, dal momento della incoronazione papale, altri tre terribili anni di guerra travagliarono il mondo. Il papa formulò, altresì, proposte concrete e pratiche, invitando i governi dei popoli belligeranti ad accordarsi su principi che sembrassero essere i capisaldi di una pace giusta e duratura, lasciando, poi, ad essi di precisarli e completarli (da qui, l’ostilità dei comandi militari dei governi belligeranti, che videro ciò come una fastidiosa ingerenza). La forza materiale delle armi sarebbe dovuta essere sostituita dalla forza morale del diritto. Bisognava trovare un giusto accordo tra tutti, riguardo la simultanea e reciproca diminuzione degli armamenti, secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura necessaria al mantenimento dell’ordine pubblico nei singoli Stati e, in sostituzione delle armi, affidarsi all’istituto dell’arbitrato, con la sua alta funzione pacificatrice, conformemente a norme da predisporre. Stabilito così l’impero del diritto, si sarebbero eliminati gli ostacoli alle vie di comunicazione dei popoli con la vera libertà e comunanza dei mari: il che, avrebbe eliminato molteplici cause di conflitto e aperto per tutti, nuovi fronti di prosperità e di progresso. I danni di guerra sarebbero dovuti essere interamente e reciprocamente condonati, visti gli immensi benefici del disarmo. Infine, i territori occupati, sarebbero dovuti essere restituiti, altrimenti questi accordi pacifici, con tutti i vantaggi che ne derivavano, non sarebbero stati possibili. Per quanto riguardava le questioni territoriali, come quelle che sussistevano tra l’Italia, e l’Austria, tra la Germania e la Francia, nella regione dell’Armenia e in quella dei Balcani, di fronte ai vantaggi di una pace duratura con disarmo, le parti in causa avrebbero dovuto esaminarle con spirito conciliante, tenendo conto, nella misura di ciò che era giusto e possibile, delle aspirazioni di popoli, e coordinando i propri interessi a quelli comuni dei popoli. Su queste basi, il pontefice riteneva dovesse poggiare il futuro assetto dei popoli. Per questo, si rivolse ai governanti dei paesi belligeranti, sui quali, a suo giudizio, gravava la responsabilità della felicità dei popoli, che essi avevano il dovere di procurare. Sul piano diplomatico, i tentativi di Benedetto XV fallirono, ma rafforzarono i sentimenti contrari al conflitto e confermarono il ruolo guida della Chiesa Cattolica.
AREE DI APERTO CONFLITTO DURANTE LA GUERRA FREDDA: IL PONTE AEREO DI BERLINO E LA DIVISIONE DELLA COREA
Alla fine della Seconda guerra mondiale, Berlino rappresentava il punto caldo della questione tedesca. La stessa Germania era divisa nei due blocchi, rappresentativi delle due opposte ideologie: la Germania occidentale, la cui ripresa si basava sull’economia di mercato, e la Germania orientale, sede di alcuni dei più importanti centri industriali tedeschi prebellici e paese più avanzato dell’area economica socialista, fonte di tecnologie e capacità professionali, utili per tutto il sistema. Berlino, localizzata nella Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est), risultava divisa in quattro zone, occupate una dall’URSS (Berlino Est) e le altre, site nella Berlino Ovest, dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dagli USA. Berlino Est diventò la capitale della Repubblica Democratica Tedesca, mentre Berlino Ovest, derivante dall’unione tra le zone occupate dalle forze occidentali, rappresentava un’appendice della Repubblica Federale Tedesca. Per raggiungere Berlino, dalla Germania occidentale, era necessario percorrere una strada che attraversava il territorio della Germania orientale. Il maggio del 1948 segnò l’inizio del blocco di Berlino, che durò circa un anno. Tale blocco fu esercitato dalla potenza sovietica, che controllava il movimento stradale e ferroviario di persone e di beni. Il ritiro occidentale da Berlino, tuttavia, sarebbe stato interpretato dal mondo come un segno di estrema debolezza. Per questo, gli Stati Uniti, sfoggiando la loro superiorità aerea e dimostrando l’inutilità della strategia sovietica, rifornivano Berlino Ovest con aiuti e merci aviotrasportati (ponte aereo). Il ponte aereo non fu ostacolato dall’URSS: se ciò fosse accaduto, ne sarebbe potuto nascere un incidente che avrebbe potuto aprire la strada alla Terza guerra mondiale. Fortunatamente, i contatti tra le due parti e i tentativi per risolvere la crisi non si interruppero e il ponte aereo risultò un completo successo, tecnico e psicologico, per l’Occidente, concludendosi, dopo oltre un anno, con una evidente sconfitta dei sovietici. L’impegno americano, per di più, avvantaggiò i partiti democratici, che ottennero importanti vittorie elettorali nella Germania occidentale. Negli anni a seguire, la città rimase il punto di massimo attrito tra i due blocchi e rappresentò, per gli abitanti della Germania orientale e degli altri Paesi del blocco sovietico, la porta d’ingresso verso l’Europa occidentale. L’afflusso di milioni di lavoratori, spesso altamente qualificati, dall’Est, divenne, durante gli anni ’50, motivo di sviluppo economico per la Germania occidentale e di preoccupazione per l’URSS e per tutti i Paesi satelliti. Nel 1961, la Repubblica Democratica Tedesca, per chiudere le proprie frontiere verso l’Ovest, eresse un muro che attraversava Berlino, ponendo fine, in tale maniera, al deflusso di profughi. Il 9 novembre 1989, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il governo della Germania Est annunciò che le visite a Berlino Ovest sarebbero state permesse; dopo questo annuncio una moltitudine di cittadini dell’Est si arrampicò sul muro, superandolo, per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest. La caduta del muro di Berlino aprì la strada alla riunificazione tedesca che, formalmente, si concluse il 3 ottobre 1990.
Nel secondo dopoguerra, la penisola coreana fu suddivisa tra i due blocchi, lungo il confine artificioso del 38° parallelo, in Corea del Nord, socialista, e in Corea del Sud, filoamericana. Le due parti risultarono contrapposte, in quanto, la Corea del Nord auspicava a riunificare il Paese, mentre, la Corea del Sud mirava ad una divisione, a tempo indeterminato. Il 25 giugno 1950, un contingente militare della Corea del Nord passò la frontiera e occupò tutto il territorio meridionale. Alle Nazioni Unite tale azione fu fatta passare, da parte degli USA, come un tentativo di aggressione, comportando l’intervento delle truppe ONU. Una volta respinte le truppe del Nord, oltre il 38° parallelo, le forze americane e dell’ONU oltrepassarono esse stesse la frontiera, raggiungendo quella cinese. L’intervento diretto in guerra delle truppe cinesi generò una divisione nel campo occidentale: uno schieramento favorevole al proseguimento del conflitto, l’altro al ripristino della situazione originaria. La guerra si protrasse per diversi anni, fino all’armistizio che, nel 1953, ristabilì i confini tra la Corea del Nord e la Corea del Sud, fissati nel 1945. Laguerra di Corea è stato il primo conflitto dell’era atomica, ma anche la prima guerra in cui gli statunitensi non risultarono vincitori. Da quel momento, nel continente asiatico e in quello europeo, si fissarono confini stabili tra i due blocchi. Negli Stati Uniti la lezione della Corea fu interpretata come la prova dell’aggressività dei comunisti e come dimostrazione delle difficoltà di una soluzione di forza. In tutto l’Occidente si aprì il dibattito tra i sostenitori di una linea di contenimento e quelli di una più decisa offensiva politica e militare contro l’URSS.
Lo scorso 29 giugno, l’agenzia di rating Standard&Poor’s ha abbassato il rating di lungo periodo della Grecia da CCC a CCC-. La decisione, spiegano, è il diretto risultato di un’accresciuta probabilità che il Paese rinunci alla moneta unica, stimata al 50%, dopo che il Governo greco ha rifiutato tutte le proposte dei creditori e indetto, oggi, domenica 5 luglio, un referendum per demandare al popolo la decisione ultima. Come noto, le indicazioni del Governo sono di votare “OXI” (no). S&P ha recentemente pubblicato un documento in cui cerca di stimare quali sarebbero gli effetti di un abbandono greco della moneta unica. Per gli analisti, le conseguenze sarebbero disastrose per l’economia ellenica, per le sue banche e per tutte le imprese non finanziarie. La Grecia perderebbe definitivamente l’accesso ai finanziamenti della BCE, il ché creerebbe una grave carenza di valuta estera per i settori pubblico e privato. Senza il supporto dell’Eurosistema, il quale, secondo le analisi di S&P attualmente supera il 70% del PIL, il sistema di pagamenti della Grecia crollerebbe e le sue banche non sarebbero più in grado di funzionare. Inoltre, il debito pubblico e privato, denominato fino ad ora in euro, vedrebbe il suo valore nominale aumentato, una volta convertito nella nuova moneta. Tuttavia, la società di rating vede come contenibile il rischio di contagio del Grexit. L’attuale situazione è molto diversa rispetto al 2012, quando la Grecia diventò una preoccupazione diretta: tutti i membri della zona euro (periferia compresa), oggi, infatti, sono più solidi, sia economicamente sia strutturalmente, e la BCE ha finalmente intrapreso un programma di QE (leggi articolo). Le reazioni dei mercati all’inadempienza della Grecia nei confronti del FMI e alla scadenza del programma di aggiustamento UE, sembrano confermare questo punto di vista. Ma, avvertono gli analisti, se la Grecia uscisse dalla moneta unica, sarà stato dimostrato che qualsiasi paese potrebbe rinunciare alla sua permanenza nell’unione monetaria e ciò metterebbe anche in discussione tutte le ipotesi alla base di più di vent’anni di politica e di politica economica. Una strada pericolosa che potrebbe innescare conseguenze a lungo termine, difficili da prevedere. I mercati, ad esempio, potrebbero sollevare dubbi circa gli accordi istituzionali vigenti in Europa, circa il ruolo dei creditori ufficiali e l’efficacia dei controlli UE sull’applicazione dei programmi di sostegno finanziario. L’ambiente macroeconomico potrebbe diventare meno prevedibile, aumenterebbero le controversie legali e l’impegno stesso per la moneta unica potrebbe essere messo in discussione, aggravando la già fragile situazione economica della regione europea. A livello politico, invece, il Grexit accrescerebbe i dubbi circa l’impegno di rafforzare l’intera architettura alla base dell’Unione Europea. Anche se, dalle parti di S&P, ritengono che i partiti anti UE perderanno molto consenso dopo che i costi sociali ed economici greci si saranno manifestati. Reputano, pertanto, che l’uscita della Grecia dall’Euro sia un evento unico nel suo genere, che potrebbe portare, nel lungo termine, notevoli danni, in tema di coesione politica, in Europa. In base alle simulazioni Standard&Poor’s e Oxford Economics, l’impatto economico complessivo del Grexit sarebbe grave per la Grecia, ma più contenuto per il resto della zona Euro. Le ipotesi chiave per condurre lo studio sono state:
la Grecia abbandona la zona Euro il 1° luglio 2015;
la Grecia torna alla Dracma. I mercati spingono la moneta sotto il suo tasso di pre-conversione, GDR340/€1, fino a GDR540/€1 nel 4° trimestre;
la Grecia fallisce e taglia il suo debito pubblico da 314 Mld€ a 164 Mld€. I restanti membri dell’Eurozona “fanno buone” le perdite della BCE e incrementano il loro debito;
un enorme shock di fiducia colpisce l’economia greca, pari a quattro volte l’impatto che sperimentò con la caduta della Lehman;
il Grexit richiede alla BCE di rispondere in modo aggressivo, anticipando i piani del QE nel quadrimestre immediatamente successivo al default.
Poiché la Grecia è una piccola economia e tradizionalmente più chiusa rispetto alle altre del blocco europeo, gli effetti commerciali diretti di una sua uscita sarebbero ridotti per le altre economie. Escludendo Cipro (19% di esportazioni verso la Grecia, nel 2013), solo due economie esportano più del 2% del loro totale verso Atene: Macedonia (4,2%) e Malta (3,3%). Anche ipotizzando un crollo delle importazioni greche del 50% l’anno dopo la sua uscita, questo avrebbe un impatto limitato su Germania, Francia e Italia, stimato tra -0,3% e -0,5% sulla domanda totale di esportazioni, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tale calo ridurrebbe il PIL dei tre paesi tra lo 0,2% e lo 0,3% (grafico a sinistra). L’effetto principale, in particolar modo sui Paesi periferici (quelli economicamente più deboli), si avrebbe, però, attraverso il mercato dei capitali. La simulazione condotta suggerisce che, data la percezione della revocabilità dell’adesione all’Euro, la conseguenza più significativa potrebbe essere quella di reintrodurre un premio per rischio di cambio valutario sui rendimenti obbligazionari di tutta la regione europea. Il contagio, in tal senso, può causare un picco di rendimenti, soprattutto per quelle economie percepite più deboli dai mercati (cfr. grafici a destra e sottostante). Il programma di QE sarebbe in grado di limitare il rialzo dei rendimenti, ma è probabile che un premio per il rischio di valuta resti in modo permanente. Nell’esercizio, l’aumento dei costi di finanziamento per la zona Euro nel suo complesso, nel periodo 2015/2016, si assesterebbe a circa 30 Mld€, ma l’aumento non sarà distribuito uniformemente. Sarà l’Italia a sostenerne il peso maggiore, con un incremento di 11 Mld€. S&P stima, dunque, un maggior costo del rifinanziamento dei debiti pubblici di 30 Mld€ complessivi per l’intera area e di 11 Mld€ per l’Italia. Ma la cifra potrebbe essere sovrastimata: per il calcolo, S&P avrebbe ipotizzato che i tassi dei Btp decennali salgano di 120 b.p., dall’attuale 2,3% al 3,5%. Ma per arrivare a 11 Mld€ di maggiori oneri sul debito nei due anni, sarebbe necessario applicare l’aumento a tutte le emissioni del 2015 e del 2016 (programmate per un totale di 420 miliardi l’anno), e anche immaginare che i titoli a tasso variabile facciano registrare un incremento allineato. La stima dimenticherebbe, però, che il 63% delle emissioni di Btp decennali nel 2015 è già stato realizzato: restano da emettere meno di 200 miliardi. E tralascerebbe che i titoli con tassi variabili sono indicizzati all’Euribor. Insomma: il conto dell’uscita della Grecia dalla moneta unica potrebbe non essere così salato come Standard&Poor’s immagina.
Il termine guerra fredda è stato coniato dal giornalista americano Walter Lippman per descrivere la situazione, presente a livello mondiale, in seguito all’esplosione della bomba atomica ad Hiroshima. La fine della Seconda guerra mondiale segnò il declino dell’egemonia europea sul mondo. Le due reali potenze vincitrici, ciascuna detentrice di una propria ideologia e di una propria promessa di benessere universale, risultarono essere gli USA e l’URSS, destinate a dominare gli equilibri mondiali del dopoguerra. Il modello statunitense si fondava sul capitalismo e sull’affermazione dell’economia di mercato su scala mondiale, mentre il modello di origine sovietica (socialismo), basato sulla filosofia marxista, prevedeva una lotta di classe sul piano internazionale, ovvero, uno scontro fra Paesi proletari e Paesi capitalisti. Durante il periodo degli anni ’50, noto, appunto col termine di guerra fredda, i due modelli e i relativi progetti di egemonia si fronteggiarono su scala planetaria. Si definì guerra, per la contrapposizione tra i contendenti e la mobilitazione militare sviluppatasi all’interno dei Paesi coinvolti, fredda, perché le armi prodotte e accumulate in realtà non furono utilizzate. Ciascuna delle due potenze possedeva armamenti distruttivi e sofisticati, sia convenzionali che nucleari. La competizione nell’accumulo di tali armi sostituì il loro uso effettivo e garantì il mantenimento dell’equilibrio. Tali armi, quindi, ebbero, principalmente, una funzione di dissuasione: minacciare l’avversario in modo da impedirgli qualsiasi azione aggressiva. Come affermato dal politologo francese Raymond Aron, la guerra fredda, tuttavia, vide anche l’utilizzo di altre armi: strumenti di persuasione e di sovversione. I due strumenti di persuasione furono rappresentati dalla diplomazia e dalla propaganda, basata, quest’ultima, su un uso spregiudicato dei mezzi di comunicazione di massa, tra cui la radio, e finalizzata a condizionare l’opinione pubblica dei Paesi avversari. La sovversione, invece, utilizzò strumenti clandestini, per infiltrarsi nell’area dell’avversario e minarne le capacità di controllo: ne sono esempi la CIA (agenzia americana di intelligence, cioè di spionaggio e controspionaggio), e il KGB (agenzia sovietica di spionaggio e controspionaggio, interno e internazionale). Il periodo compreso tra il 1945 e gli anni ‘70 fu contrassegnato da una situazione di mobilitazione psicologica, economica e politica, come in precedenza si era verificata solo in periodi di guerra. Nel blocco sovietico, la mobilitazione consistette in una restrizione permanente delle libertà fondamentali, al fine di contrastare la minaccia imperialista; nel blocco occidentale, invece, nell’anticomunismo, con pesanti misure repressive, che portarono all’estromissione dal pubblico impiego di tutti i sospetti simpatizzanti comunisti (una vera caccia alle streghe!) e alla repressione delle minoranze, a partire dai neri, potenzialmente sovversive. Il periodo della guerra fredda presentò diverse fasi: una prima fase di guerra fredda vera e propria, 1947 ai primi anni ‘60, una seconda fase di distensione, dagli anni ‘60 ai primi anni ’70, e una terza fase di tensione internazionale, successiva al 1973.
IL BLOCCO SOVIETICO
Nel dopoguerra, l’URSS era presente, militarmente, nei Paesi dell’Europa orientale, distrutti dalla guerra e che aveva liberato dal nazismo, ma, nello stesso tempo, rappresentava il Paese maggiormente devastato economicamente e demograficamente. Quindi, per garantire la propria sicurezza e la propria ripresa economica, creò una sfera di influenza su quei Paesi, caratterizzati da un regime analogo al socialismo. Il piano sovietico, nel periodo 1945-48, si basò sull’idea delle cosiddette democrazie popolari. I Paesi interessati non passarono direttamente al socialismo (stato a partito unico, collettivizzazione dell’agricoltura, nazionalizzazione dell’economia) ma attraversarono una fase transitoria, che vide insediarsi governi di coalizione, nei quali, il partito comunista assumeva un’influenza superiore rispetto agli altri e avviava una progressiva introduzione di elementi di socialismo. Nel 1947, tale progetto gradualistico di controllo sui Paesi orientali subì una brusca svolta, dovuta all’offerta americana di estendere ad essi gli aiuti del Piano Marshall. Questo progetto di finanziamento alla ricostruzione dei Paesi distrutti dal conflitto, interessò numerosi governi dell’Europa orientale e, in tal modo, l’egemonia economica statunitense minacciò di estendersi oltre l’Elba. Andrej Zdanov, stretto collaboratore di Stalin e presidente del Soviet supremo (organo legislativo dell’URSS) definì il Piano Marshall, durante un discorso pronunciato a Varsavia, in occasione del convegno di fondazione del Cominform (organismo che prese il posto del Comintern, cioè la Terza Internazionale), “un’arma dei disegni imperialistici americani“. Invitò, pertanto, tutti i Paesi amici dell’URSS ad opporvisi. Nello stesso 1947, si verificò un grave dissidio tra URSS e Jugoslavia, la quale mirava alla costruzione di un regime socialista autonomo e non direttamente condizionato dall’influenza sovietica. Tale contrasto comportò una rottura clamorosa nella sinistra internazionale e nelblocco sovietico. Nel blocco sovietico nacquero regimi di tipo staliniano, in Cecoslovacchia fu soppresso, nel 1948, il governo di coalizione e il leader comunista Klement Gottwald assunse la presidenza della Repubblica, guidando la trasformazione del Paese in una democrazia popolare, in cui non era previsto il pluralismo dei partiti. In altri Paesi, il regime a partito unico si impose, di fatto, salvaguardando (Polonia e Ungheria) la facciata di partiti socialdemocratici o contadini. Tra il 1948 ed il 1953, si potenziò il controllo sovietico sui Paesi satelliti dell’URSS. Sul piano economico, si assistette alla nascita del Comecon (1949), un organismo centralizzato di coordinamento, che comportò la chiusura degli scambi con l’Occidente e favorì lo sviluppo dell’URSS. Sul piano politico, ebbe luogo il processo già avvenuto in URSS: in Ungheria (processo Rajk), così come in Cecoslovacchia (processo Slansky) si effettuarono grandi purghe di comunisti, che il regime reputava eccessivamente nazionalisti. Fu, così, negata, all’interno dei partiti comunisti, qualsiasi possibilità di dibattito. Nel 1953, si verificò la prima crisi politica del blocco sovietico, pochi mesi dopo la morte di Stalin, avvenuta nel mese di marzo. La prima rivolta in cui i lavoratori manifestarono contro le proprie misere condizioni di vita, fu a Pilsen (Cecoslovacchia), seguita da Berlino Est, capitale della Germania Orientale (Repubblica Democratica Tedesca). Nel 1955, il Patto di Varsavia comportò un potenziamento delle alleanze militari tra gli stati dell’Europa orientale, nei quali la leadership sovietica tentò una sorta di liberalizzazione. Si concesse, quindi, qualche spazio a leader emergenti (Imre Nagy, in Ungheria), si ridimensionarono i capi di stato più compromessi e si intraprese una graduale riconciliazione con la Jugoslavia.
L’EUROPA NEL 1956:NATO E PATTO DI VARSAVIA. IL SISTEMA DI ALLEANZE AMERICANO
Durante gli anni ‘40 e i primi anni ’50, gli USA realizzarono un sistema di alleanze politiche, militari ed economiche, mirato a contrastare la minaccia comunista e a risolvere il problema del declino degli imperi coloniali e della trasformazione degli equilibri economici, presenti a livello mondiale. Nei primi anni del dopoguerra, gli USA diventarono il Paese-guida di uno dei due grandi blocchi, formatisi contemporaneamente durante quel periodo: il blocco sovietico e il blocco occidentale, entrambi aspiranti ad ottenere l’egemonia planetaria. A partire dal 1947, la politica di contenimento del comunismo, lanciata dal presidente Harry Truman, permise agli USA di abbandonare l’isolazionismo e fu ritenuta la più idonea a realizzare, nella migliore maniera, gli interessi economici e politici americani. Si aprì, così, una fase in cui, negli USA, politica estera e finanza si muovevano di pari passo. Il 5 giugno 1947, il Segretario di Stato americano, GeorgeMarshall, annunciò il Programma per la ripresa economica europea (ERP), destinato a fornire aiuti economici per i Paesi europei, per oltre 13 miliardi di dollari: tale Programma è conosciuto con il nome di Piano Marshall. Il piano, originariamente ideato per favorire anche l’Unione Sovietica e la sua crescente sfera di influenza, prevedeva che l’offerta di aiuto economico all’URSS fosse accompagnata da un cambio di politica, comportando, quindi, negli anni immediatamente successivi al lancio del piano, una netta rottura tra i due blocchi. Il Piano Marshall, tuttavia, non aveva soltanto un fine economico, quanto anche politico: mirava, infatti, a far crescere, all’interno dei Paesi europei, l’influenza dei gruppi politici moderati, a discapito di quelli comunisti, e auspicava di ottenere una riconciliazione con la Germania (privata della sua parte orientale). A distanza di due anni nacque un’alleanza militare tra gli USAe i Paesi Europei ad ovest di Trieste: l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO). Con la progressiva fine del colonialismo e la conseguente dissoluzione degli imperi coloniali, si temeva un allargamento della sfera di influenza sovietica. Sulla base di questa situazione, la politica degli USA prevedeva di non intervenire nelle aree di rivolta considerate meno rischiose (Nordafrica e India), di convincere Gran Bretagnae Francia ad aprire le loro aree imperiali al commercio internazionale, a potenziare la propria influenza economica e politica a livello europeo e mondiale, come in Grecia e in America Latina, unita agli USA, dal 1948, nell’Organizzazionedegli Stati Americani, e di sostenere il colonialismo nelle aree a rischio di espansione del comunismo (colonie francesi dell’Indocina). In seguito alla vittoria del comunismo in Cina, avvenuta alla fine degli anni ‘40, gli USA costruirono, in Asia orientale, un sistema di alleanze politico-militari più complesso e agguerrito di quello creato in Europa, finalizzato a contenere il comunismo. In Giappone, inizialmente occupato dalla potenza americana al fine di disarticolare le basi economiche, politiche e ideologiche del militarismo nipponico, e come forma punitiva per la guerra, si passò, dal 1948-49, durante il governatorato di Douglas MacArthur, ad una politica di incoraggiamento della ripresa economica analoga a quella prevista dal Piano Marshall. A cinque anni da Hiroshima, Giappone e USA passano da Paesi nemici a stretti partner economici e politici. In molti Paesi asiatici, attraversati dalla crisi del colonialismo, gli USA tentarono di sperimentare una soluzione analoga a quella adottata in Germania: la Corea fu divisa in una Repubblica Democratica Socialista (Nord) e in una Repubblica di Corea (Sud), fortemente sostenuta dall’aiuto economico e militare americano; il Vietnam, dopo il 1954, fu suddiviso in Repubblica Democratico-Socialista, al nord, e in uno stato filoamericano al sud; in Cina, dopo la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, a Pechino, gli USA tentarono di sostenere economicamente la Repubblica Cinese, insediatasi nell’isola di Taiwan, come unica vera rappresentante del popolo cinese. Questa politica aveva l’obbiettivo di opporre al comunismo degli stati socialisti, nati per via rivoluzionaria nei Paesi colonizzati, un sano nazionalismo asiatico, ispirato ad un modello di Stato nazionale libero (in realtà, quasi sempre dittatoriale).