Sin dai decenni immediatamente successivi alla morte di Dante cominciarono a tenersi pubbliche letture dei suoi versi, sovente accompagnate da interventi analitici di commentatori. Tra i primi, Giovanni Boccaccio, nel 1373, a Firenze. La grandezza e l’immutato fascino dell’opera di Dante si aprono, oggi, alla tecnologia, pur nella secolare tradizione della lectura espressiva e della lectura esegetica. Questo è lo spirito che anima la realizzazione di Riccardo Piroddi. Immagini, musiche, effetti sonori e gli stessi versi danteschi, magistralmente interpretati dalla potente voce recitante di Giulio Iaccarino, danno vita ad alcuni tra i più celebri personaggi dell’Inferno, prima cantica del Divino Poema (Paolo e Francesca, Farinata degli Uberti, Pier delle Vigne, Ugolino della Gherardesca e altri).
Una lunga tradizione di pensiero si è concentrata in un libello dalle origini leggendarie e dalla storia redazionale molto vivace, intitolato Trattato dei tre impostori, dove Mosè, Cristo e Maometto sono stati definiti con l’epiteto del titolo: impostori, appunto. Ne ripercorro, brevemente, le fasi redazionali. L’esistenza di un trattato latino, De tribus impostoribus, sebbene sia stata molte volte affermata e data per certa fin dal XIII secolo, non è mai stata dimostrata, non essendo giunta fino a noi alcuna copia. I probabili autori sono stati identificati, nel tempo, con Averroè, Federico II, Pier delle Vigne, Poggio Bracciolini, Erasmo da Rotterdam, Pietro Aretino, Guillaume Postel, Michele Serveto, Jean Bodin, Bernardino Ochino, Girolamo Cardano, Pietro Pomponazzi, Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Giulio Cesare Vanini, Baruch Spinoza e altri. Un secondo trattato latino, sempre intitolato De tribus impostoribus, anonimo, è stato composto nel 1688 e stampato, a Vienna, nel 1753. Un terzo trattato, intitolato La Vie et l’Esprit de Mr Benoît de Spinosa, è stato pubblicato, per la prima volta, anonimo e in francese, a L’Aia, nel 1719. Solo le successive edizioni avrebbero assunto il titolo di Traité des trois imposteurs. Eccone alcuni passaggi (tratti da Trattato dei tre impostori. La vita e lo spirito del signor Benedetto De Spinosa, Einaudi, 1994): “La stessa nozione di Dio è incerta per coloro che pure ne sostengono l’esistenza, i quali danno «la definizione di Dio ammettendo la loro ignoranza», senza comprendere «chi lo ha creato» o affermando «che è lui stesso il principio di sé», sostenendo così «una cosa che non capiscono. Dicono: non comprendiamo il suo inizio; dunque l’inizio non esiste». Avviene che la sua nozione sia «il limite di un’astrazione intellettuale», e venga definito a volte Natura, a volte Dio, avendone idee disparate. Chi chiama Dio «la connessione delle cose», chi «un essere trascendente, perché non può essere visto né compreso». Si sostiene, poi, che Dio sia amore, benché egli, in quanto creatore, abbia dotato l’uomo di una natura opposta alla sua e lo abbia sottoposto «alla tentazione dell’albero, sapendo che avrebbe commesso una trasgressione fatale a se stesso e ai suoi discendenti». Per riscattare poi la colpa dell’uomo, Dio farà subire a suo figlio i peggiori tormenti: «nemmeno i barbari credono a storie così menzognere». Ci si deve chiedere, allora, perché mai bisognerebbe tributare un culto a Dio, regolato da un’istituzione religiosa, oltre tutto in considerazione del fatto che un essere perfetto non dovrebbe averne bisogno: «il bisogno di essere onorato è segno d’imperfezione e d’impotenza». In realtà, «ognuno comprende che è interesse dei governanti e dei potenti stabilire una religione per mitigare gli istinti violenti del popolo». Si dice che la presenza di una coscienza morale sarebbe la prova che Dio ha dato all’uomo la nozione del bene e del male e conseguente timore della punizione, ma in realtà le cattive azioni alterano l’armonia sociale e chi le commette teme le sanzioni della società umana. È la ragione naturale a illuminare il comportamento morale dell’uomo. Il resto è «un’invenzione dei nostri oziosi sacerdoti, che così accrescono considerevolmente il loro tenore di vita». Nessuna religione è in grado di dimostrare né l’esistenza né la natura di un’essenza divina, anche se sempre vi è chi ha preteso di conoscerla: i pagani dell’antichità, il re Numa, Mosé, Maometto, i bramini indiani, i cinesi, ciascuno contraddicendo gli altri. «Si credette che il giudaismo correggesse il paganesimo, il cristianesimo il giudaismo, Maometto entrambi, e si attende il correttore di Maometto e dell’islamismo». È, dunque, naturale sospettare che i fondatori delle religioni siano tutti degli impostori. Del resto, ogni religione accusa tutte le altre di impostura e, in particolare nel cristianesimo, ogni setta cristiana «accusa l’altra di aver corrotto il testo del Nuovo Testamento». Occorrerebbe, poiché non è evidentemente possibile credere a ogni religione, non credere a nessuna, «finché non si sia trovata la vera religione». Pertanto, per stabilire la verità di ogni singola religione, bisognerebbe esaminare con cura le affermazioni dei loro singoli fondatori: «non bisogna prendere affrettatamente per dogma o per testimonianza sicura quel che il primo che passa abbia asserito». Operazione molto difficile, che si può dubitare possa mai giungere a una conclusione effettiva”.
Io credo che Mosè, Cristo e Maometto siano stati sì, impostori, ma filosofici, considerata la sostanziale fallacia dei loro insegnamenti metafisico-teologici, e, allo stesso tempo, li ritengo i più grandi politici della storia, visti gli “iscritti” ai loro “partiti” e quanto questi hanno fatto e continuano a fare in nome loro. Niente di divino o rivelato, quindi. Solo ignoranza, superstizione e credulità da parte di chi, ancora oggi, segue questi tre “segretari di partito” e i loro diktat, da un lato, antivitali, per dirla alla Nietzsche, e, dall’altro, espansionistici. Tutto ciò non fa altro che dimostrare, dunque, la natura esclusivamente politica dell’azione dei tre fondatori di religioni (Ebraismo, Cristianesimo e Islam), come enunciato nel pamphlet, “veri e propri impostoridediti alla gloria personale e all’asservimento dei popoli”.
In occasione del 695° anniversario della morte di Dante Alighieri (14 settembre 1321 – 14 settembre 2016), la Libreria Indipendente di Sorrento ha reso omaggio al poeta con la videoproiezione della “Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi”, realizzata da Riccardo Piroddi, pubblicista, blogger e autore, nel 2011, del saggio dal titolo, Storia (non troppo seria) della Letteratura Italiana, Edizioni Albatros.
Sin dai decenni immediatamente successivi alla morte di Dante cominciarono a tenersi pubbliche letture dei suoi versi, sovente accompagnate da interventi analitici di commentatori. Tra i primi, Giovanni Boccaccio, nel 1373, a Firenze. La grandezza e l’immutato fascino dell’opera del Sommo Poeta si aprono, oggi, alla tecnologia, pur nella secolare tradizione della lectura espressiva e della lectura esegetica. Questo è lo spirito che anima la realizzazione di Riccardo Piroddi. Immagini, musiche, effetti sonori e gli stessi versi danteschi, magistralmente interpretati dalla potente voce recitante di Giulio Iaccarino, hanno dato vita ad alcuni tra i più celebri personaggi dell’Inferno, prima cantica del “Divino Poema” (Paolo e Francesca, Farinata degli Uberti, Pier delle Vigne, Ugolino della Gherardesca e altri), le cui vicende storiche e poetiche sono state oggetto di riflessioni, da parte dell’autore. In conclusione della serata, Mimmo Bencivenga, proprietario della Libreria Indipendente di Sorrento, ha letto pagine su Dante e Beatrice, tratte dalla “Storia (non troppo seria) della Letteratura Italiana” di Riccardo Piroddi.
Cominciamo con fornire qualche breve ragguaglio di ordine generale sulla Divina Commedia. Dante, innanzi tutto, non la titolò mai in questo modo, ma semplicemente Comedía. Fu Giovanni Boccaccio ad aggiungere, qualche tempo dopo la morte dell’Autore, l’aggettivo Divina, perché era Dio il padrone dei luoghi visitati dal poeta. Nella Divina Commedia è raccontato il viaggio che il sommo poeta immagina di compiere nei tre regni dell’Aldilà, tra anime dannate, spiriti penitenti e beati nella gloria del Signore. Il poema è diviso in tre cantiche, l’Inferno, il Purgatorioe il Paradiso, composte, ciascuna, di trentatré canti di terzine, tranne l’Inferno, che ne ha uno in più, fungente da prologo generale. Il cammino, cominciato il 7 aprile 1300, giovedì santo, e finito il successivo mercoledì 13, ha come intento principale quello di mostrare agli uomini come stessero le cose dal lato dei morti, a cosa si andasse incontro se si fosse disobbedito a Dio e quali fossero, invece, i premi, se si fosse fatta la sua volontà. Il pellegrino non è solo, perché nell’Inferno e nel Purgatorio è il grande letterato latino Virgilio ad accompagnarlo, mentre, dall’ingresso del Paradiso Terrestre,è Beatrice, la sua Beatrice, a guidarlo sino a Dio. L’Autore, sostituendo la sua giustizia a quella divina, riempie il mondo ultraterreno dei personaggi più diversi: dai re ai grandi condottieri, dagli scrittori antichi ai filosofi, dai protagonisti delle storie della Bibbiae della mitologia classica a quelli dei romanzi cortesi, fino ai concittadini, morti qualche anno prima che cominciasse a scrivere. Questo perché, i lettori, conoscendo di chi si trattava, rimanessero maggiormente impressionati in negativo o in positivo. Bene, ora possiamo andare all’inferno!
Dante si è perso in una selva oscura ed è già impaurito di suo, quando gli si parano davanti tre bestiacce: un leone, una lonza (lince) e una lupa. Il poveretto non sa più che pesci prendere, ma, per fortuna, arriva a salvarlo Virgilio e, insieme, cominciano a scendere verso il baratro. L’Inferno ha la forma di un cono, che arriva fino al centro della Terra, formatosi quando Dio buttò giù dal suo regno Lucifero, rimasto conficcato nel fondo alla voragine. Il luogo della dannazione infinita, tra burroni, precipizi, ripe, dirupi e fossi, è diviso in nove cerchi, nei quali i dannati pagano per le loro colpe: quanto più grossa l’hanno combinata durante la vita, tanto più giù scendono. Si comincia dall’antinferno, in cui sono quelli che vissero tanto per vivere, forse solo perché erano nati (gli ignavi). Oltrepassata la porta dalla scritta terribile della Città Dolente e il fiume Acheronte, dove il nocchiero Caronteprende a remate sulla schiena le animacce che non si muovono a salire sulla sua barca, si trova il Limbo, nel quale bambini e persone perbene nate prima di Cristosospirano e si struggono. Da lì, passando davanti a Minosse, il giudice infernale, il quale attorciglia la coda tante volte quante il numero del cerchio dove lo spiritaccio deve andare a scontare la sua pena, si trovano i veri maledetti da Dio. Nei primi sei cerchi ci sono i cosiddetti incontinenti: quelli che pensavano sempre alla stessa cosa (i lussuriosi); quelli che stavano sempre a masticare qualcosa e ad ingozzarsi (i golosi); quelli che avevano la mano corta, i genovesi e gli scozzesi(gli avari) e quelli che ce l’avevano bucata (i prodighi); quelli che si incazzavano per un nonnulla e quelli che se ne fregavano di ogni cosa per tutta la vita (gli iracondi e gli accidiosi). Nel settimo cerchio Dante trova i violenti contro il prossimo, i violenti contro se stessi e i violenti contro Dio, l’arte e la natura: quelli che dicevano la verità contro le bugie della Chiesa (gli eretici); quelli che avevano il grilletto facile e quelli che ti scamazzavano per rubarti pure le mutande e i calzini (gli assassini e i briganti); quelli che l’avevano fatta finita prima del tempo e quelli che guadagnavano duemila euro al mese e ne spendevano cinquemila (i suicidi e gli scialacquatori); quelli che nominavano Dio, la Madonna e i santi senza motivo, specialmente all’interno di volgari e colorite espressioni (i bestemmiatori); quelli che ti prestavano ventimila euro e dopo un mese ne volevano cinquantamila, sennò ti facevano incendiare il negozio (gli usurai); quegli uomini col vizio di andare con gli altri uomini (i sodomiti). Nell’ottavo cerchio, invece, ci sono i fraudolenti contro chi non si fida: quelli che cercavano di fregarti con il loro bell’aspetto (i seduttori); quelli che volevano imbrogliarti con le belle parole (i lusingatori); quelli che vendevano o compravano cose sacre fuori dalle sagrestie (i simoniaci); quelli che predicevano il futuro, pure se ci azzeccavano (gli indovini); quelli che vivevano facendo imbrogli e pacchi vari(i barattieri); quelli che davanti ti dicevano che eri bravo e dietro che non eri buon a niente (gli ipocriti); quelli che avevano le mani lunghe (i ladri); quelli che con i loro consigli ti sgarrupavano (i cattivi consiglieri); quelli che ti facevano fare a mazzate con tutti (i seminatori di discordia); quelli che stampavano e spacciavano soldi e monete false (i falsari). Infine, il nono cerchio, l’ultima zona, divisa in quattro parti, proprio la peggiore, patibolo eterno dei fraudolenti contro chi si fida: la Caina, con i traditori dei parenti, da Caino, che aveva ucciso il fratello Abele; l’Antenora, con i traditori della patria, da Antenore, che aveva venduto la città di Troia ai greci; la Tolomea, con i traditori degli ospiti, da Tolomeo, un sacerdote biblico che aveva fatto uccidere il suocero e i cognati dopo averli invitati a pranzo a casa sua; la Giudecca, con i traditori dei benefattori, da Giuda, il traditore di Cristo, sommo benefattore dell’umanità. Tutti questi disgraziati sono affogati nel fiume ghiacciato Cocito. E, nell’ultimo posto possibile, il buco del c..o del mondo, inficcatovi come un pecorone, Lucifero, un mostro con le ali di pipistrello e tre teste, nelle cui bocche maciulla i tre più schifosi peccatori di tutta la storia dell’umanità: Giuda, Brutoe Cassio, responsabili della morte dei due veri rappresentanti di quei poteri che, all’epoca di Dante, si dividevano il mondo: il religioso (Gesù) e il civile (Giulio Cesare).
Per comminare le pene alle anime infami, il poeta ricorre al sistema del contrappasso: in base a quello che di male avevano commesso nella vita, così pagheranno per l’eternità. I lussuriosi, ad esempio, lasciatisi trascinare dall’impeto delle passioni, sono sbattuti di qua e di là da venti fortissimi; i suicidi, che avevano voluto privarsi con violenza del loro corpo, sono imprigionati in alberelli secchi e brutti; i lusingatori, dopo aver coperto tutti di belle parole, false come loro, sono immersi nella merda, anche oltre il collo. Dante non si preoccupa affatto di usare un linguaggioadatto a questo luogo: bestemmie, male parole e mandate affanculo, lungo i canti, sono all’ordine del giorno, anzi, della notte, visto il posto. L’intera cantica, con i suoi dannati, è pervasa da una negatività, da un buio, da un rumore assordante e da una puzza così forte da apparire reale e da sembrare vera, soprattutto a quanti ne leggevano allora. Nonostante ciò, da questo vallone di pianti, di strilli e di tormenti vengono fuori, sublimate, figure memorabili, rimaste nella storia della letteratura mondiale: Paoloe Francesca, amanti anche nella dannazione, Farinata degli Uberti, valoroso nemico ghibellino dei guelfi di Dante, Pier delle Vigne, il consigliere dell’imperatore Federico II di Svevia, Brunetto Latini, il maestro di gioventù del poeta, Ulisse, che invitò i compagni a seguir virtute e canoscenza, e il conte Ugolino della Gherardesca, di cui colpisce, ancora oggi, la fine orrenda, insieme con i figli, nella Torre della Muda.
In un articolo precedente (leggi) avevo trattato la poetica della Scuola siciliana, riservandomi, successivamente, di illustrarvene i poeti. Detto fatto! Cominciamo dal più importante di essi, almeno dal punto di vista della carica: el padrino, per quelli che hanno vissuto sulla Luna negli ultimi vent’anni, il capo, il boss di tutta quanta la baracca, el magíco, il señor Pablo Es…scusate, ho rivisto il film “Blow” proprio qualche giorno fa!, l’imperatore Federico II di Svevia. È inutile che io, qui, mi dilunghi a descrivere la figura e il valore storico di quest’uomo, anche perché, non basterebbero duecento pagine. Dico soltanto che, se i coevi lo chiamarono Stupor mundi, certamente non era l’ultimo arrivato. Tutt’altro! Federico parlava correntemente almeno cinque lingue, scrisse un trattato sulla caccia col falcone, De arte venandi cum avibus (L’arte di cacciare con gli uccelli), la prima, vera opera, redatta in Occidente, su questo particolare argomento, elaborata con rigore scientifico e basata sull’esperienza e sulle numerose osservazioni, fatte personalmente in trent’anni, e componeva versi. Eccone alcuni:
Poi ch’a voi piace, amore, che eo degia trovare, faronde mia possanza ch’io vegna a compimento.
(“Poi c’a voi piace, amore“, vv. 1-4)
Omo c’è posto in alto signoragio e in riccheze abunda, tosto scende, credendo fermo stare in signoria. Unde non salti troppo omo ch’è sagio, per grande alteze che ventura prende, ma tuttora mantegna cortesia.
(“Misura, providenzia e meritanza“, vv. 9-14)
Giacomo da Lentini
Il “notaro”, come fu soprannominato, poi, dai poeti toscani, fu un funzionario imperiale, poiché la sua attività è documentata, alla corte di Palermo, per almeno un quindicennio. Fu proprio lui a inventare il sonetto, il componimento rimato tipicamente siciliano, e aveva l’aria di essere il caposcuola di tutti i poeti di corte. Scrisse sonetti e canzonette, circa trenta. A lui si deve anche la fissazione dei canoni della poesia siciliana, di cui ho già parlato nell’articolo precedente.
Amor è un desio che ven da core per abondanza di gran piacimento; e li occhi in prima generan l’amore e lo core li dà nutricamento.
(“Amor è un desio che ven da core“, vv. 1-4)
Giacomo, in sostanza, vuol significare che possiamo sì infatuarci di una donna, pur non avendola mai vista, ma l’amore vero e la passione nascono da altro: sono gli occhi, in definitiva, ad accendere il cuore! Se non si è mai vista in faccia una donna, è difficile che ci si possa innamorare davvero di lei, soprattutto perché potrebbe essere brutta. Effettivamente, ha ragione. Sentite cosa mi è capitato qualche anno fa: chiesi alla sorella di un mio collega se avesse avuto qualche amica da presentarmi, perché in quel periodo mi sentivo solo. Lei mi disse di sì e per una decina di giorni mi parlò, senza posa, di questa ragazza, di quanto fosse bella, descrivendomela in tutti i particolari, e ripetendomi, fino allo stremo, che fosse tanto dolce e delicata e che desiderasse avere un fidanzato. Non avendola mai vista, dopo quanto mi era stato raccontato, presi quasi una cotta per questa bellissima “idea”. Giunse, finalmente, il giorno del nostro primo appuntamento (pure quello mi era stato combinato!): ci saremmo dovuti incontrare in un bar. Quella sera, la piazza dove si trovava il locale, fortunatamente, era piena di gente. Quando arrivai e, da lontano, la intravidi accanto alla mia amica, scappai. Qualche minuto dopo, telefonai il mio collega chiedendogli di avvisare la sorella che avevo avuto un problema alla macchina ed ero rimasto per strada. Se prima di quell’incontro avessi potuto vedere almeno una foto di questa descritta Venere del Botticelli, quella sera sarei andato, direttamente, con i miei amici a bere una birra!
Pier delle Vigne
La pianta dalla quale Dante, nella selva dei suicidi, all’Inferno (Canto XIII, vv. 31 e sgg), spezzò un ramoscello secco, e che, lamentandosi, così gli parlò: “Ma che cosa stai facendo? Non vedi che mi fai male!”, racchiudeva l’anima di Pier delle Vigne, consigliere di Federico II, logoteta, cioè ordinatore di parole e documenti, poeta, morto suicida a causa dell’invidia delle malelingue infami, le quali, non solo gli fecero fare una figuraccia con la sua signora, ma lo inguaiarono seriamente davanti all’imperatore. Per la cronaca (giudiziaria), nacque a Capua, studiò diritto a Bologna e trovò lavoro alla corte di Palermo. Un brutto giorno, senza alcuna spiegazione, fu fatto arrestare e accecare, per tradimento, dall’imperatore in persona. In carcere si ammazzò, fracassandosi la testa contro il muro. Prima di questa tragedia personale, comunque, aveva vissuto anni felici, componendo canzoni e sonetti per le donne palermitane.
Amor, in cui disio ed ho speranza, di voi, bella, mi ha dato guiderdone; guardomi infin che venga la speranza, pur aspettando bon tempo e stagione; com’om ch’è in mare ed à spene di gire, quando vede lo tempo ed ello spanna e già mai la speranza no lo ‘nganna, così faccio, madonna, in voi venire.
(“Amor, in cui disio ed ho speranza“, vv. 1-8)
Stefano Protonotaro
Messinese, prestò servizio alla corte sveva. Il protonotaro, infatti, era quel magistrato preposto al controllo dei notai, addetti alla redazione degli atti della cancelleria del re. Servì anche il successore di Federico, il figlio Manfredi, per il quale tradusse, dal greco in latino, due trattati arabi di astronomia.
Pir meu cori alligrari, chi multu longiamenti senza alligranza e joí d’amuri è statu mi ritornu in cantari, ca forsi levimenti da dimuranza turniria in usatu di lu troppu taciri; e quandu l’omu ha rasuni di diri, ben di’ cantari e mustrari alligranza, ca senza dimustranza joi siria sempri di pocu valuri dunca ben di’ cantar onni amaduri.
(“Pir meu cori alligrari“, vv. 1-12)
Questa canzone è un documento importantissimo perché è l’unico componimento ad esserci pervenuto nella lingua che si parlava, a Palermo e dintorni, nel XIII secolo. Questi versi di Stefano Protonotaro, infatti, sono diversi da quelli degli altri poeti siciliani che avete letto sinora, quasi fossero in un’altra lingua, perché questi ultimi ci sono giunti attraverso codici toscani, trascritti o, meglio, tradotti in lingua toscana, da chi compilò, settecento anni fa, le prime antologie della poesia italiana.
Guido delle Colonne
Forse concittadino del Protonotaro o, forse, romano, giudice e funzionario di corte, ebbe l’onore, insieme con Giacomo da Lentini, di finire nel De vulgari eloquentia di Dante (Libro 2, cap. V), celebrato come sommo tra i poeti di Federico. Scrisse una Historia destructionis Troiae (Storia della distruzione di Troia) imitando, anzi, quasi traducendo, il Roman de Troie, e cinque canzoni molto elaborate dal punto di vista metrico, nelle quali cantò che, nonostante le inevitabili delusioni, l’amore fosse sempre una gioia senza fine.
Ma più deggio laudari Voi, donna caunoscente donde lo meo cor sente la gioi che mai non fina.
(“Gioiosamente canto“, vv. 41-44)
Cielo d’Alcamo
Ultimo di questa sequenza, ma non certo per importanza, è l’autore del più famoso componimento di tutta la Scuola Siciliana: il contrasto (dialogo poetico, serio o giocoso, tra persone reali o immaginarie) intitolato Rosa fresca aulentissima. Cielo, che per alcuni fu Ciullo, diminutivo di Vincenzullo, e per altri Cheli, diminutivo di Michele, nacque, forse, ad Alcamo, in provincia di Trapani. Come si chiamasse veramente, non è che a noi interessi più di tanto, quanto, invece, ciò che scrisse: il notissimo contrasto, appunto. Trentadue strofe di cinque versi ciascuna, tutte richieste, preghiere, suppliche e necessità di un giullare, il quale, evidentemente, era abbastanza ingrifato, ad una giovane donna, la quale, all’inizio faceva la preziosa e, poi, dopo aver forse fatto due conti, gli concesse la caramellina. Per convincerla, il menestrello gliele diceva di tutti i colori, promettendole amore eterno e giurandole che l’avrebbe seguita in convento, se si fosse monacata, o in fondo al mare, se si fosse annegata di proposito. La fresca signorina, la quale, dal canto suo, non era stupida e, sotto sotto, c’aveva voglia pure lei, gli rispose: “È inutile che le spari così grosse, picciottu meu! Non ci sono riusciti conti, cavalieri, giudici e marchesi, mo’ arrivi tu beddo beddo e vulissi cùogghiri il frutticieddo da lu meu iardinu?” Ma chi la dura la vince e, alla fine, dopo aver fatto giurare all’uomo sul Vangelo che non l’avrebbe mai tradita, gli disse:
Meo sire, poi juràstimi, eo tutta quanta incenno. Sono a la tua presenzia, da voi non mi difenno. S’eo minespreso àjoti, merzé, a voi m’arenno A lo letto ne gimo a la bon’ora ché chissà cosa n’è data in ventura.
(“Rosa fresca aulentissima“, vv. 156-160)
(“Mio signore, dopo che hai giurato, sono tutta quanta un fuoco! Sono qui, dinanzi a te, e mi arrendo alle vostre richieste. Se prima ti ho maltrattato, chiedo perdono e mi arrendo. Andiamo a letto, finalmente, perché questo è il nostro destino!”). E menomale che sono solo gli uomini a pensare sempre alla stessa cosa! Cielo fornisce una rappresentazione del rapporto amoroso che va ben al di là di quella che avevano dato i suoi amici poeti. Ma l’amore è anche questo, o no?
Tutti gli altri rimatori siciliani
Tra i poeti meno conosciuti, ricordiamoci di Giacomino Pugliese, non siciliano, ma trevigiano (perché quel cognome, allora?), autore di sette canzoni e canzonette, almeno quelle che ci sono giunte, verseggiatore dallo stile semplice e immediato. Rinaldo d’Aquino, forse fratello di San Tommaso. Mazzeo di Riccio, il terzo di Messina, la città dei poeti e, infine, Jacopo Mostacci, falconiere ufficiale di Federico, il quale, come vedete, li fece diventare poeti proprio tutti. Il grande imperatore morì nel 1250, lasciando il Regno di Sicilia al figlio Manfredi (immagine a destra). Questi, fu un sovrano generoso e continuò la politica culturale del padre, accogliendo a corte, oltre agli amati poeti, anche scienziati e artisti. Papa Urbano IV, però, lungi dal farsi gli affari suoi, come, del resto, non avevano fatto i suoi predecessori e non faranno nemmeno i suoi successori, lo scomunicò e, addirittura, bandì una vera e propria crociata contro di lui, forte dell’appoggio di Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX di Francia. Quando, poi, il pontefice cadde nel sonno eterno, ci pensò il subentrante Clemente IV a continuare l’opera. Nel 1266, a Benevento, contro le truppe dell’Angiò, Manfredi perse la battaglia, la corona e pure la vita. Con la morte del figlio di Federico II, il regno svevo andò in pezzi e finì pure la poesia, che non aveva più quella sua amata corte di Palermo per esprimersi.