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Giovanni Della Casa e il “Galateo”

 

“Amanti delle buone maniere, gente per la quale l’apparenza è tutto, voi che vi industriate per far bella figura ogniqualvolta vi troviate in compagnia di uomini e donne perbene, voi che avete a cuore l’esser composti ed educati, voi che vorreste una guida per non far la figura degli zotici quando siete invitati ad una cena di gala, aprite bene le orecchie, anzi gli occhi, e leggete con attenzione quanto segue: vi parlerò del Galateo, ovvero di quell’insieme di regole che vi permetteranno di presentare voi stessi quali degni membri della società civile civilizzata!”.

Giovanni Della Casa nacque, forse al Mugello, forse a Firenze, nel 1503. Studiò nel capoluogo toscano e a Bologna, intraprendendo, poi, la carriera ecclesiastica, dellac01l’unica che, allora come oggi, gli permise di vivere da vero signore senza far praticamente nulla. Per dar valore a questa sua scelta scrisse pure un trattatello, An uxor sit ducenda (Se sia buono prender moglie), con risposta, ovviamente, scontata. Fu arcivescovo di Benevento e nunzio apostolico a Venezia, dove se la spassò alla grande, nel suo palazzo sul Canal Grande, in cui si circondò di nobili, poeti, artisti e belle donne, da una delle quali ebbe anche un figlio, in barba dell’arcivescovato. Per fare ammenda dei suoi peccati, espiandoli, però, sulla pelle dei poveruomini, introdusse i Tribunali della Santa Inquisizione in Veneto e si occupò personalmente dei primi processi contro i protestanti. Aspirò per tutta la vita alla porpora cardinalizia, che non ottenne mai, probabilmente a causa dei suoi trascorsi troppo salottieri, festaioli e goderecci. Morì a Roma nel 1556.

Il Galateo

Data la sua vicenda esistenziale, quindi, chi meglio di quest’uomo avrebbe potuto scrivere un saggio sul comportamento da tenere in società?galateo  Quest’opera fu composta tra il 1551 e il 1556 ed ebbe immediatamente  grande successo – i “fissati” e i “vacui” esistevano già a quell’epoca! Il titolo completo è: “Trattato di Messer Giovanni Della Casa, nel quale sotto la persona d’un vecchio idiota ammaestrante un suo giovinetto, si ragiona dei modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato Galateo ovvero dei costumi“. Il titolo “Galateo” deriva dal nome del vescovo di Sessa Aurunca, Galeazzo (in latino Galatheus) Florimonte, il quale, stimata l’esperienza del Della Casa in quell’ambito, gli consigliò di scriverci un trattato. Eccovi alcune regole:

(III) Percioché non solamente non sono da fare in presenza degli uomini le cose laide o fetide o schife o stomachevoli, ma il nominarle anco si disdice; e non pure il farle et il ricordarle dispiace, ma eziandio il ridurle nella imaginazione altrui con alcuno atto suol forte noiar le persone. E perciò sconcio costume è quello di alcuni che in palese si pongono le mani in qual parte del corpo vien lor voglia. Similmente non si conviene a gentiluomo costumato apparecchiarsi alle necessità naturali nel conspetto degli uomini; né, quelle finite, rivestirsi nella loro presenza; né pure, quindi tornando, si laverà egli per mio consiglio le mani dinanzi ad onesta brigata, conciosiaché la cagione per la quale egli se le lava rappresenti nella imaginazion di coloro alcuna bruttura. E per la medesima cagione non è dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per via (come occorre alle volte) cosa stomachevole, il rivolgersi a’ compagni e mostrarla loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa puzzolente, come alcuni soglion fare con grandissima instanzia, pure accostandocela al naso e dicendo: “Deh, sentite di grazia come questo pute!” Anzi doverebbon dire: “ Non lo fiutate, percioché pute”.

(V) Dèe adunque l’uomo costumato guardarsi di non ugnersi le dita sì che la tovagliuola ne rimanga imbrattata, perciò che ella è stomachevole a vedere; et anco il fregarle al pane che egli dèe mangiare, non pare polito costume.

(VI) Per che non si dèe dire né fare cosa per la quale altri dia segno di poco amare o di poco apprezzar coloro co’ quali si dimora.

(XI) Nel favellare si pecca in molti e varii modi, e primieramente nella materia che si propone, la quale non vuole essere frivola né vile, perciò che gli uditori non vi badano e perciò non ne hanno diletto, anzi scherniscono i ragionamenti et il ragionatore insieme.

(XVIII) D’altrui né delle altrui cose non si dèe dir male, tutto che paia che a ciò si prestino in quel punto volentieri le orecchie, mediante la invidia che noi per lo più portiamo al bene et all’onore l’un dell’altro; ma poi alla fine ogniuno fugge il bue che cozza, e le persone schifano l’amicitia de’ maldicenti, facendo ragione che quello che essi dicono d’altri a noi, quello dichino di noi ad altri.

(XXX) Non si dèe alcuno spogliare, e spetialmente scalzare, in publico, cioè là dove onesta brigata sia, ché non si confà quello atto con quel luogo, e potrebbe anco avenire che quelle parti del corpo che si ricuoprono si scoprissero con vergogna di lui e di chi le vedesse.

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Nonostante il comportamento perfetto sia, in ogni caso, difficile da realizzare, a monsignor Della Casa va riconosciuto almeno il merito di aver provato a ingentilite i suoi contemporanei e quanti, nei secoli a venire, si siano accostati alla sua opera, traendone modelli da seguire per essere più chic.