Archivi tag: Intelletto

L’ombra nasce dall’azione della luce sulla materia

Filosofia della luce in Giordano Bruno

 

 

 

 
Se non togliete il ben, che v’è da presso,
come torrete quel, che v’è lontano?
Spregiar il vostro mi par fallo espresso,
e bramar quel, che sta ne l’altrui mano.
Voi sete quel, ch’abbandonò sè stesso,
la sua sembianza desiando in vano:
voi sete il veltro, che nel rio trabocca,
mentre l’ombra desia di quel ch’ha in bocca.
 
Lasciate l’ombre, ed abbracciate il vero!
Non cangiate il presente col futuro!
Io d’aver di miglior già non dispero;
ma per viver più lieto e più sicuro,
godo il presente e del futuro spero:
così doppia dolcezza mi procuro.

(Giordano Bruno, Cena de le ceneri, Dialogo Primo)

L’ombra nasce dall’azione della luce sulla materia: questa affermazione, che apre la riflessione, racchiude una delle intuizioni fondamentali della filosofia di Giordano Bruno. In essa è implicita una concezione dinamica e unitaria del cosmo, dove ogni fenomeno – anche ciò che appare illusorio, come l’ombra – ha origine in un’interazione profonda tra forze prime: la luce e la materia. Ma attenzione: l’ombra non è un’entità autonoma. Esiste solo come effetto, come conseguenza secondaria. È un’apparenza, non una sostanza. Eppure, l’essere umano, spesso, è attratto proprio da quell’apparenza, finendo per scambiare l’ombra con la realtà.
I versi poetici proposti parlano di un errore umano ricorrente: abbandonare ciò che si ha, ciò che è reale, per inseguire ciò che è distante, idealizzato, irraggiungibile. “Spregiar il vostro mi par fallo espresso, / e bramar quel, che sta ne l’altrui mano” denuncia con chiarezza il gesto dell’uomo che rifiuta il proprio per desiderare l’altrui. Si tratta, nel linguaggio bruniano, dell’anima che ha perduto sé stessa, che si è distaccata dalla propria natura per rincorrere un’idea riflessa, un simulacro, un’ombra.
Qui si innesta una delle critiche più potenti che Bruno rivolge al pensiero dogmatico, religioso e metafisico del suo tempo: l’umanità è stata educata a proiettare il divino altrove – in un aldilà, in un’astrazione – mentre, per Bruno, l’infinito e l’eterno sono già qui, in questo mondo, in ogni manifestazione della natura. L’errore consiste nel cercare fuori ciò che si trova dentro, nel desiderare ciò che appare invece di riconoscere ciò che è. È il “veltro che nel rio trabocca, / mentre l’ombra desia di quel ch’ha in bocca”: emblema perfetto della mente ingannata dall’immagine, che perde la sostanza per inseguire la proiezione.
Per comprendere appieno questa dinamica, occorre entrare nel cuore della cosmologia bruniana. Bruno rifiuta la distinzione netta tra spirito e materia, tra mondo sensibile e mondo intelligibile. Per lui, la materia non è un principio passivo, ma una realtà viva, animata, in cui si esprime la stessa forza divina che permea tutto l’universo. La luce, che simboleggia l’intelletto divino, l’anima del mondo, non si oppone alla materia, ma la attraversa, la struttura, la rende espressiva.
In questo senso, l’ombra non è malvagia in sé, ma è il segno del limite umano, della parzialità dello sguardo. È il risultato inevitabile del modo in cui la luce incontra una forma, un corpo, un oggetto. Ma se si fissa lo sguardo sull’ombra, si perde il senso dell’origine: si dimentica che l’ombra esiste solo perché c’è luce, e che è quest’ultima a guidare verso il vero. Il pericolo sta nel restare prigionieri dell’effetto, senza risalire alla causa.

I versi finali della poesia, “Godo il presente e del futuro spero: / così doppia dolcezza mi procuro”, contengono un nucleo etico centrale del pensiero bruniano: vivere il presente in modo pieno, senza rimandare la vita a un tempo futuro o a un’illusoria salvezza. Bruno rigetta la passività dell’attesa, il rimando continuo a un altro tempo, a un altro mondo. È nella concretezza dell’esperienza, nell’atto del pensiero, nella libertà dell’intelletto che si realizza la dignità dell’uomo.
Non si tratta di una visione semplicemente edonistica. Bruno non predica l’abbandono ai piaceri immediati, ma l’uso attivo della ragione per comprendere la realtà e godere della sua ricchezza. La speranza nel futuro non è negata, ma subordinata a una pienezza presente: è un’espressione di fiducia nell’infinità del divenire, non una fuga dal qui e ora. Così, il vivere diventa doppio godimento: consapevole del presente, aperto al possibile.
Lasciate l’ombre, ed abbracciate il vero!” è, infine, un imperativo morale, un invito al risveglio. Bruno si rivolge all’umanità addormentata, alienata, sottomessa a verità esterne, fisse, imposte. La sua è una filosofia della luce interiore: la verità non si eredita, non si impone, non si riceve dall’alto. Si conquista attraverso la ricerca, lo studio, l’intuizione. È una verità in movimento, che si dispiega nell’incontro tra mente e mondo, tra luce e materia.
In questo senso, il “vero” non è un oggetto statico, ma un processo di liberazione. Significa imparare a vedere oltre l’ombra, a non confondere il riflesso con la cosa, a vivere secondo la propria natura razionale e spirituale. Per Bruno, questo percorso è difficile, spesso tragico (come la sua vita dimostra), ma è l’unica via verso l’autenticità.
L’intero impianto poetico si presta, dunque, a essere letto come un’espressione sintetica e sorprendentemente chiara di alcuni dei principi fondamentali della filosofia di Giordano Bruno: la critica all’illusione, l’invito a vivere secondo ragione, la valorizzazione del presente, la centralità della luce come metafora del pensiero e della verità, e infine l’unità profonda del cosmo. In questa prospettiva, l’ombra non è che il punto di partenza per una presa di coscienza più alta: solo riconoscendo ciò che è ombra, si può scegliere consapevolmente la luce.

 

 

 

 

 

Brevi ragguagli sul concetto di “coscienza” nella storia della filosofia Occidentale

 

PARTE II

 

LA COSCIENZA COME CONOSCENZA (Ragion pura) E COME MORALE (Ragion pratica)

downloadImmanuel Kant, nella sua monumentale opera filosofica, dà al concetto di coscienza una duplice attenzione: una gnoseologica, relativa ai processi della conoscenza, l’altra morale, relativa alla sfera comportamentale. Per quanto riguarda il primo aspetto, considerò la coscienza come appercezione (Leibniz), pur rimanendo nella convinzione dell’esistenza del mondo esterno alla coscienza. Il filosofo di Königsberg (immagine a destra) distinse, poi, le appercezioni in pure trascendentali (chiamate anche “Io penso“), il vertice della conoscenza critica, in quanto fornisce senso alle rappresentazioni della realtà esterna; e in empiriche, l’esperienza interna, variabile e soggettiva. Entrambe le appercezioni e, quindi, la coscienza di esse, concorrono alla formazione dei processi cognitivi. In merito all’aspetto comportamentale, Kant considerò la coscienza come l’elemento che garantisce il valore assoluto della legge morale. La moralità è la somma ultima dei comandamenti della ragione, o imperativi, dai quali l’uomo deriva tutti gli obblighi e i doveri. Kant definisce la morale “Ragione pura pratica“, concependola come un’attività razionale a priori, che risulta sufficiente, da sola, a determinare la volontà. (Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica).

 

HEGEL: LA COSCIENZA PREMESSA DELL’AUTOCOSCIENZA CHE NON RICERCA L’ASSOLUTO PERCHE’ E’ PARTE DI ESSO

GeorgWilhelmFriedrichHegelAl concetto di coscienza, inteso in molteplici significati, il filosofo tedesco George Wilhelm Hegel (immagine a sinistra) dedicò un’intera opera: La fenomenologia dello Spirito. Nella Fenomenologia è tracciato il cammino che la coscienza umana, detta anche individuale, deve compiere per giungere all’Assoluto. La prima tappa è costituita dall’indagine sulla coscienza: l’individuo, attraverso il confronto sensibile con la realtà circostante, ha contezza e, quindi, coscienza della propria esistenza. Tale consapevolezza è generata dalla conoscenza sensibile, dalla percezione e dall’intelletto. Interiorizzata in sé la realtà, la coscienza diviene autocoscienza, seconda tappa. L’autocoscienza che riesce a raggiungere l’indipendenza crede di poter sussistere facendo a meno della realtà. La scissione tra l’autocoscienza e il tutto è chiamata da Hegelcoscienza infelice religiosa“, intesa come spaccatura che l’uomo avverte tra sé e Dio. Giunta al punto più basso di mortificazione e infelicità, l’autocoscienza si rende conto che è inutile ricercare l’Assoluto in quanto essa stessa è parte dell’Assoluto. Allora diviene Ragione, terza ed ultima tappa del percorso.

 

LA COSCIENZA COME RIFLESSO DELLA REALTA’ MATERIALE

220px-Karl_Marx_001Per Karl Marx (immagine a destra) la coscienza, come la produzione di idee e di rappresentazioni mentali, è direttamente collegata alle attività materiali degli uomini. Anche la produzione spirituale, che si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale e della religione, è una conseguenza dei comportamenti materiali. Gli uomini, intesi quali reali, operanti e condizionati dallo sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono, sono i produttori delle loro rappresentazioni. La coscienza, quindi, è l’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Gli uomini, sviluppando la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali, trasformano, insieme con la loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è, dunque, la coscienza a determinare la vita, ma la vita a determinare la coscienza  (Ideologia Tedesca).

 

LA COSCIENZA NEL PENSIERO FILOSOFICO CONTEMPORANEO

Con Edmund Husserl il concetto di coscienza, arricchito dalle dottrine dei filosofi dei secoli precedenti, conquista il passaggio verso il pensiero contemporaneo. Se per Hegel il termine Husserl-3fenomenologia aveva significato tracciare il cammino della coscienza, per Husserl (immagine a sinistra), invece, ineriva proprio lo studio della coscienza. Il filosofo prese le distanze dallo Spiritualismo del XIX secolo, per cui la coscienza era una sostanza, un ente, sostenendo che questa non fosse, appunto, un essenza, ma un’attività. In più, essa è anche intenzionalità, ovvero coscienza di qualcosa e si presenta in diversi modi: percepire, pensare, ricordare, immaginare. La coscienza, però – e qui c’è la rottura con tutta la tradizione precedente -, non si identifica col suo oggetto. Essa è totalmente soggettiva. Solo la coscienza può rivelare l’essere: essere è solo ciò che è per la coscienza. Da ciò, l’originale intreccio husserliano tra coscienza e filosofia: teoretica (filosofia di riflessione, di contemplazione, poiché riguarda sempre il soggetto conoscente); edetica (che si occupa delle essenze, non avendo un rapporto diretto con la realtà come essa è ma come appare alla coscienza); non oggettiva (l’approdo cui giungono le sue posizioni è estremamente soggettivo) (Ricerche logiche, Meditazioni cartesiane). Come Husserl, anche Martin Heidegger muove la sua analisi della coscienza Heideggerdalla soggettività di questa, mettendo, però, in luce che gli sforzi di Husserl non siano bastati, avendo questi non tenuto conto anche della finitezza e della esistenza storica. Il filosofo tedesco (immagine a destra) insiste sull’esigenza di connettere la coscienza alla concretezza dell’esistenza. L’essere, progettando il mondo, lo fa venire all’esistenza, in quanto coscienza trascendentale, trovandosi, quindi, ad essere a sua volta progettato. L’essere, avendo coscienza della propria esistenza si apre al mondo, uscendo dalla soggettività per entrare nell’universo della coesistenza fra le cose. Tale azione aliena l’essere da sé stesso. La conseguenza è l’appello alla coscienza, ma questa apre la prospettiva al nulla, al nichilismo (Essere e tempo). Jean Paul Sartre, ponendosi tra la fenomenologia di Husserl e l’esistenzialismo di Heidegger, trasforma la filosofia della coscienza in esistenzialismo ateo, negando l’esistenza dell’io nella coscienza e trasportandolo al di fuori di essa, come ente del mondo. L’esistenza è la nullificazione dell’essere, poiché l’essere è affetto da una frattura insanabile tra l’essere in sé, come totalità fuori dalla coscienza, e l’essere per sé, che è l’essere della coscienza stessa. L’essere non riesce mai ad afferrare sé stesso. Ha in sé la tara del nulla. Da qui, la nullificazione del mondo, poiché le cose sono quelle che sono in sé, ma non ne hanno coscienza. Esse non hanno senso, come non ha senso la coscienza umana; sono una realtà di fronte alla quale l’unico atteggiamento possibile della coscienza umana non può che essere la nausea (Saggi, La nausea). Con Sigmund Freud e la sua scuola il concetto di coscienza entra nella psicoanalisi moderna. Per esigenze di brevità, data la vastità del pensiero freudiano, mi limito a fornire accenni esplicativi sui più importanti contributi che lo psicoanalista austriaco ha fornito alla scienza contemporanea, con l’indagine della mente umana e dei suoi processi: i concetti di coscienza, preconscio e inconscio. La coscienza è downloadfacilmente accessibile perché in stretta e immediata connessione con la realtà che ci circonda: essa è sempre vigile, razionale, presente e non vive, perciò, di ricordi passati. Freud (immagine a sinistra) considera la coscienza come un dato dell’esperienza individuale. La assimila alla percezione, considera come essenza di quest’ultima la capacità di ricevere qualità sensibili e affida questa funzione di percezione-coscienza ad un sistema autonomo e funzionante in base a principi quantitativi. Tra la coscienza e l’inconscio, è collocato il preconscio. Esso incamera tutte le esperienze passate, che possono essere fatte emergere con facilità: attraverso uno sforzo, grande o piccolo, dipende dal ricordo, si può riscoprire qualcosa che è accaduto. Al preconscio, dunque, vi si può accedere grazie alla ragione, senza grosse difficoltà. L’inconscio. In esso risiedono desideri vergognosi, impulsi repressi, esperienze traumatiche rimosse. Tutto ciò che si vuole cancellare definitivamente e domare con la ragione si inabissa in questo spazio di ricordo eterno. Tutto ciò che accade o è accaduto in un passato, anche remotissimo, viene divorato dall’inconscio e mai viene dimenticato (L’interpretazione dei sogni).

 

Meister Eckhart – Il pensiero che varca il limite

 

di

Gianfranco Ravasi

 

«Tutti i mistici sono pericolosi da leggere, ma è un bel rischio che si deve correre». Così scriveva un famoso teologo svizzero divenuto cardinale, Charles Journet (1891-1975). Quanto abbia ragione lo si evince dalla lettura di Meister Eckhart, un domenicano sassone nato attorno al 1260, magister a Parigi, processato presso la corte papale di Avignone, ove forse muore nel 1328. Il 27 marzo 1329 papa Giovanni XXII con la bolla In agro dominico condannava 28 proposizioni del Maestro, il cui pensiero – spesso incandescente – dilagava ormai come lava ardente nel cuore e nella mente di molti, non di rado coagulato in stampi deformi e persino devianti o apocrifi…

Continua a leggere l’articolo

 

Meister Eckhart