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La dissoluzione della causalità

La rivoluzione empirista di David Hume

 

 

 

 

David Hume (1711-1776), uno dei più influenti filosofi dell’Illuminismo scozzese, ha profondamente segnato la filosofia moderna attraverso la sua critica radicale al concetto di causalità. Nelle sue opere principali, il Trattato sulla natura umana (1739-40) e la Ricerca sull’intelletto umano (1748), Hume mette in discussione le fondamenta stesse della conoscenza scientifica e metafisica, introducendo un punto di vista empirista e scettico che ha avuto un impatto duraturo sulla filosofia successiva.
Per comprendere pienamente la portata della critica humeana alla causalità, è essenziale situarla nel contesto della tradizione empirista britannica. L’empirismo, rappresentato da filosofi come John Locke e George Berkeley, sostiene che tutta la conoscenza derivi dall’esperienza sensibile. Tuttavia, mentre Locke riteneva che l’intelletto umano potesse costruire concetti astratti a partire dall’esperienza e Berkeley eliminava la materia a favore di una realtà composta esclusivamente da percezioni, Hume adotta una posizione ancora più radicale: egli mette in dubbio la possibilità stessa di fondare conoscenze certe sulle relazioni causali.
Per Hume, la filosofia deve limitarsi a descrivere i meccanismi mentali attraverso cui l’uomo costruisce il sapere, senza pretendere di cogliere l’essenza ultima della realtà. In questo senso, la critica della causalità si inserisce nella più ampia impresa di smantellamento delle pretese metafisiche tradizionali.
La riflessione humeana sulla causalità parte da un’osservazione semplice ma decisiva: quando osserviamo due eventi correlati – ad esempio, il lancio di una palla e la rottura di una finestra – percepiamo chiaramente la successione temporale tra i due eventi, ma non la “connessione necessaria” che li lega. Non vi è alcuna impressione sensibile della necessità causale.
Hume distingue, quindi, tre elementi fondamentali che caratterizzano il concetto comune di causalità: contiguità spaziale e temporale (la causa e l’effetto devono essere vicini nel tempo e nello spazio); successione temporale (la causa precede l’effetto; connessione necessaria (si presume che la causa “produca” l’effetto in modo inevitabile). Se i primi due elementi sono direttamente osservabili, il terzo – la connessione necessaria – non lo è. Secondo Hume, l’idea di necessità deriva non da un’osservazione oggettiva, ma da un’abitudine psicologica. Dopo aver visto più volte A seguito da B, la mente sviluppa un’aspettativa che B seguirà sempre A. È l’abitudine che genera l’idea di causalità, non una conoscenza razionale o intuitiva della connessione reale tra i fenomeni. Questo porta Hume a formulare il principio secondo cui la causalità è un prodotto della mente umana e non una proprietà intrinseca della realtà.

Uno degli aspetti più dirompenti della critica humeana è la sua implicazione per il metodo scientifico basato sull’induzione. La scienza moderna si fonda sulla convinzione che le leggi naturali osservate nel passato continueranno a valere nel futuro. Tuttavia, Hume dimostra che tale convinzione non può essere giustificata razionalmente. Il cosiddetto “problema dell’induzione” emerge dalla constatazione che non vi è alcuna garanzia logica che il futuro replicherà il passato. Ad esempio, l’osservazione che il sole è sorto ogni giorno fino a oggi non giustifica, in termini di pura logica, la certezza che sorgerà anche domani. L’aspettativa del ripetersi dei fenomeni si basa unicamente sull’abitudine. Questo scetticismo non implica che la scienza sia inutile, ma mette in discussione le sue pretese di verità assoluta. La scienza funziona perché è utile e pratica, non perché fornisce conoscenze metafisicamente certe.
La critica humeana della causalità ha avuto profonde ripercussioni nella storia della filosofia. Il suo scetticismo ha spinto Immanuel Kant a rivedere le fondamenta della conoscenza nella Critica della ragion pura. Kant riconosce a Hume il merito di averlo “risvegliato dal sonno dogmatico” e sviluppa la teoria secondo cui la causalità non è un concetto empirico, ma una categoria a priori della mente umana che struttura l’esperienza. Se per Hume la causalità è una costruzione psicologica basata sull’abitudine, per Kant essa diventa una condizione necessaria per la possibilità dell’esperienza stessa. In questo modo, Kant cerca di salvare la validità del sapere scientifico, senza però ripristinare le vecchie pretese metafisiche.
In epoca contemporanea, la critica humeana ha influenzato anche la filosofia della scienza, in particolare con Karl Popper, che ha rifiutato l’induzione come metodo scientifico, proponendo al suo posto il criterio della falsificabilità: le teorie scientifiche non possono essere verificate definitivamente, ma solo messe alla prova e potenzialmente confutate.
Un altro aspetto significativo della riflessione humeana riguarda la psicologia della percezione e della conoscenza. Nel sottolineare che la causalità è il risultato di un processo mentale piuttosto che una realtà esterna, Hume anticipa teorie psicologiche moderne sulla costruzione della realtà da parte della mente umana. La sua analisi suggerisce che la mente non si limita a registrare passivamente i dati sensibili, ma attivamente li organizza secondo schemi abitudinari e associazioni. Questa intuizione ha condizionato approcci successivi come il pragmatismo e alcune correnti della psicologia cognitiva, che vedono la conoscenza come il risultato di processi adattativi piuttosto che come la scoperta di verità oggettive.
La critica di Hume al concetto di causalità ha segnato un punto di svolta nella filosofia moderna. Smontando la pretesa di una conoscenza certa e razionale delle connessioni causali, egli ha aperto la strada a un nuovo modo di intendere il rapporto tra mente e realtà, tra esperienza e sapere. Il suo approccio empirista e scettico continua a interrogare la filosofia contemporanea, spingendo a riflettere sui limiti della conoscenza umana e sul ruolo della soggettività nella costruzione della realtà. La lezione di Hume rimane un monito alla prudenza epistemologica: ciò che consideriamo vero potrebbe essere, in ultima analisi, il frutto delle abitudini della mente piuttosto che un riflesso fedele della realtà oggettiva.

 

 

 

 

Brevi ragguagli sul concetto di “coscienza” nella storia della filosofia Occidentale

 

PARTE II

 

LA COSCIENZA COME CONOSCENZA (Ragion pura) E COME MORALE (Ragion pratica)

downloadImmanuel Kant, nella sua monumentale opera filosofica, dà al concetto di coscienza una duplice attenzione: una gnoseologica, relativa ai processi della conoscenza, l’altra morale, relativa alla sfera comportamentale. Per quanto riguarda il primo aspetto, considerò la coscienza come appercezione (Leibniz), pur rimanendo nella convinzione dell’esistenza del mondo esterno alla coscienza. Il filosofo di Königsberg (immagine a destra) distinse, poi, le appercezioni in pure trascendentali (chiamate anche “Io penso“), il vertice della conoscenza critica, in quanto fornisce senso alle rappresentazioni della realtà esterna; e in empiriche, l’esperienza interna, variabile e soggettiva. Entrambe le appercezioni e, quindi, la coscienza di esse, concorrono alla formazione dei processi cognitivi. In merito all’aspetto comportamentale, Kant considerò la coscienza come l’elemento che garantisce il valore assoluto della legge morale. La moralità è la somma ultima dei comandamenti della ragione, o imperativi, dai quali l’uomo deriva tutti gli obblighi e i doveri. Kant definisce la morale “Ragione pura pratica“, concependola come un’attività razionale a priori, che risulta sufficiente, da sola, a determinare la volontà. (Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica).

 

HEGEL: LA COSCIENZA PREMESSA DELL’AUTOCOSCIENZA CHE NON RICERCA L’ASSOLUTO PERCHE’ E’ PARTE DI ESSO

GeorgWilhelmFriedrichHegelAl concetto di coscienza, inteso in molteplici significati, il filosofo tedesco George Wilhelm Hegel (immagine a sinistra) dedicò un’intera opera: La fenomenologia dello Spirito. Nella Fenomenologia è tracciato il cammino che la coscienza umana, detta anche individuale, deve compiere per giungere all’Assoluto. La prima tappa è costituita dall’indagine sulla coscienza: l’individuo, attraverso il confronto sensibile con la realtà circostante, ha contezza e, quindi, coscienza della propria esistenza. Tale consapevolezza è generata dalla conoscenza sensibile, dalla percezione e dall’intelletto. Interiorizzata in sé la realtà, la coscienza diviene autocoscienza, seconda tappa. L’autocoscienza che riesce a raggiungere l’indipendenza crede di poter sussistere facendo a meno della realtà. La scissione tra l’autocoscienza e il tutto è chiamata da Hegelcoscienza infelice religiosa“, intesa come spaccatura che l’uomo avverte tra sé e Dio. Giunta al punto più basso di mortificazione e infelicità, l’autocoscienza si rende conto che è inutile ricercare l’Assoluto in quanto essa stessa è parte dell’Assoluto. Allora diviene Ragione, terza ed ultima tappa del percorso.

 

LA COSCIENZA COME RIFLESSO DELLA REALTA’ MATERIALE

220px-Karl_Marx_001Per Karl Marx (immagine a destra) la coscienza, come la produzione di idee e di rappresentazioni mentali, è direttamente collegata alle attività materiali degli uomini. Anche la produzione spirituale, che si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale e della religione, è una conseguenza dei comportamenti materiali. Gli uomini, intesi quali reali, operanti e condizionati dallo sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono, sono i produttori delle loro rappresentazioni. La coscienza, quindi, è l’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Gli uomini, sviluppando la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali, trasformano, insieme con la loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è, dunque, la coscienza a determinare la vita, ma la vita a determinare la coscienza  (Ideologia Tedesca).

 

LA COSCIENZA NEL PENSIERO FILOSOFICO CONTEMPORANEO

Con Edmund Husserl il concetto di coscienza, arricchito dalle dottrine dei filosofi dei secoli precedenti, conquista il passaggio verso il pensiero contemporaneo. Se per Hegel il termine Husserl-3fenomenologia aveva significato tracciare il cammino della coscienza, per Husserl (immagine a sinistra), invece, ineriva proprio lo studio della coscienza. Il filosofo prese le distanze dallo Spiritualismo del XIX secolo, per cui la coscienza era una sostanza, un ente, sostenendo che questa non fosse, appunto, un essenza, ma un’attività. In più, essa è anche intenzionalità, ovvero coscienza di qualcosa e si presenta in diversi modi: percepire, pensare, ricordare, immaginare. La coscienza, però – e qui c’è la rottura con tutta la tradizione precedente -, non si identifica col suo oggetto. Essa è totalmente soggettiva. Solo la coscienza può rivelare l’essere: essere è solo ciò che è per la coscienza. Da ciò, l’originale intreccio husserliano tra coscienza e filosofia: teoretica (filosofia di riflessione, di contemplazione, poiché riguarda sempre il soggetto conoscente); edetica (che si occupa delle essenze, non avendo un rapporto diretto con la realtà come essa è ma come appare alla coscienza); non oggettiva (l’approdo cui giungono le sue posizioni è estremamente soggettivo) (Ricerche logiche, Meditazioni cartesiane). Come Husserl, anche Martin Heidegger muove la sua analisi della coscienza Heideggerdalla soggettività di questa, mettendo, però, in luce che gli sforzi di Husserl non siano bastati, avendo questi non tenuto conto anche della finitezza e della esistenza storica. Il filosofo tedesco (immagine a destra) insiste sull’esigenza di connettere la coscienza alla concretezza dell’esistenza. L’essere, progettando il mondo, lo fa venire all’esistenza, in quanto coscienza trascendentale, trovandosi, quindi, ad essere a sua volta progettato. L’essere, avendo coscienza della propria esistenza si apre al mondo, uscendo dalla soggettività per entrare nell’universo della coesistenza fra le cose. Tale azione aliena l’essere da sé stesso. La conseguenza è l’appello alla coscienza, ma questa apre la prospettiva al nulla, al nichilismo (Essere e tempo). Jean Paul Sartre, ponendosi tra la fenomenologia di Husserl e l’esistenzialismo di Heidegger, trasforma la filosofia della coscienza in esistenzialismo ateo, negando l’esistenza dell’io nella coscienza e trasportandolo al di fuori di essa, come ente del mondo. L’esistenza è la nullificazione dell’essere, poiché l’essere è affetto da una frattura insanabile tra l’essere in sé, come totalità fuori dalla coscienza, e l’essere per sé, che è l’essere della coscienza stessa. L’essere non riesce mai ad afferrare sé stesso. Ha in sé la tara del nulla. Da qui, la nullificazione del mondo, poiché le cose sono quelle che sono in sé, ma non ne hanno coscienza. Esse non hanno senso, come non ha senso la coscienza umana; sono una realtà di fronte alla quale l’unico atteggiamento possibile della coscienza umana non può che essere la nausea (Saggi, La nausea). Con Sigmund Freud e la sua scuola il concetto di coscienza entra nella psicoanalisi moderna. Per esigenze di brevità, data la vastità del pensiero freudiano, mi limito a fornire accenni esplicativi sui più importanti contributi che lo psicoanalista austriaco ha fornito alla scienza contemporanea, con l’indagine della mente umana e dei suoi processi: i concetti di coscienza, preconscio e inconscio. La coscienza è downloadfacilmente accessibile perché in stretta e immediata connessione con la realtà che ci circonda: essa è sempre vigile, razionale, presente e non vive, perciò, di ricordi passati. Freud (immagine a sinistra) considera la coscienza come un dato dell’esperienza individuale. La assimila alla percezione, considera come essenza di quest’ultima la capacità di ricevere qualità sensibili e affida questa funzione di percezione-coscienza ad un sistema autonomo e funzionante in base a principi quantitativi. Tra la coscienza e l’inconscio, è collocato il preconscio. Esso incamera tutte le esperienze passate, che possono essere fatte emergere con facilità: attraverso uno sforzo, grande o piccolo, dipende dal ricordo, si può riscoprire qualcosa che è accaduto. Al preconscio, dunque, vi si può accedere grazie alla ragione, senza grosse difficoltà. L’inconscio. In esso risiedono desideri vergognosi, impulsi repressi, esperienze traumatiche rimosse. Tutto ciò che si vuole cancellare definitivamente e domare con la ragione si inabissa in questo spazio di ricordo eterno. Tutto ciò che accade o è accaduto in un passato, anche remotissimo, viene divorato dall’inconscio e mai viene dimenticato (L’interpretazione dei sogni).

 

La rivoluzione copernicana di Immanuel Kant

 

di

Maurizio Morini

 

Secondo Kant non è la conoscenza umana a regolarsi sulla natura degli oggetti ma, all’opposto, sono gli oggetti a regolarsi sulla natura della conoscenza. In altre parole è l’esperienza (gli “oggetti”) che si regola sulla struttura dell’intelletto umano il quale (ne segue), prima che gli siano dati gli oggetti dell’esperienza, ha una sua natura a priori, cioè indipendente dall’esperienza…

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Immanuel Kant (1724-1804)

 

 

 

Thomas Hobbes, la conoscenza e gli occhi di una donna

 

 

Thomas Hobbes (1588-1679) così scrisse nel “Leviathan” (1651): “La sapienza si acquista non leggendo i libri, ma esaminando gli uomini“. Sono fortemente persuaso della veridicità di tale affermazione.
È straordinario, infatti, pensare che un essere, a me simile, possa diventare, per me, fonte di conoscenza. E’, invece, divino, esser certo che il sommo della conoscenza, per me, sia rappresentato da una creatura, conforme a me soltanto perché fatta della mia stessa materia corporea, ma con una sostanza spirituale di gran lunga superiore. Ecco perché ritengo che il più alto grado di conoscenza che un uomo possa acquisire sia il poter guardare la realtà attraverso gli occhi di una donna. Le categorie mediante le quali io percepisco la realtà, oltre ai concetti di spazio e tempo, come ritenne Kant, sono i suoi occhi meravigliosi…

 

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Il giudizio estetico al di là della rappresentazione

 

L’analitica del sublime in Kant, al di là di una critica del gusto, tenta una ridefinizione dei luoghi dell’apparizione. Così in questa foto:

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La Piazza del Plebiscito 1953. Una giovane donna accovacciata accanto ad un bambino che piange. La giovane donna è elegante in un tailleur scuro (la foto è in bianco e nero, seppia ad essere precisi), sicuramente blu, ha capelli nerissimi raccolti, un sorriso con rossetto e una spilla d’argento sul bavero della giacca, sandaletti nabuck. Il bambino ha un completino – nella foggia di allora – calzoncini corti bianchi, scarpe di camoscio bianche e calzini, giacchino corto azzurro: guarda da qualche parte o sta per piangere spaventato, mentre un coppo di mangime per colombi si è rovesciato attirando attorno a sé i famelici volatili: il bambino ha due anni. Capelli biondissimi e occhi azzurri. Alle spalle la chiesa di S. Francesco di Paola che non appare ripresa e pochi passanti sullo sfondo ignari, mentre forse spaventato si tiene alla mamma nonostante la mamma gli stringa la mano. Ecco, il giudizio estetico attiene alla descrizione e la descrizione èImmanuel-Kant una critica che va al di là della critica stessa, elaborando le condizioni della critica del giudizio. Questo è il giudizio estetico, il giudizio estetico sembra essere per Kant (immagine a destra) il giudizio per eccellenza. Questo giudizio è tale perché esso va al di là dell’oggetto stesso che descrive. Il pensiero è suscettibile di affettività e il giudizio estetico si pronuncia sullo stato del pensiero nel piacere o nel dispiacere entrambi gli stati fanno si che il pensiero elabori il giudizio di gusto. L’immaginazione è la potenza di una rappresentazione, qualunque essa sia. L’estetica kantiana si mantiene più distante dall’estetica di Baumgarten. E’ in questa distanza che il sublime arriva in una euforia che ci presenta un altro sentimento estetico di natura eterogenea rispetto a quello del bello. Può essere allora che il sublime sia un esempio perfetto del differente e la differenza è tutta nella capacità di pensare, di rappresentare e di andare oltre ciò che si rappresenta. Nel sublime accade che la ragione presenti un assoluto, l’immaginazione si sforza di trascendere l’oggetto rappresentato, ma non riesce a descriverlo, perché la ragione che determina l’immaginazione è – per Kant – limitata. Essa non è l’immaginazione romantica, non è la fantasia: l’immaginazione può comprendere, abbracciare, descrivere, ma rimane muta davanti al sublime.

Franco Cuomo