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Dio, il re e il cavaliere

L’epica medievale e le chansons de geste

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Mentre la Letteratura Italiana sonnecchiava ancora a letto, raggomitolata tra le coperte, quelle nelle altre due lingue più simili all’italiano, la francese e la spagnola, si erano già alzate, lavate, vestite e stavano facendo colazione con pane, burro, marmellata e un cappuccino bollente. I francesi e gli spagnoli, a partire dall’XI secolo, cominciarono a produrre opere letterarie di altissimo livello: in Spagna e Francia settentrionale, le cosiddette Chansons de geste (canzoni di gesta) e i romanzi cortesi; in Francia meridionale, invece, la splendida poesia, soprattutto amorosa, dei trovatori. Non che gli spagnoli e i francesi del nord fossero meno galanti con le donne, che gli piacesse di più fare la guerra o che portassero i pantaloni più lunghi dei provenzali, ma, condizioni storiche e linguistiche diverse tra queste regioni, causarono lo sviluppo di generi letterari diversi. carlomagnoNella Francia settentrionale, fin dal V secolo, c’erano stati i Franchi la cui presenza aveva prodotto effetti anche sul francese antico. A Sud, al contrario, le popolazioni locali avevano interagito poco con gli invasori e con la loro lingua. Accadde, quindi, che, col tempo, si formassero due lingue, sempre francesi, ma un po’ diverse tra loro: la lingua d’oil, o oitano, a nord, e la lingua d’oc, o occitano, a sud. Queste erano chiamate lingue del sì perché, se un cavaliere avesse chiesto a una principessa di Parigi di uscire con lui, lei gli avrebbe risposto oil, cioè sì. Se a chiederlo fosse stato un cavaliere di Montpellier alla dama vicina di castello, questa gli avrebbe risposto oc, cioè, sempre sì. Se glielo avessi chiesto io, tutt’e due mi avrebbero risposto no e basta, e, siccome non so come si dice “no e basta” in oitano e in occitano, lasciamo perdere e andiamo avanti. Per quanto riguarda la penisola Iberica, gli arabi che vi erano giunti agli inizi dell’VIII secolo, non avevano creati troppi stravolgimenti alla lingua degli abitanti di quelle terre, se non l’introduzione di parole nuove e qualche cambio di accento nella pronuncia di quelle in uso. Roba da poco, quindi.Song-of-Roland-778

Le chansons de geste, scritte in lingua d’oil in Francia settentrionale, erano poemi epici in versi, detti canzoni perché i giullari (che non erano soltanto rozzi comici, saltimbanchi o clown, come spesso sono raffigurati, ma dei veri e propri lettori Mp3 umani, istruiti e colti), girovagando per le piazze delle città e per i castelli, narravano, cantando, spesso accompagnati da un’orchestrina, viella, lira, flauto, tamburelli e campane, storie che impressionavano e appassionavano molto nobili e popolani. Dalla viva voce di un giullare si potevano ascoltare le avventure e le gesta di re, paladini, cavalieri e uomini coraggiosissimi; pericoli, disastri, fortune e sfortune; fughe, tradimenti e morti ammazzati; teste che saltavano dai colli e fiotti di sangue che schizzavano da tutte le parti; guerre e battaglie, combattute in casa e in trasferta, contro infedeli, feudatari rivali e nemici di ogni genere. Quando, poi, quegli stessi giullari, o i monaci, oppure altri volenterosi, cominciarono a mettere quei racconti cantati per iscritto, ordinandoli per argomenti (i cosiddetti cicli carolingio e bretone o arturiano) e personaggi, furono così gentili da permetterci, ancora oggi, di poterli leggere.

La Chanson de Roland 

Il poema epico più famoso di tutti, la cui materia sarebbe stata ripresa anche in Italia da Matteo Maria Boiardo e da Ludovico Ariosto, è la Chanson de Roland. Questa canzone, appartenente al ciclo carolingio, fu composta, intorno al 1100, da un certo Turoldo. Conosciamo il suo nome perché, all’ultima pagina, lui stesso mise la firma, concludendo così: “La gesta scritta qui da Turoldo ha fine”. L’autore prese spunto da un fatto realmente accaduto: la battaglia di Roncisvalle, combattuta il 15 agosto del 778. Mort_de_RolandLa retroguardia dell’esercito di Carlo Magno, comandata dal paladino Rolando, fu attaccata e annientata dai baschi, alleati dei saraceni. Turoldo amplia questo episodio, raccontando una lunghissima storia. Re Carlo combatteva vittoriosamente i mori in Spagna. Soltanto la città di Saragozza gli resisteva e non gli si voleva arrendere in nessun modo. Il re saraceno Marsilio mandò i suoi ambasciatori da Carlo, giurandogli di volersi convertire al Cristianesimo e di diventare suo vassallo. Era solo un inganno. Rolando, più furbo di tutti, capì il trucco e suggerì al suo sovrano di ignorare le proposte del nemico, continuando, piuttosto, a combatterlo, fino alla presa definitiva di Saragozza. L’infame conte Gano, tanto invidioso di Rolando da non vedere l’ora di farlo fuori, si oppose e, con lui, la maggior parte del Consiglio di guerra. Su proposta di Rolando, quindi, proprio Gano fu inviato al campo dei mori per trattare, con il loro re, le pesantissime condizioni di resa imposte da Carlo. Mentre vi si dirigeva, pensò di tradire il suo re e, in un colpo solo, di eliminare anche Rolando. Il perfido conte propose a Marsilio di far finta di accettare quanto ordinato dal re cristiano. Così fu fatto. Carlo Magno e il suo esercito abbandonarono la città, lasciandosi alle spalle la sola retroguardia, capitanata da Rolando, con i Dodici Pari e 20.000 soldati. Quando il grosso delle truppe aveva già oltrepassato la gola di Roncisvalle, Marsilio tese l’agguato al valoroso paladino e ai suoi uomini. Rolando, nonostante la malaparata, si rifiutò di suonare l’olifante, il corno il cui suono avrebbe richiamato Carlo e il resto dell’esercito. Fece, pertanto, la fine del topo in trappola, morendo con le mani giunte sul petto, come un buon cristiano. Il re franco, comunque, tornò indietro in tempo per sbaragliare i mori, disperderli e inseguirli fino a che tutti si gettassero nel fiume Ebro, annegando. Tornato ad Aquisgrana, processò il lurido Gano, ordinando che fosse legato a quattro cavalli, due alle gambe e due alle braccia. Il traditore fu squartato. Rolando era stato vendicato. Molto tempo dopo, quando Carlo aveva più di duecento anni, una notte gli apparve in sogno l’Arcangelo Gabriele. chanson-roland-roncevauxQuesti gli annunziò l’immediata partenza per Infa, dove avrebbe dovuto aiutare il re Viviano a combattere altri mori. Così finì la storia. Turoldo, come è chiaro, aggiunse molti elementi fantasiosi alla realtà dei fatti. Questo perché egli doveva, non soltanto intrattenere chi lo ascoltasse, ma, soprattutto, mostrare loro esempi retti da seguire.  Gli eroi di queste canzoni di gesta erano un po’ come i personaggi della televisione di oggi: tutti volevano e, soprattutto, dovevano essere come loro. Le canzoni di gesta erano caratterizzate dalla presenza e dalla messa in onda di precisi valori: la lealtà verso il sovrano, la fede in Cristo, il senso dell’onore e l’eroismo in battaglia. Tutto racchiuso in un ineluttabile destino, scritto da sempre, che non lasciava ai protagonisti alcuna possibilità di azione personale: o erano e agivano in quel modo, oppure, avrebbero dovuto fare i bagagli e trasferirsi in qualche altro tipo di opera. O mangi ‘sta minestra, o ti butti dalla finestra, in sostanza! In un’epoca dominata esclusivamente dal Cristianesimo e dalla sua morale, questi erano i messaggi pubblicitari che le emittenti cartacee diffondevano via manoscritto: i re dovevano sembrare più o meno come Gesù; i paladini, sempre dodici, gli apostoli; non mancava mai il Giuda di turno; i morti in battaglia erano tutti martiri e quelli più importanti, santi; ogni combattimento diventava una vera e propria guerra santa; pentimenti finali e conversioni al Cristianesimo, l’epilogo necessario. Era come leggere il Vangelo e gli Atti degli Apostoli con i nomi dei protagonisti sostituiti. Altri poemi del ciclo carolingio sono la Chanson de Guillaume, dedicata alla saga di Guglielmo d’Orange e della sua famiglia, a salire e a scendere, cioè, prima e dopo di lui; il Renaut de Montauban; il Girart de Roussillon e il Pelérinage Charlemagne. Un posto particolare occupano le canzoni di Crociata, nelle si esaltavano le gesta dei cavalieri occidentali nelle guerre per liberare il Santo Sepolcro, a Gerusalemme: la Chanson d’Antioche e Le Chevalier au cygne (il Cavaliere del cigno), quel Goffredo di Buglione, comandante dell’esercito cristiano nella Prima Crociata. Di tutte queste, però, non vi racconto le trame altrimenti, se state leggendo di pomeriggio, fate notte, se, invece, è già sera, fate mattina.

Il Cantar de mio Cid

Giusto per rimanere nell’epica, c’è un altro poema, non in Francia, ma in Spagna, di cui vi voglio parlare: il Cantar de mio Cid. Vi sono narrate le imprese eroiche di Roderigo Diaz de Bivar, altrimenti detto El Cid Campeador, vissuto tra il 1043 e il 1099. La storia, o meglio, la canzone, prende avvio quando Roderigo fu accusato di aver sgraffignato una parte dei tributi che il re dei mori di Andalusia doveva ad Alfonso VI di León. Per questo, fu mandato in esilio. Lasciò la moglie Jimena e le figlie nel monastero di Cardeña, per paura che qualcuno potesse insidiarle, e, alla testa di molti altri cavalieri, si mise a far la guerra ai mori. Conquistò Valencia e cacciò il re di Siviglia, ottenendo, alla fine, il perdono del re. Per dimostrargli ulteriore gratitudine, il sovrano benedisse il matrimonio delle sue due figlie, Elvira e Sol, con i conti di Carrión.22 Questi due perdigiorno, però, ogniqualvolta c’era da andare a combattere se la prendevano con le mogli, frustandole e, poi, squagliandosela. Il Cid, stanco delle angherie subite dalle figlie, chiese giustizia a re Alfonso che inviò i suoi soldati ad ammazzare quei due mariti violenti. Le giovani si risposarono, una col figlio del re di Navarra, l’altra con quello del re d’Aragona, Tutti furono invitati ai due matrimoni e il povero Cid Campeador, eroe di tante battaglie, dovette chiedere un prestito in banca per pagare le ingentissime spese, perché, allora, le spese del banchetto nuziale e dei musici erano a carico del padre della sposa. Anche questo poema, tra i primissimi documenti della letteratura spagnola, celebrava quei valori comuni a tutta l’epica: la fede in Dio, la devozione al proprio re, la lotta agli infedeli, l’onore e l’eroismo. Due piccoli tip linguistici sull’appellativo di Roderigo Diaz: Cid deriva dalla parola araba sayyd, che vuol dire signore; Campeador, invece, è di provenienza latina, da campi doctor, maestro, o anche campione, sul campo di battaglia. Esempi di parole arabe e latine entrate in uso, ovviamente adattandosi, nella lingua spagnola, così come, casi lessicologici analoghi, sono presenti in tutte le lingue dei territori dominati, fino a qualche secolo prima, dall’aquila di Roma.

 

 

Giovanni Pico della Mirandola e la sua memoria prodigiosa

 

Giovanni Pico nacque a Mirandola, in provincia di Modena, il 24 febbraio 1463, dal conte Giovan Francesco I e da Giulia Boiardo, zia di Matteo Maria Boiardo, insigne letterato e poeta quattrocentesco. Pico fu un vero prodigio della natura: passò la sua breve vita, morì a soli 31 anni, a studiare e raccogliere libri di ogni specie. Parlava latino, greco, ebraico e arabo. Conosceva la filosofia platonica e aristotelica a menadito, forse meglio degli stessi Platone e Aristotele. Fu studioso rigoroso della cabala ebraica che, grazie a lui, fu introdotta in Europa. Aveva una memoria portentosa, si diceva che conoscesse a memoria tutta la “Divina Commedia” di Dante (circa 4000 versi) e che, una volta terminata, riuscisse a recitarla al contrario, dall’ultima parola alla prima, utilizzando degli stratagemmi e delle tecniche, rivelati in alcuni suoi scritti. Già durante la sua esistenza, quindi, fu considerato un personaggio mitico. Per quanto riguarda il pensiero, Pico, come Marsilio Ficino, tentò avvicinare tutte le filosofie del mondo, attraverso alcune verità generali, in modo che i dotti si potessero mettere d’accordo all’insegna della pace e del sapere universale (servirebbe oggi un uomo del genere!) Per questo, cercò di organizzare, a Roma, una sorta di congresso, al quale avrebbero dovuto partecipare autorità, luminari, professori e scienziati del mondo allora conosciuto, per discutere novecento tesi che lui aveva elaborato, “proposizioni dialettiche, morali, fisiche matematiche, teologiche, magiche, cabalistiche, sia proprie che dei sapienti caldei, arabi, ebrei, greci, egizi e latini”. Allo scopo, scrisse, nel 1486, l’“Oratio hominis dignitate” (Orazione sulla dignità dell’uomo), un’introduzione all’incontro. Papa Innocenzo VIII, però, non solo si oppose alla cosa, ma lo costrinse a fuggire in Francia, dove fu arrestato e rilasciato dopo un mese, grazie all’intervento di Lorenzo de’ Medici. Rientrato a Firenze, se la prese con gli umanisti della sua compagnia, perché questi gli ripetevano che la filosofia, da lui tanto amata, fosse linguisticamente barbara. Rispondeva: “Ragazzi, il linguaggio è come la gonna di una donna, serve soltanto a vestire i concetti. L’importante è quello che c’è sotto!” (Questo esempio, ovviamente, è mio. Il sommo letterato si espresse in tutt’altro modo!”). Il 17 febbraio 1494, dopo due settimane di febbre strana, Pico morì. Si pensò ad un avvelenamento, da parte del suo segretario, ma niente fu mai provato. Sulla lapide della tomba fu inciso l’epitaffio degno di un re: “Joannes iacet hic Mirandola. Cetera norunt et Tagus et Ganges forsan et Antipodes”, ovvero, “Qui giace Giovanni di Mirandola. Il resto lo sanno sia il fiume Tago, sia il Gange e forse anche gli Antipodi!”. Un personaggio davvero unico e ancora troppo poco conosciuto!

 

Pubblicato l’1 febbraio 2017 su La Lumaca

 

Ferrara, gli Estensi e Matteo Maria Boiardo

 

Matteo Maria Boiardo nacque in una nobile famiglia di Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, nel 1440. Ebbe, fanciullo, due maestri di grandissima qualità: il nonno, Feltrino Boiardo, e lo zio materno, Tito Vespasiano Strozzi, famoso poeta, i quali gli instillarono l’amore per le lettere, avviandolo agli studi umanistici. L’influsso di questi insegnamenti non tardò a manifestarsi. Matteo_Maria_BoiardoA soli tredici anni, infatti, scrisse il suo primo libro, il Carme in lode degli Estensi, perché, anche allora, i politici e i protettori dovevano essere adulati a dovere. Tutto questo, qualche anno più tardi, gli valse, anche a causa delle contese contro i parenti circa l’eredità del padre defunto, l’ingresso, a Ferrara, alla corte degli Estensi, i quali lo colmarono di onori e gli concessero i governatorati di Modena e, poi, di Reggio Emilia. Questi signori padani avevano creato intorno a sé un ambiante davvero raffinato, tanto da rendere la corte ferrarese una delle più eleganti, anche culturalmente, di tutto il Nord Italia. Già agli inizi del ‘200, trovatori vi erano stati ospitati e, vicende politiche permettendo, i rampolli della famiglia d’Este si erano sempre comportati da munifici mecenati. All’epoca del Boiardo, le sorti della dinastia erano tenute da Borso, fino al 1471, e da Ercole I, fino al 1505. A Reggio Emilia il poeta incontrò una bella donna, Antonia Caprara, della quale si innamorò e per la quale compose un intero canzoniere, intitolato Amorum libri tres  (Tre libri di cose amorose). 180 componimenti, divisi in tre gruppi di 60 ciascuno, dedicati rispettivamente alle gioie, alle pene e ai rimpianti d’amore.

L’Orlando Innamorato

La sua opera più celebre è l’Orlando Innamorato, un poema in tre libri, interrotto quando l’Autore passò a miglior vita. In esso, Boiardo mise insieme la materia carolingia e quella bretone, 5616481-Mintrecciando azione e amore, anche per compiacere le dame e i cavalieri della corte estense, i quali volevano sentirsi raccontare storie che avessero a che fare con il loro mondo, con il loro stato e con i loro amori. Il poeta li accontentò. Combattimenti, innamoramenti, liti, duelli, belle donne, gentilezza, buone maniere, conversioni e chi più ne ha, più ne metta. Tra i personaggi principali, Angelica, è il propulsore di tutto il poema. Ella è una creatura bellissima, ma non nobilita o ingentilisce gli uomini, come le donne degli stilnovisti, anzi, li fa perdere. Sa essere delicata e amorevole ma anche ammaliatrice e crudele. Anche i paladini, Orlando, Rinaldo e altri, sono lontani dall’esprimere compiutamente i valori che avevano caratterizzato l’epica classica. Essi, infatti, sono rappresentati anche come uomini con debolezze, vizi, stolta testardaggine, più adusi a correre, folli, dietro le sottana che a svettare sui campi di battaglia, pur restando, comunque, valenti guerrieri.

Boiardo

Angelica, affascinante figlia di Galafrone, re del Cataio, si reca alla corte di Carlo Magno per implorare aiuto contro i nemici Tartari. Orlando, il migliore paladino di Francia, se ne innamora all’istante e la insegue fino al suo regno, in Oriente. Per difenderla, sconfigge il re di Tartaria, Agricane, che vuole sposarla con la forza e, tanto fuori di sé per amore, arriva addirittura a battersi contro il cugino Rinaldo, colpito, di contro, da una magia di odio per Angelica. Carlo Magno, intanto, è attaccato dal re indiano Gradasso, che intende sottrargli la spada di Orlando e il cavallo di Rinaldo. Senza i suoi migliori guerrieri, l’imperatore è incredibilmente salvato da Astolfo, un paladino fisicamente scarso ma molto furbo. not_detected_232244-1635Dopo ciò, Astolfo parte per l’Oriente, per andare a recuperare Orlando e Rinaldo. Giunto colà, durante il loro duello, si schiera dalla parte di Rinaldo. Angelica, preoccupata per le sorti Rinaldo, di cui è innamorata,  interrompe lo scontro e ordina ad Orlando di recarsi a distruggere il giardino della maga Falerina. Contro ogni pronostico, Orlando compie l’impresa e riesce perfino a salvare due volte il cugino e gli altri cavalieri, sia dalla maga Morgana della Fortuna, sia dal re Manodante delle Isole Lontane. Incontra, poi, Origille, una malvagia traditrice, innamorandosi stupidamente anche di lei. Ripetutamente imbrogliato e derubato dalla donna, finalmente ritorna da Angelica, giusto in tempo per salvarla dalla regina Marfisa. Astolfo, frattanto, è rimasto intrappolato tra le grinfie dalla maga Alcina, innamorata di lui. Nello stesso tempo, Agramante, re d’Africa, decide di invadere la Francia, ma ha bisogno del giovane Ruggero, prigioniero dal mago Atlante. Agramante invia il piccolo e viscido ladro Brunello in Oriente, per rubare l’anello magico di Angelica, che rende invisibili e, con esso, Brunello libera Ruggero dal mago. Orlando e gli altri paladini ritornano in Francia con Angelica, essendo giunta loro notizia dall’invasione di Agramante, seguito dal possente Rodomonte, dal giovane Ruggero, da Marsilio, re di Spagna, con l’invulnerabile nipote Ferraù.pupi_mostra Malgrado il valore dei francesi, a cui si è aggiunta la paladina Bradamante, sorella di Rinaldo, i musulmani sfondano le linee cristiane sui Pirenei. Il figlio di Agricane, Mandricardo, giunge, con Gradasso, in Francia, per vendicare il padre sconfitto da Orlando. L’esercito di Carlo Magno si ritira a Parigi, dove Agramante lo assedia. Disinteressandosi completamente della guerra, Orlando e Rinaldo, ora colpito da una magia d’amore per Angelica, continuano a inseguirla. Il mago Atlante, nel tentativo di recuperare Ruggero, di cui Bradamante era innamorata, ricambiata, porta disordine e trambusto da tutte le parti, con le sue magie e i suoi trucchi. Boiardo fece giusto in tempo a verseggiare che dall’unione di Ruggero e Bradamante sarebbe stata originata la casata degli Estensi. Morì, forse avvelenato da quegli stessi parenti che in gioventù lo avevano costretto ad abbandonare il suo palazzo di Scandiano. L’Orlando Innamorato ebbe fortuna fino a quando Ludovico Ariosto ne continuò la narrazione dei fatti nell’Orlando Furioso. Poi, non fu più ristampato per circa tre secoli.