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Il Triregno di Pietro Giannone

L’anatema illuminista contro il potere assoluto della Chiesa

 

 

 

 

Il Triregnum di Pietro Giannone (1676-1748) costituisce uno dei contributi più radicali alla critica dell’ingerenza ecclesiastica nella sfera politica e sociale. Giannone, noto per la sua Istoria civile del Regno di Napoli (1723), fu un pensatore illuminista anticipatore della separazione tra Stato e Chiesa e un fermo oppositore dell’assolutismo papale. Il Triregno si distingue per la sua visione sistematica del potere papale, suddiviso in tre regni: temporale, spirituale e delle coscienze, un’analisi che mostra come la Chiesa abbia costruito nel corso dei secoli un dominio articolato e pervasivo.
L’opera, scritta probabilmente negli ultimi anni di vita di Giannone, durante la sua lunga prigionia nelle carceri sabaude, non fu mai pubblicata integralmente mentre l’autore era in vita, ma circolò in ambienti intellettuali e fu recuperata successivamente. Il suo contenuto risulta estremamente innovativo per l’epoca e si pone in continuità con le grandi discussioni illuministiche sulla natura del potere e sulla necessità di limitarne gli abusi.
Il titolo stesso dell’opera rivela la tesi centrale di Giannone: il potere della Chiesa non si limita a una sfera puramente spirituale, ma si estende a un dominio triplice che incide sulla politica, sulla religione e persino sulla vita intima degli individui. L’autore suddivide l’influenza del papato in tre livelli distinti. Il regno temporale, primo livello che riguarda il controllo diretto della Chiesa sulla politica e sull’amministrazione dei territori. Giannone denuncia come il papato, con il pretesto della difesa della fede, abbia accumulato enormi ricchezze e potere, interferendo con le decisioni dei sovrani e limitando la sovranità degli Stati. Egli critica l’uso della scomunica e dell’interdetto come strumenti politici, utilizzati per piegare i governanti alla volontà della Santa Sede. Il regno spirituale, secondo livello che si riferisce al monopolio della religione da parte della Chiesa, che ha imposto un controllo assoluto sulla dottrina, sui sacramenti e sulla disciplina ecclesiastica. Giannone evidenzia come la Chiesa abbia sfruttato la religione come strumento di dominio, manipolando la teologia per legittimare il proprio potere e scoraggiando ogni forma di pensiero critico. Egli critica in particolare il dogmatismo imposto dai concili e la rigidità delle gerarchie ecclesiastiche, che ostacolano l’evoluzione della società. Il regno delle coscienze, l’ultimo e più subdolo livello del potere papale riguarda il controllo sulla sfera privata e sul pensiero individuale. Giannone analizza come la confessione obbligatoria, l’Inquisizione e l’educazione religiosa siano stati strumenti utilizzati per condizionare le credenze personali, imponendo un modello di pensiero unico e la repressione ogni forma di dissenso. Egli denuncia in particolare il potere del clero di influenzare la morale pubblica e privata, esercitando un’autorità superiore perfino a quella dello Stato.

L’autore sottolinea come questi tre “regni” siano interconnessi e si rafforzino reciprocamente: il potere temporale garantisce l’autorità per far rispettare il dominio spirituale e delle coscienze, mentre il monopolio sulla fede e sulla morale giustifica l’invadenza della Chiesa nella politica e nelle istituzioni civili.
Giannone scrisse il Triregno in un’epoca in cui il dibattito sul rapporto tra potere religioso e potere civile era particolarmente acceso. Il Settecento fu un periodo di forti tensioni tra il papato e i monarchi europei, che cercavano di limitare l’influenza della Chiesa nei loro territori. In particolare, i regni di Napoli, Spagna e Francia furono teatro di riforme giurisdizionaliste, volte a riaffermare l’autonomia dello Stato dalla Santa Sede. Nel Regno di Napoli, Giannone si inserì in questa corrente di pensiero, sostenendo la necessità di abolire i privilegi del clero e di riformare la giustizia per renderla indipendente dall’autorità ecclesiastica. La sua Istoria civile del Regno di Napoli aveva già suscitato l’ira della Chiesa per la sua denuncia delle usurpazioni del potere statale da parte del papato. A causa delle sue idee, Giannone fu costretto all’esilio e trascorse il resto della sua vita in fuga e in prigionia. Il Triregno rappresenta il culmine della sua riflessione politica e religiosa: in esso, egli non si limita a denunciare le ingerenze della Chiesa, ma propone una visione laica del potere, anticipando molte delle idee che si svilupperanno con l’Illuminismo e le rivoluzioni del XVIII e XIX secolo.
Sebbene meno noto rispetto ad altre opere settecentesche, il Triregno è un testo di grande valore per la storia del pensiero politico e religioso. La sua analisi del potere papale come sistema articolato e oppressivo risulta ancora attuale nella riflessione sulla laicità dello Stato e sulla separazione tra politica e religione.
L’opera di Giannone influenzò il pensiero di altri intellettuali illuministi e anticlericali, contribuendo alla formazione di un movimento culturale che porterà alla progressiva emancipazione degli Stati europei dall’autorità della Chiesa. Idee simili si ritroveranno nelle riforme giurisdizionaliste promosse da monarchi come Giuseppe II d’Austria e nelle battaglie politiche che condurranno alla fine del potere temporale dei papi nel 1870, con la presa di Roma da parte dello Stato italiano.
Oggi, il Triregno è studiato come un documento fondamentale per comprendere il conflitto storico tra autorità ecclesiastica e statale e per riflettere sui meccanismi attraverso cui il potere religioso può influenzare le istituzioni e la società. La battaglia di Giannone per un ordine politico fondato sulla ragione e sulla libertà di pensiero rimane una lezione di straordinaria attualità.

 

 

 

 

Immanuel Kant contro le illusioni della metafisica

Dai sogni dei visionari alla critica della ragione

 

 

 

 

Pubblicato nel 1766, I sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica (Träume eines Geistersehers, erläutert durch Träume der Metaphysik) rappresenta un’opera di transizione nel pensiero di Immanuel Kant, scritta in un momento in cui il filosofo si trovava ancora in una fase precritica. In questo testo, Kant affronta il tema delle esperienze sovrannaturali e della metafisica con un approccio scettico e ironico, gettando i semi del suo futuro criticismo.
Il libro nasce dal confronto con le idee del mistico svedese Emanuel Swedenborg (1688-1772), che sosteneva di avere esperienze dirette del mondo degli spiriti. Swedenborg affermava di poter comunicare con le anime dei defunti e descriveva in dettaglio la natura dell’aldilà, basandosi su una presunta rivelazione divina. Kant, inizialmente incuriosito da queste affermazioni, decise di approfondire le testimonianze sul mistico, arrivando, però, alla conclusione che fossero frutto di autoillusione o di mera fantasia. Kant usa Swedenborg come caso emblematico per esaminare le pretese della conoscenza metafisica e soprannaturale. Nella prima parte del libro, tratta le visioni del mistico svedese con un tono a tratti ironico e persino sarcastico, sottolineando l’assurdità di credere in rivelazioni soprannaturali senza alcun fondamento razionale. Tuttavia, il suo interesse non è limitato alla critica di Swedenborg: il vero obiettivo dell’opera è più ampio e riguarda la metafisica stessa.

Nella seconda parte del libro, passa dalla critica delle visioni mistiche a un’analisi più generale della metafisica, sostenendo che molte delle sue costruzioni teoriche non siano meno illusorie dei sogni o delle esperienze paranormali. La metafisica tradizionale, secondo lui, ha spesso preteso di conoscere realtà che vanno oltre l’esperienza sensibile, proprio come i visionari affermano di percepire mondi ultraterreni. Qui si intravedono le prime intuizioni di quella che sarebbe diventata la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno. Kant riconosce che l’essere umano tende naturalmente a porsi domande su realtà che vanno oltre l’esperienza empirica (come l’anima, Dio, l’immortalità), ma sottolinea che tali questioni non possono trovare risposta attraverso la pura ragione speculativa. In questo senso, la metafisica rischia di trasformarsi in un’illusione, proprio come i sogni di un visionario. L’analogia con i sogni è centrale nell’opera: i mistici credono di vedere il soprannaturale, mentre i metafisici credono di scoprire verità assolute con la sola speculazione razionale. Tuttavia, in entrambi i casi, secondo Kant, si tratta di costruzioni prive di fondamento reale, perché non basate sull’esperienza e sulla ragione critica.
L’importanza di I sogni di un visionario sta nel fatto che segna una svolta nel pensiero di Kant. Se nelle opere precedenti aveva ancora cercato di trovare un equilibrio tra metafisica e razionalità, in questo libro comincia a sviluppare una posizione più critica. Non è ancora la sistematica filosofia della Critica della ragion pura (1781), ma il testo anticipa già alcuni dei concetti fondamentali della sua teoria della conoscenza.
Uno degli aspetti più significativi è il riconoscimento dei limiti della ragione umana. Kant si rende conto che la ragione non può penetrare oltre il mondo fenomenico e che la metafisica tradizionale rischia di avventurarsi in ambiti inaccessibili alla conoscenza umana. Questa consapevolezza lo porterà, negli anni successivi, a elaborare la distinzione tra fenomeno (ciò che possiamo conoscere attraverso l’esperienza sensibile) e noumeno (ciò che esiste indipendentemente dalla nostra esperienza, ma che non possiamo conoscere direttamente).
I sogni di un visionario non è solo una confutazione delle idee di Swedenborg, ma un primo passo verso la fondazione del criticismo kantiano. Con questo testo, Kant inizia a mettere in discussione la validità della metafisica dogmatica e a delineare i limiti della conoscenza umana, temi che svilupperà pienamente nelle sue opere successive. L’opera si rivela quindi un momento fondamentale nella sua evoluzione filosofica: segna il passaggio dal pensiero metafisico tradizionale alla ricerca di un nuovo metodo critico, basato sulla distinzione tra ciò che possiamo realmente conoscere e ciò che appartiene al dominio della pura speculazione. È un libro che mostra il filosofo nel pieno di una riflessione autocritica, intento a smantellare illusioni per costruire una filosofia più solida e rigorosa.

 

 

 

L’inganno del progresso

Rousseau e la condanna della civiltà corrotta

 

 

 

 

Il Discorso sulle scienze e sulle arti di Jean-Jacques Rousseau, pubblicato nel 1750, segnò l’inizio della sua riflessione critica sulla civiltà e sulla condizione umana. Quest’opera, scritta in risposta a un concorso indetto dall’Accademia di Digione, gli valse il primo premio e lo rese celebre nel dibattito filosofico del tempo. In essa, Rousseau sostiene una tesi radicale e in netta contrapposizione con la visione dominante dell’Illuminismo: il progresso delle scienze e delle arti non ha reso gli uomini migliori; al contrario, ha contribuito alla loro corruzione morale. Egli ribalta la convinzione diffusa tra i philosophes secondo cui la diffusione del sapere porterebbe inevitabilmente a un miglioramento della società. Afferma, invece, che la civiltà, con il suo sviluppo intellettuale e materiale, abbia allontanato l’umanità dalla virtù e dalla felicità autentica.
Rousseau, come detto, scrive il Discorso in risposta alla domanda posta dall’Accademia di Digione: “Il progresso delle scienze e delle arti ha contribuito a migliorare i costumi?”. La sua risposta è un netto no e l’opera si sviluppa proprio come una dimostrazione di questa affermazione. Il testo è articolato in due parti: nella prima, il filosofo descrive i danni morali causati dal progresso delle conoscenze, mentre nella seconda approfondisce il modo in cui la civiltà ha favorito la corruzione degli uomini, creando una società basata sull’apparenza e sull’ingiustizia.
Nella parte iniziale, Rousseau prende di mira l’idea, largamente diffusa tra gli intellettuali del suo tempo, che la scienza e l’arte abbiano reso gli uomini migliori. Egli sostiene invece che questi ambiti abbiano avuto l’effetto opposto: piuttosto che promuovere la virtù, hanno incentivato il vizio, la vanità e il desiderio di distinzione. La conoscenza, lungi dall’essere un mezzo per raggiungere la saggezza, è diventata uno strumento di competizione e di corruzione morale. Secondo Rousseau, gli uomini antichi, privi delle sofisticazioni moderne, vivevano in maniera più semplice e più retta, senza le falsità e le maschere imposte dalla società colta.
Nella seconda parte, approfondisce la sua critica alle conseguenze sociali del progresso. Denuncia il ruolo delle istituzioni culturali, educative e politiche nel perpetuare una cultura dell’ipocrisia e dell’esteriorità. Secondo il filosofo, gli uomini moderni sono stati educati a perseguire il prestigio e la fama piuttosto che la vera conoscenza e la virtù. Questo ha portato alla diffusione di un modello di società in cui l’apparenza ha sostituito l’essere e in cui la ricerca della verità è stata soppiantata dalla volontà di piacere e di dominare gli altri. La civiltà, invece di elevare l’animo umano, ha creato individui alienati, incapaci di vivere in armonia con la propria natura.

Un elemento centrale della riflessione di Rousseau è la contrapposizione tra progresso materiale e progresso morale. Egli ritiene che, mentre le scienze e le arti hanno fatto grandi passi avanti nel fornire comfort e strumenti tecnologici all’umanità, hanno paradossalmente causato un declino della rettitudine morale. Rousseau porta l’esempio delle grandi civiltà del passato, come l’antica Grecia e Roma, per dimostrare che il fiorire delle arti e delle lettere sia sempre stato accompagnato da una decadenza morale e da un indebolimento delle virtù pubbliche. Secondo lui, quando un popolo diventa troppo raffinato e sofisticato perde il senso della giustizia e della solidarietà, sostituiti da un crescente individualismo e da una ricerca ossessiva del piacere.
A suo avviso, la cultura moderna ha prodotto una forma di conoscenza sterile, priva di autenticità e scollegata dai veri bisogni umani. Gli uomini non studiano più per migliorarsi, ma per apparire superiori agli altri; non cercano più la verità, ma il riconoscimento sociale. Questo ha generato una società di maschere, in cui la sincerità e la spontaneità sono state sostituite dalla falsità e dalla competizione. Per Rousseau, questa degenerazione morale è il risultato diretto del progresso, che ha trasformato la vita umana in un gioco di prestigio e di inganni.
Uno degli aspetti più innovativi di quest’opera è l’analisi della perdita dell’autenticità nella società moderna. Rousseau sostiene che la civiltà abbia reso gli uomini schiavi delle convenzioni sociali, costringendoli a vivere in modo innaturale. Mentre l’uomo primitivo era libero e spontaneo, l’uomo moderno è vincolato da norme e aspettative che lo obbligano a comportarsi in modo artificiale. Rousseau vede in questo processo una forma di alienazione, in cui l’individuo perde il contatto con la propria essenza e diventa un semplice ingranaggio in un sistema basato sull’apparenza. L’educazione, piuttosto che di liberare l’uomo, lo ha reso prigioniero di un sapere vuoto e formale. Le accademie, le università e le istituzioni culturali, invece di promuovere la saggezza, hanno creato una casta di intellettuali arroganti e distaccati dalla realtà. Questo ha portato alla formazione di una società in cui il valore di un individuo è determinato non dalla sua bontà o dal suo contributo al bene comune, ma dalla sua capacità di conformarsi agli standard imposti dalla cultura dominante.
Rousseau individua nel lusso uno dei simboli più evidenti della corruzione della civiltà moderna. Egli ritiene che il desiderio di ricchezza e di comodità abbia corrotto l’animo umano, portandolo a inseguire piaceri effimeri piuttosto che valori autentici. Il lusso non è solo una manifestazione di sfarzo materiale, ma una vera e propria malattia sociale, che genera disuguaglianze e fratture tra gli uomini. Le società primitive, prive di grandi ricchezze, erano anche più egualitarie e solidali, mentre la civiltà moderna ha prodotto una società stratificata, in cui pochi privilegiati godono di immense ricchezze mentre la maggioranza è relegata nella miseria.
Questo aspetto della sua critica anticipa molte delle idee che svilupperà nel Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, in cui analizzerà più in dettaglio come la proprietà privata e il progresso abbiano creato gerarchie ingiuste e forme di oppressione sociale. Nel Discorso sulle scienze e sulle arti, Rousseau getta le basi di questa riflessione, mostrando come il progresso, invece di portare giustizia e uguaglianza, abbia rafforzato il dominio dei più forti sui più deboli.
Il Discorso sulle scienze e sulle arti, quindi, porta una delle critiche più radicali alla civiltà moderna e all’idea di progresso. Rousseau mette in discussione la convinzione illuminista secondo cui la conoscenza conduca necessariamente al miglioramento della società, sostenendo invece che essa ha spesso prodotto disuguaglianza, alienazione e corruzione morale. La sua analisi, pur essendo radicata nel contesto del XVIII secolo, solleva interrogativi ancora attuali: il progresso scientifico e tecnologico rende davvero gli uomini migliori? Oppure, rischia di allontanarli dalla loro autenticità e di rafforzare le ingiustizie sociali?

 

 

 

 

Il visionario di Friedrich Schiller

Tra illusione e potere, un capolavoro incompiuto
dell’Illuminismo gotico

 

 

 

 

Il visionario (Der Geisterseher) è un romanzo incompiuto di Friedrich Schiller, pubblicato in forma seriale tra il 1787 e il 1789 sulla rivista Thalia. L’opera si inserisce in un momento cruciale della produzione letteraria dell’autore, in cui si confronta con il genere del romanzo e con tematiche che anticipano le sue future riflessioni filosofiche e politiche. Il testo, pur rimanendo frammentario, ebbe un impatto significativo sulla letteratura successiva, in particolare per la sua capacità di fondere il mistero con la speculazione razionale e per la sua influenza sulla narrativa gotica e sul romanzo filosofico.
L’idea di Il visionario nacque in un periodo in cui Schiller era affascinato dalle questioni legate al mistero, al soprannaturale e alle trame cospirative. Il contesto storico e culturale dell’epoca, segnato dall’Illuminismo e dalla crescente diffusione delle società segrete, si riflette nella narrazione, che percorre la tensione tra razionalità e superstizione, tra libero arbitrio e manipolazione.
La storia si sviluppa attorno a un protagonista, un giovane principe tedesco in viaggio a Venezia, il quale si ritrova coinvolto in un intricato gioco di inganni e illusioni orchestrato da una società segreta. L’atmosfera della città lagunare, con le sue calli oscure e le sue maschere enigmatiche, diventa il perfetto scenario per un racconto che mescola elementi gotici, filosofici e politici.
Nella prima fase della composizione, pubblicata tra il 1787 e il 1788, Schiller introduce il protagonista e ne delinea il carattere, presentandolo come un uomo razionale ma vulnerabile alle seduzioni dell’ignoto. L’incontro con un misterioso armeno, figura ambigua e inquietante, segna l’inizio di un percorso che metterà alla prova la sua capacità di discernere la realtà dall’inganno.
Nella seconda fase, tra il 1788 e il 1789, la tensione narrativa cresce. Il principe viene trascinato in eventi sempre più inquietanti, in cui i confini tra realtà e visione si fanno labili. Attraverso una serie di apparizioni misteriose, inganni raffinati e situazioni che sfidano la logica, Schiller costruisce un crescendo di suspense che tiene il lettore in bilico tra il razionale e l’occulto. Tuttavia, l’opera rimane incompiuta, lasciando aperti molti interrogativi sulla sorte del protagonista e sul reale significato degli eventi narrati. La causa dell’interruzione potrebbe essere attribuita all’evoluzione degli interessi di Schiller, sempre più orientato verso il teatro e la filosofia classica, oltre che alla difficoltà di portare a compimento una trama tanto intricata e sfuggente.

L’opera affronta diverse tematiche centrali nel pensiero di Schiller e nella cultura illuminista del tempo. Il contrasto tra illusione e realtà è uno degli elementi cardine del romanzo. Il protagonista si trova costantemente in bilico tra ciò che percepisce e ciò che realmente accade, costretto a interrogarsi sulla validità dei suoi sensi e sulla possibilità che il mondo che lo circonda sia costruito su una finzione orchestrata da forze occulte. Questo tema riflette il dibattito illuminista sulla ragione e sulla superstizione, in un’epoca in cui la fede nel progresso e nella razionalità si scontrava con le ombre della tradizione e dell’ignoto.
Un’altra tematica fondamentale è quella della manipolazione e del potere. Nel corso della narrazione, il principe diventa vittima di un sofisticato meccanismo di controllo, orchestrato da una società segreta che sembra volerlo condurre verso un destino prestabilito. L’opera mette in luce i pericoli dell’inganno e della coercizione psicologica, ponendo interrogativi sul libero arbitrio e sulla capacità dell’individuo di resistere alle forze che cercano di influenzarlo. Questo aspetto anticipa il tema della cospirazione e della paranoia, che diventerà centrale in molta narrativa moderna.
Il conflitto tra libero arbitrio e destino è un altro nodo tematico importante. Il principe è convinto di essere padrone delle proprie scelte, ma si accorge progressivamente di essere intrappolato in una rete di eventi che sembrano guidarlo in una direzione precisa. L’angoscia derivante da questa consapevolezza richiama il dibattito filosofico sull’autodeterminazione e sul ruolo delle forze esterne nel plasmare la volontà umana.
L’elemento gotico e il soprannaturale giocano un ruolo chiave nella costruzione dell’atmosfera del romanzo. Schiller utilizza ambientazioni oscure, apparizioni enigmatiche e figure inquietanti per creare un senso di incertezza e di minaccia costante. La presenza dell’armeno, personaggio dal carattere quasi metafisico, introduce una dimensione esoterica che si lega alla tradizione del romanzo gotico nascente. Tuttavia, il racconto non si abbandona completamente al fantastico: Schiller lascia sempre aperta la possibilità di una spiegazione razionale, mantenendo l’equilibrio tra il soprannaturale e il dubbio illuminista.
Pur essendo un’opera incompiuta, Il visionario costituisce un tassello fondamentale nella produzione di Schiller e nella letteratura del XVIII secolo. Il romanzo si distingue per la sua capacità di intrecciare suspense e riflessione filosofica, anticipando molti dei temi che diventeranno centrali nel pensiero dell’autore e nella narrativa moderna. La tensione tra ragione e mistero, tra libertà e manipolazione, rende Il visionario un’opera di straordinaria attualità, capace di affascinare i lettori non solo per il suo intrigo narrativo, ma anche per la profondità delle questioni che solleva.

 

 

 

 

 

Attualità di Voltaire: note sul suo pensiero
e l’analisi di due racconti “contes”

 

di

Enrico Marco Cipollini

 

 

 

La figura più caratteristica del XVIII secolo francese è forse Francois Marie Arouet  anagrammato a suo modo Voltaire, il quale appartiene tanto alla filosofia che alla letteratura. Nasce a Parigi nel 1694 da famiglia borghese. Nel pensiero voltairiano, il problema etico equivale a problema politico. Voltaire, infatti… 

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François-Marie Arouet “Voltaire” (1694 – 1778)

 

 

Giuseppe Parini, l’eccellenza della poesia e l’Illuminismo del pensiero

di

 

 

Giuseppe Parini nacque a Bosisio (dal 1929 Bosisio Parini) il 23 maggio del 1729, figlio di un modesto mercante di stoffe: le sue umili origini sicuramente lo aiutarono ad assumere uno sguardo oggettivo sulla nobiltà del tempo…

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Giuseppe Parini

 

 

Jean Jacques Rousseau e il comunismo

 

 

Jean Jacques Rousseau, che io ho sempre definito un “protocomunista”, poiché nella sua esperienza di vita e nella sua dottrina sono certamente contemplate (nonostante larga parte della critica filosofica, ancora oggi, faccia finta di non vedere!) alcune delle premesse fatte proprie, poi, dal comunismo, che anche su queste basi avrebbe costruito parte del suo impianto dogmatico, ha comunque scritto cose degne di nota, che consiglio di leggere. Ciò non vuol dire che il comunismo, per una sorta di perversa proprietà transitiva dell’uguaglianza, abbia in sé qualcosa di utile e positivo, se non la bella favoletta dell’uguaglianza tra gli uomini. La quale rimane, appunto, una favoletta! A questo proposito, lo stesso Rousseau, nel 1755, aveva pubblicato un interessante “Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini” che, evidentemente, il prosatore di Treviri, con la penna intinta nella violenza, e i suoi immediati epigoni, ebbero a leggere.

 

 

Jean Jacques Rousseau (1712-1778)

 

Karl Marx (1818-1883)

 

 

 

 

Sulla superstizione

 

In Europa, negli ultimi 600 anni circa, abbiamo avuto l’Umanesimo, il Rinascimento e l’Illuminismo, ovvero il trionfo della ragione e del suo libero uso sugli istinti che rendevano l’uomo più simile alle bestie rispetto all’essere autonomamente pensante come si converrebbe fosse, eppure, ancora oggi, sono costretto ad essere rimproverato, spesso veementemente: “Non si augura buone vacanze, porta male, né buona pesca. All’in bocca al lupo si risponde con crepi e non con grazie”, e potrei continuare con tanti altri esempi. Beh, a questi/e prototipi/e auguro di tornare a vivere nel Medioevo che, comunque, non è affatto stato quel periodo buio, così tuttora dipinto da tanta storiografia, anche ufficiale. Altroché. Quindi, nemmeno nel Medioevo. Auguro loro di rimanere in questa condizione di inferiorità intellettuale perché, certo, la superstizione è un chiaro sintomo di interiorità intellettuale!!!

 

 

 

L’Illuminismo a Milano: Il Caffè, Pietro Verri, Alessandro Verri e Cesare Beccaria

 

Il Caffè

Questa rivista, uscita in settantaquattro numeri, uno ogni dieci giorni, tra il giugno 1764 e il maggio 1766, raccolse intorno a sé i maggiori intellettuali dell’Illuminismo milanese. Fondata da Pietro Verri, ad essa facevano capo i membri dell’Accademia dei Pugni, società culturale tra i cui soci sarebbero stati annoverati anche Primo Carnera, Nino Benvenuti, Patrizio Oliva e caffe-201x300Agostino Cardamone (scherzo!), e così chiamata a causa dell’epilogo molto animato delle riunioni: scazzottate degne di Bud Spencer e Terence Hill. Gli articoli, tutti molto interessanti e riguardanti gli argomenti più vari e di interesse pubblico, ebbero le firme prestigiose di Pietro e Alessandro Verri, Cesare Beccaria, Pietro Secchi, Paolo Frisi, per citare i più autorevoli. Il comitato di redazione decise di rivolgersi ad un pubblico nuovo di lettori, non solo sapientoni e letterati, ma anche gente comune, piccoli professionisti, artigiani e donne. Questa fu una grande novità perché permise al sapere di uscire dalla torre d’avorio, dove, per secoli, era stato confinato, e di mettersi al servizio di tutti, secondo quel precetto tipicamente illuminista dell’uso intelligente della conoscenza per migliorare la società. Nei quattro fogli del Caffè, infatti, si poteva leggere tutto quello che era di interesse pubblico, dal commercio all’economia, dalla medicina all’agricoltura, dalla sanità alla politica.

Pietro Verri

Figlio del conte Gabriele e di Barbara Dati, nacque a Milano il 12 dicembre 1728. Il padre, col quale non ebbe mai un buon rapporto, fu molto severo, tanto da farlo studiare presso i collegi più terribili di Milano e provincia, esperienze che segnarono profondamente l’animo del giovane Pietro.Pietro_Verri Al ritorno in famiglia, i litigi col babbo ripresero più forti di prima, fino alla rottura definitiva, quando divenne l’amante di Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni, moglie del duca Gabrio Serbelloni, gente molto in vista a Milano. Fu scandalo e il conte Gabriele, un alto funzionario del governo milanese, per lo scorno quasi non usciva più di casa. La relazione con la duchessa, donna molto colta e chic, instillò nel giovanotto la passione per il teatro e per la cultura francese, oltre che la voluttà nell’alcova. Il ménage con l’aristocratica amante, però, dopo qualche anno finì, lasciandolo così male da decidere di darsi alla vita militare, andando a combattere come ufficiale dell’esercito austriaco contro i prussiani. Al rientro a Milano fondò, col fratello Alessandro e i “pugili” della citata Accademia, Il Caffé e, allo stesso tempo, prese lavoro nell’amministrazione pubblica austriaca del capoluogo lombardo. A questi anni risale la composizione delle sue opere principali: le Meditazioni sull’economia politica, il Discorso sull’indole del piacere e del dolore, le Osservazioni sulla tortura, e i Ricordi a mia figlia, scritto per la figlioletta Teresa, nata proprio poche settimane prima. Posso dire con (quasi) certezza che, senza Pietro Verri e i suoi instancabili sforzi per la cultura e la sua diffusione, l’Illuminismo milanese sarebbe stato molto meno luminoso.

Alessandro Verri

Fratello minore di Pietro, nacque nel 1741 e fu più furbo del maggiore perché, per non farsi ammorbare oltremodo dal padre, molto presto, fece i bagagli e, dopo aver collaborato al Caffè, se ne andò Alessandro_Verria Parigi e Londra e, poi, a Roma, dove visse fino alla morte, nel 1816. Appassionato di teatro e lui stesso attore per diletto, fu uno dei primi a tradurre le opere di Shakespeare in italiano. Scrisse anche due romanzi, le Avventure di Saffo poetessa di Mitilene e la Vita di Erostrato. Avendo vissuto così tanto tempo lontano da Milano, pian piano, abbandonò lo spirito illuminista che aveva caratterizzato la prima fase della sua vita e ripiegò su visioni un po’ più cupe dell’esistenza, che saranno, poi, determinanti nel Romanticismo. Ne è prova una sua opera, le Notti romane al sepolcro degli Scipioni, scritto che compose in occasione del ritrovamento archeologico delle sepolture di quest’importante famiglia della Roma antica, in cui figura, che dalle tombe escano le ombre di romani illustri per discutere della grandezza e della rovina dell’impero più potente della Terra.

Cesare Beccaria

Il marchese Beccaria nacque a Milano nel 1738. Come Pietro Verri ebbe grosse e dure litigate con i genitori, a causa di una donna che, però, non era  moglie di un nobile conosciutissimo, quanto una ragazza di famiglia povera, Teresa Blasco, che lui amò tantissimo e che, grazie Cesare_Beccaria_in_Dei_delitti_cropanche all’aiuto proprio del Verri, il quale mediò con i suoi parenti, riuscì a sposare. Oltre ai contributi giornalistici al Caffè, Beccaria fece due cose importanti nella vita: la prima, diede i natali alla figlia Giulia, la futura madre di Alessandro Manzoni, e la seconda, scrisse Dei delitti e delle pene, un saggio che ebbe un successo esagerato in tutta Europa, tanto da farlo diventare l’idolo di molti dei filosofi dell’Illuminismo francese, in particolare di Voltaire. In questo trattato, colmo di spirito illuminista, Beccaria sostiene l’abolizione della pena di morte perché, a suo avviso, questa non fa né diminuire i crimini, né è buona come deterrente. “È più utile prevenire i delitti mostrando la certezza della pena – scrive l’autore – perché, per un criminale, è meglio morire che passare la vita in galera. Ma quando un ergastolano scappa dal carcere e mette in pericolo la vita dei cittadini, allora può essere messo a morte.” Questo libro dovrebbe rappresentare un articolo fondamentale della Costituzione di molti paesi del mondo, i quali, ahimè, evidentemente, ancora non hanno ancora visto o sentito parlare di Illuminismo.