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L’armonia dell’universo

Il De institutione musica di Severino Boezio

 

 

 

 

Il De institutione musica di Severino Boezio costituisce una delle opere più notevoli nel pensiero musicale medievale e un fondamentale punto di riferimento per la trasmissione della tradizione musicale dell’antichità. Redatto nel VI secolo d.C., il trattato si inserisce all’interno del più ampio progetto boeziano di rendere accessibile la conoscenza greca ai lettori latini, consolidando il legame tra la speculazione pitagorico-platonica e la visione cristiana del mondo. L’opera non è concepita come un manuale pratico destinato ai musicisti, bensì come un’indagine filosofica sulla natura della musica, sul suo rapporto con la matematica e sui suoi condizionamenti dell’animo umano. La composizione del De institutione musica si sviluppa attraverso un’attenta sintesi delle fonti greche, tra cui emergono Platone, Aristotele, Tolomeo e Nicomaco di Gerasa. Boezio si impegna nella sistemazione teorica della disciplina musicale, collocandola all’interno delle arti liberali del quadrivio, ovvero il sistema delle quattro artes reales che comprendono aritmetica, geometria, astronomia e musica. Quest’ultima, secondo la sua prospettiva, non è meramente un’arte legata alla produzione sonora, ma una scienza che si fonda su princìpi numerici e matematici, in grado di spiegare l’armonia dell’universo.
L’opera è articolata in cinque libri, ciascuno dedicato a differenti aspetti della teoria musicale. Nel primo libro Boezio introduce la definizione di musica e ne stabilisce il carattere scientifico, ponendo in evidenza il suo legame con la matematica. Nel secondo e nel terzo approfondisce i princìpi teorici dell’armonia e degli intervalli musicali, sempre secondo una prospettiva aritmetica, riprendendo la concezione pitagorica che individua nei rapporti numerici la chiave per comprendere la struttura del suono. Infine, negli ultimi due libri, si concentra sulle implicazioni filosofiche ed etiche della musica, sottolineandone la capacità di influenzare l’anima e il comportamento umano.
Uno degli aspetti più rilevanti del De institutione musica è la tripartizione della musica, concetto che diventerà fondamentale nel pensiero medievale. Boezio distingue tre livelli di musica: la musica mundana, la musica humana e la musica instrumentalis. La musica mundana è quella che regola l’armonia cosmica, riflettendo l’ordine dell’universo attraverso proporzioni numeriche che governano il movimento degli astri e l’equilibrio della natura. Questa concezione, profondamente debitrice della teoria pitagorica delle sfere celesti, interpreta il cosmo come un sistema musicale in cui ogni elemento si relaziona secondo un principio di armonia universale. La musica humana riguarda invece l’armonia interiore dell’essere umano, ponendo l’accento sulla relazione tra anima e corpo. Boezio sostiene che la musica abbia un effetto profondo sullo stato psicologico e morale dell’individuo, condizionandone il carattere e la condotta. Tale visione riprende il pensiero di Platone, secondo il quale l’educazione musicale è essenziale per la formazione dell’uomo virtuoso e per la stabilità della società. Infine, la musica instrumentalis è quella che si manifesta attraverso gli strumenti musicali e la voce umana. Essa è l’unica forma di musica percepibile direttamente dai sensi, ma per Boezio rappresenta il livello più basso della gerarchia musicale, poiché dipende esclusivamente dall’esecuzione pratica e non dalla comprensione dei princìpi teorici e filosofici che ne regolano l’essenza.

Il legame tra musica e numeri è un altro pilastro del pensiero boeziano. Seguendo la tradizione pitagorica, l’autore dimostra come le consonanze musicali derivino da precisi rapporti matematici, illustrando le proporzioni che definiscono gli intervalli armonici. Questa impostazione aritmetica della musica verrà ripresa nel Medioevo e costituirà la base del pensiero musicale scolastico, in cui la disciplina musicale sarà studiata non come un’arte performativa, ma come una scienza speculativa.
Il portato del De institutione musica non si esaurisce nella sua analisi teorica, ma si estende alla funzione educativa e morale della musica. Boezio insiste sul fatto che la musica, oltre a essere un riflesso dell’armonia cosmica, eserciti un’influenza diretta sull’anima umana, potendo elevare l’individuo alla contemplazione della verità o, al contrario, corromperlo se mal utilizzata. Questa concezione etica della musica deriva direttamente dalla filosofia platonica, in particolare dai dialoghi Repubblica e Timeo, nei quali Platone assegna alla musica un ruolo determinante nella formazione del cittadino ideale.
Il trattato boeziano si inserisce in un solido contesto di tradizione greca, ma si distingue per la sua capacità di sistematizzare le conoscenze precedenti e renderle accessibili alla cultura latina. Da Pitagora riprende la concezione dell’universo come armonia regolata da proporzioni numeriche e la teoria degli intervalli musicali basata su rapporti matematici. Da Platone eredita l’idea che la musica abbia una funzione educativa e morale, mentre da Aristotele mutua la riflessione sugli effetti psicologici ed etici della musica sull’individuo. Il contributo di Tolomeo e Nicomaco di Gerasa si manifesta nella trattazione della teoria musicale dal punto di vista matematico e cosmologico, con particolare attenzione ai rapporti tra suoni e numeri.
L’importanza del De institutione musica risiede nella sua capacità di preservare e trasmettere la tradizione musicale dell’antichità al Medioevo, ispirando in modo decisivo il pensiero musicale scolastico e l’intera concezione della musica nel mondo cristiano. Attraverso la sua visione della musica come scienza speculativa e come strumento educativo e morale, Boezio contribuisce a consolidare l’idea che la musica non sia soltanto un’arte, ma una disciplina essenziale per comprendere l’ordine dell’universo e la natura umana. Grazie alla sua opera, la musica viene riconosciuta come un elemento imprescindibile del sapere filosofico e teologico, assumendo un ruolo centrale nella cultura medievale e, poi, rinascimentale.

 

 

 

 

 

L’amore come ascesa, vincolo e potenza

Un viaggio filosofico tra sapienza, divino e destino

 

 

 

 

L’amore è una delle forze più profonde e misteriose dell’esperienza umana e nel corso della storia della filosofia ha assunto significati diversi, riflettendo le concezioni metafisiche, etiche e antropologiche di ciascun pensatore. Da Socrate e Platone, che lo intesero come un’aspirazione al sapere e alla bellezza assoluta, fino a Nietzsche, che lo reinterpretò come espressione della volontà di potenza, l’amore è stato al centro della riflessione filosofica, rivelando la sua complessità e la sua capacità di trasformare l’individuo e la realtà che lo circonda.
Socrate non ha lasciato scritti propri, ma la sua concezione dell’amore è stata tramandata principalmente attraverso i dialoghi di Platone, in particolare nel Simposio. Qui, il filosofo ateniese riferisce gli insegnamenti ricevuti dalla sacerdotessa Diotima di Mantinea, secondo cui l’amore non è un dio, bensì un daimon, un essere intermedio tra il mondo umano e quello divino. L’amore, dunque, non possiede né la bellezza né la sapienza, ma le desidera, ed è proprio in questa mancanza che risiede la sua essenza. Per Socrate, l’amore nasce dalla tensione verso ciò che non si possiede e si manifesta come un’incessante ricerca della bellezza e della conoscenza. Il desiderio amoroso non si esaurisce nell’attrazione fisica, ma si sviluppa in un percorso di elevazione interiore che porta l’anima a rivolgersi a forme di bellezza sempre più elevate, fino alla contemplazione del bello in sé. In questo senso, l’amore è il motore della filosofia stessa, poiché solo attraverso la passione per la verità e il desiderio di conoscere si può raggiungere la vera saggezza.
Platone, ereditando e sviluppando la visione socratica, concepisce l’amore come un processo di elevazione spirituale. Nel Simposio, descrive un percorso che parte dall’attrazione per la bellezza fisica per poi trascendere verso livelli superiori di amore: dapprima il desiderio si volge alla bellezza morale e intellettuale, poi alla bellezza delle istituzioni e delle leggi, e infine alla contemplazione dell’Idea del Bello assoluto. Questa ascesa, nota come la “scala di Diotima”, mostra come l’amore, pur avendo origine nel desiderio sensibile, debba essere purificato e sublimato fino a raggiungere la sfera metafisica delle Idee. In Fedro, Platone rafforza questa concezione attraverso il mito dell’auriga, in cui l’anima è paragonata a un carro trainato da due cavalli, uno bianco e uno nero. Il cavallo nero rappresenta le passioni e gli istinti, mentre il cavallo bianco simboleggia l’impulso verso il divino. L’amore è la forza che spinge l’anima a librarsi verso il mondo intelligibile, ma solo se l’individuo riesce a dominare i suoi impulsi più bassi e a orientare il desiderio verso la verità eterna.

Aristotele si discosta dalla visione platonica e interpreta l’amore in termini più concreti e terreni, considerandolo soprattutto nella forma dell’amicizia (philia). Nell’Etica Nicomachea, distingue tra tre tipi di amicizia: quella fondata sull’utile, quella basata sul piacere e quella basata sulla virtù. Le prime due forme sono accidentali e transitorie, mentre la terza è la più elevata, poiché si basa sulla stima reciproca e sulla condivisione della vita secondo il principio della giustizia e del bene comune. L’amicizia virtuosa, secondo Aristotele, è il fondamento della vita sociale e della realizzazione personale. L’uomo è un essere naturalmente incline alla relazione e trova nella compagnia degli altri la sua piena realizzazione. Diversamente da Platone, Aristotele non concepisce l’amore come un mezzo per ascendere a una realtà trascendente, ma come un elemento essenziale per una vita felice e ben vissuta, in cui la condivisione e il rispetto reciproco costituiscono il fondamento di ogni legame autentico.
Sant’Agostino introduce una prospettiva teologica nell’analisi dell’amore, distinguendo tra l’amor Dei, che è rivolto a Dio, e l’amor sui et mundi, che è l’amore egoistico per sé e per le cose terrene. Nel suo cammino spirituale, descritto nelle Confessioni, Agostino racconta come inizialmente fosse stato dominato da un amore sensuale e disordinato, ma che solo l’incontro con Dio gli avesse permesso di comprendere il vero significato dell’amore. In La Città di Dio, Agostino oppone la civitas Dei, fondata sull’amore divino e sulla carità, alla civitas terrena, che si basa sull’amore di sé e sul desiderio di dominio. L’amore terreno, se non ordinato in funzione dell’amore per Dio, diventa una forma di idolatria e conduce alla corruzione morale. Solo chi ama Dio sopra ogni cosa può raggiungere la vera felicità, poiché in Lui si trova la pienezza dell’essere e del bene.
Marsilio Ficino, influenzato dal neoplatonismo e dalla tradizione cristiana, concepisce l’amore come un principio cosmico che unisce tutte le cose e spinge l’anima a tornare alla sua origine divina. Nel De Amore, descrive l’amore come un’energia spirituale che eleva l’individuo dal mondo materiale a quello divino, in un processo di purificazione e ascesi. La bellezza fisica è solo un riflesso della bellezza celeste e il vero amore consiste nella capacità di riconoscere questa realtà superiore e di orientare il desiderio verso di essa.
Giordano Bruno sviluppa una visione radicale dell’amore, interpretandolo come una forza cosmica che permea l’intero universo. In De gli eroici furori, l’amore è una tensione eroica verso l’infinito, un desiderio che spinge l’anima oltre i limiti imposti dalle convenzioni religiose e sociali. Per Bruno, l’universo stesso è pervaso d’amore, che si manifesta come un’energia creatrice e dinamica, capace di trasformare l’uomo in un essere libero e illuminato.
Nietzsche critica aspramente le concezioni tradizionali dell’amore, soprattutto quelle platoniche e cristiane, vedendole come espressioni di debolezza e negazione della vita. L’amore, per lui, è un aspetto della volontà di potenza, ovvero della spinta creatrice e affermativa dell’individuo. In Così parlò Zarathustra, l’amore altruistico è spesso una maschera per l’istinto di dominio, mentre il vero amore è quello che afferma la vita nella sua interezza, senza rinnegare la forza e la passione.
Dalla tensione verso il sapere di Socrate e Platone all’amicizia virtuosa di Aristotele, dall’amore divino di Agostino alla forza cosmica di Bruno, fino alla volontà di potenza di Nietzsche, l’amore si rivela come un concetto poliedrico, che attraversa la storia della filosofia trasformandosi e adattandosi alle diverse visioni del mondo.

 

 

 

 

E le stelle restarono a guardare?

 

 

La letteratura in latino dall’età tardo-antica all’alto Medioevo

 

 

Mi è capitato, non ricordo dove e nemmeno chi sia stato l’ideatore di questa bellissima metafora, di aver letto che il Medioevo è stato sì una notte, ma piena di stelle. In effetti, dalla caduta dell’Impero Romano fino almeno agli inizi dell’XI secolo, l’Europa non conobbe un periodo felice. Sembrava come se gli abitanti del mondo allora conosciuto, con le loro paure, i loro affanni quotidiani, la loro fame e sete, le loro malattie e i loro pochissimi momenti di gioia, fossero quasi scomparsi, per riapparire dopo circa quattrocento anni. Ma, allora, cosa accadde, almeno in campo culturale, tra il VI ed il X secolo dell’era Cristiana? E chi furono le stelle che, seppure debolmente, illuminarono quella notte? 330px-GiorcesBardo42Modifichiamo giusto un pochino la metafora, rimanendo, però, sempre nell’ambito della luce, e diciamo che il mondo romano portò in dote al Medioevo degli ottimi oli per caricare lampade e rischiarare la notte. Al primo posto di questa particolare classifica si piazzò Publio Virgilio Marone (immagine a sinistra). L’autore dell’Eneide, delle Bucoliche e delle  Georgiche fu considerato grandissimo poeta, immagine di civiltà, maestro di stile e, soprattutto, profeta del Cristianesimo perché, nell’Ecloga IV, predisse la nascita di un puer, un fanciullo che avrebbe annunciato una nuova Età dell’Oro, nascita che fu scambiata per quella di Cristo (la fortuna dei malintesi!). o-OVIDIO-facebookAl secondo posto, Publio Ovidio Nasone, poeta e scrittore, le cui opere  furono  messe  al  bando  dall’imperatore  Augusto  in persona perché giudicate troppo spinte (vorrei fargli leggere i libri di Melissa P. e vedere come reagirebbe questo Augusto!). Ovidio (immagine a destra) scrisse un’Ars Amatoria, nella quale raccontò le raffinate passioni sessuali dei cortigiani di Augusto (non sapeva proprio dove andare a ficcarlo il suo nasone!); le Heroides, ventuno lettere infuocate spedite da eroine della mitologia ai loro amanti, e Le Metamorfosi, opera che trasferì al Medioevo una grande quantità di notizie su dèi, dee, mezzi dèi, mezze dee e poveri cristi. Al terzo posto, a pari merito, Quinto Orazio Flacco, autore di Satire sui più comuni vizi umani: l’ambizione, l’avidità di ricchezza e il desiderio di fare presto carriera, e Marco Anneo Lucano, il narratore della Farsaglia, con cui rese conto della guerra civile tra Cesare e Pompeo, schiettamente, in modo fedele alla storia, senza favolette e trucchetti degli dèi, da qualche altro autore fatti scendere dall’Olimpo, sulla Terra, per farsi gli affari degli uomini. Al quarto posto, Publio Papinio Stazio, che in 12 anni di lavoro scrisse i 12 libri della Tebaide, uno all’anno, illustrando la guerra tra Eteocle e Polinice, mitici figli di Edipo e Gioacasta, e re di Tebe ad intervalli di un anno ciascuno. ciceroneE infine, last but not least, come dicono gli inglesi, Publio Terenzio Afro, autore di commedie, tanto per ridere un po’. Piazzamenti d’onore spettarono, poi, a Marco Tullio Cicerone (immagine a sinistra), maestro insuperabile di retorica, di stile e di cazziatoni etici e morali a destra e a sinistra, e a Lucio Anneo  Seneca,  precettore  e  consigliere  di  Nerone  (con scarsissimi risultati, se si tengono a mente i macelli che combinò, poi, l’imperatore), autore di opere filosofiche, scientifiche e di tragedie teatrali, il cui pensiero fu considerato integralmente cristiano perché qualcuno mise in giro la voce che si scambiasse lettere addirittura con San Paolo. Ammazza! E, a proposito di santi, non si possono non citare Sant’Agostino, vescovo di Ippona, filosofo, martello degli eretici, padre e dottore della Chiesa, e San Girolamo, anch’gli padre (figlio e spirito santo, amen!) e dottore della Chiesa, scrittore e studioso della Bibbia così bravo che, per la prima volta nella storia, la tradusse tutta quanta in latino.

scriptorium

Sant’Agostino

Aurelio Agostino, in quasi quarant’anni di vita, da quando, cioè, smise di godersela come un balordo, fino a poco prima della morte, sopraggiunta nel 430 dopo Cristo, scrisse opere importantissime per l’avvenire del Cristianesimo e della Chiesa: agostinoLa vita felice (questa, forse, non troppo importante), I soliloqui, L’immortalità dell’anima, Il libero arbitrio, Le Confessioni, La dottrina Cristiana, Contro i Manichei, Contro i Donatisti, Contro Pelagio, La Città di  Dio  e le  Ritrattazioni,  giusto  se,  casomai,  avesse  tralasciato qualcosa o scritto qualche stupidaggine. Cercò di avvicinare la filosofia platonica e neoplatonica al Cristianesimo, si impegnò, in prima persona, con prediche, scritti e pure qualche spiata, contro gli eretici e contro le eresie, che stavano lacerando la Chiesa delle origini. Formulò dottrine universali sul peccato originale, sulla grazia divina, sulla predestinazione e sul libero arbitrio. Anche se in gioventù non fu proprio uno stinco di santo, la Chiesa ce lo fece lo stesso e lo festeggia ogni 28 agosto.

San Girolamo

Sofronio Eusebio Girolamo, al contrario di Gesù Cristo che vi nacque, a Betlemme, dove aveva fondato tre o quattro conventi, ci morì, nel 420. Parlava correntemente latino, greco ed ebraico, lingue che gli furono molto utili quando decise di tradurre la Bibbia in latino, intitolandola, poi, Vulgata, dall’espressione vulgata editio, vale a dire, edizione per il popolo. Fu una grande trovata editoriale che vendette tantissime copie, divenendo, in brevissimo tempo, un best seller per soli ricchi, però. biblia-vulgataUna copia manoscritta della Vulgata, infatti, specialmente se miniata e glossata da qualche commentatore alla moda, almeno fino all’invenzione della stampa, nel XV secolo, costava quasi mezzo feudo. Girolamo aveva un caratteraccio e litigava in continuazione con “chicche e sia”, fossero questi sprovveduti, dotti, santi o peccatori, ma, in fondo in fondo, voleva bene a tutti, soprattutto alla gente comune. Per questo, elaborò una versione del massimo Testo Sacro cristiano facile da capire, usando, non la lingua dei letterati, ma quella di chi non aveva mai aperto un libro. Tradusse l’Antico Testamento dall’ebraico e il Nuovo dal greco, anche se, diciamo la verità, fece un po’ il furbo perché, in alcuni punti, rivide e corresse antiche traduzioni. La Chiesa, comunque, glielo perdonò e decretò di festeggiarlo ogni 9 maggio. Con Agostino e Girolamo può dirsi chiusa la cosiddetta età tardo-antica. Il sole che aveva dato luce al mondo classico tramontò e scese la notte, ma, in cielo, cominciarono a sorgere le prime stelle: Boezio e Cassiodoro.

Boezio

Se c’è stato uno sfigato come pochi, nella storia della cultura occidentale, bene, questi è Boezio. Un uomo che conobbe il successo personale più grande ma anche, e soprattutto, la miseria più nera. Anicio Manlio Severino Boezio nacque a Roma, intorno al 480, da una illustrissima famiglia, la gens Anicia. Sin da subito, la sua vita fu una collezione di guai e disgrazie. Neppure fanciullo, passò il primo guaio: il padre morì e fu affidato a un tutore, Aurelio Simmaco, di cui, poi, sposò la figlia, Rusticana, il secondo guaio, perché era una donna che non stava mai zitta e parlava, parlava, parlava, parlava. Parlava e ancora parlava! Quando il re degli Ostrogoti, Teodorico, conquistò l’Italia e si stabilì, con tutta la corte, a Ravenna, vi chiamò molti nobili di Roma, tra cui Boezio. Lì, fece una carriera brillantissima: fu eletto console e, poi, Magister officiorum, la più alta carica dello Stato. BoethiusCon una buona raccomandazione (le cose, in Italia, funzionavano così già 1500 anni fa!), fece eleggere consoli anche i due figli, Flavio Simmaco e Flavio Boezio. Tutto questo successo, personale e familiare, però, fu anche la sua rovina (il Signore dà e il Signore prende!), perché si tirò addosso l’invidia dei colleghi. In seguito a una soffiata, piena di falsità, infamità e bugie, fu accusato di ordire trame contro Teodorico. Il re ci credette, lo fece rinchiudere in carcere a Pavia e decapitare, dopo che gli furono strappati pure gli occhi. Capito un po’? Nel corso della vita, il nostro sfortunato romano scrisse molte cose. Tuttavia, il progetto a cui si impegnò di più fu la traduzione di tutte le opere di Platone e Aristotele, per dimostrare al mondo che, sotto sotto, i due famosissimi filosofi avevano detto quasi le stesse cose. Purtroppo, però, causa disgrazie, riuscì a tradurre soltanto parte degli scritti di logica di Aristotele e l’Isagoge di Porfirio. E, pure in quest’ultimo caso, la combinò grossa: alcuni passi del trattatello di questo discepolo del filosofo neoplatonico Plotino, infatti, qualche secolo dopo, avrebbero dato origine alla famosissima Disputa sugli universali, nel corso della quale il fior fiore dei filosofi, dei professori e degli uomini di cultura del Basso Medioevo avrebbero litigato a male parole e a librate! L’opera che gli permise di diventare uno degli autori più letti di tutto il Medioevo, e non solo, fu il De consolatione Philosophiae (La consolazione della Filosofia), scritta durante i due anni in galera. Una donna un po’ anziana, la Filosofia, apparve all’autore nella sua fredda cella con le pareti fradice: “Ma, dico io,” rimuginò, “non mi si poteva parare davanti una bella attrice, tipo Sharon Stone?”. L’attempata signora, per consolarlo, perché era proprio giù di morale, gli rammentò che lui non fosse l’unico disgraziato a passare tutti quei guai. Anzi, gli disse: “Uno più è sapiente, più sono sventure e malesorti!”. Il poveretto, allora, le elencò tutti i suoi guai e dolori vari, commuovendola così tanto, da farla scoppiare a piangere. Quando smise, riuscì soltanto a rispondergli: “Mio caro, povero Boezio, la vera felicità non è contenuta nell’avere soldi, potere, dieci cameriere, un garage pieno di macchine fuoriserie e un fusto di birra il cui rubinetto spilla all’infinito! La vera felicità coincide con Dio, verso cui bisogna tendere, se si vuole essere veramente felici!”. “Ma questa ci è venuta o ce l’hanno mandata?”, borbottò, tra i denti, il miserabile. Poi, le chiese: “Scusate, signora. Come mai, allora, le cose buone vanno sempre ai cattivi e agli imbroglioni e le persone perbene come me rimangono con i manici delle scope in mano?”.  “Quelli non sono veri beni”, rispose, “e le disgrazie sono utili per la salvezza della tua anima.” “L’anima tua e della tua consolazione, Filosofì!”, pensò.

Cassiodoro

Una sorte decisamente migliore perché, almeno, morì nel suo letto, toccò a Cassiodoro. Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore (finalmente abbiamo finito col nome!) nacque a Squillace, in Calabria, nel 490. Il suo casato, prestigiosissimo e onoratissimo, era imparentato con quello di Boezio. Anche all’epoca, si faceva tutto in famiglia e, alla corte di Teodorico, lo sostituì come Magister officiorum. Cassiodoro fu più furbo del suo parente. Gesta_Theodorici_-_Flavius_Magnus_Aurelius_Cassiodorus_(c_485_-_c_580)Per accattivarsi le simpatie di re Teodorico, gli dedicò l’Historia Gothica (Storia dei Goti), dove ripeté tante volte che il sovrano ostrogoto era il migliore del mondo e che gli Ostrogoti erano i barbari meno barbari di tutti. Ritiratosi dalla vita politica con una buonissima pensione, raccolse tutti i documenti, elaborati durante i suoi uffici a corte, pubblicandoli in un libro, intitolato Variae, a causa dei vari argomenti che conteneva. Scrisse anche le Institutiones divinarum et saecularium litterarum (Istituzioni delle lettere sacre e profane), una dottissima introduzione allo studio delle Sacre Scritture e delle arti liberali, molto letta nei secoli successivi. Fondò pure un monastero, a Vivario, non lontano da casa e, all’età di 92 anni, invece di mettersi definitivamente a riposo, scrisse il trattato De orthographia (L’ortografia) per evitare che i monaci, mentre trascrivevano manoscritti e  codici antichi nello scriptorium del suo convento, copiassero una cosa per un’altra.

Isidoro di Siviglia

Spostiamoci un attimo in Spagna per conoscere un altro grand’uomo di questo periodo: Isidoro di Siviglia. downloadNato verso il 560, proveniva da una famiglia di bravissime persone: i tre fratelli, Leandro, Fulgenzio e Fiorentina, furono tutti beatificati e lui, fu fatto addirittura santo. Si dice anche che egli stesso convertì al Cristianesimo i Visigoti conquistatori della Spagna. Fu vescovo di Siviglia e scrisse opere di storia, di grammatica e anche un’enciclopedia. Nel suo capolavoro, le Etymologiae, in venti libri, riunì tutte le conoscenze del suo tempo, prendendo spunto dall’origine delle parole. A lui, infatti, si deve il motto secondo cui “nomina (e cognomina, aggiungo io) consequentia rerum sunt” (i nomi sono conseguenza delle cose), per cui, chi si chiama Rosa, dev’essere bella come il fiore, chi si chiama Serena, dev’essere calma e tranquilla, chi Orso, un po’ animalesco, chi per cognome ha Bassi, forse non sarà tanto alto, e chi Casini, o è un pasticcione o va con le donne di malaffare.

 

 

 

Le cicale

 

Racconto filosofico

 

Il racconto narra di una escursione dei due personaggi, Bashir e Antonio, al tempio di Minerva, situato sull’estrema punta della Penisola Sorrentina, di fronte Capri. La narrazione si immerge profondamente nelle tematiche filosofiche, attingendo a conversazioni che intrecciano riflessioni sulla natura dell’esistenza, la percezione della realtà e l’interpretazione delle idee platoniche. Attraverso il viaggio verso il tempio, simbolo di sapienza e di conoscenza antica, i protagonisti si confrontano con le nozioni di identità, diversità ed esistenza, dialogando sulle concezioni di Parmenide e Platone riguardo l’essere e il non essere.
Antonio, guidato dalla curiosità e dal desiderio di comprensione, pone a Bashir domande che sfociano in una riflessione sulle idee di luce e oscurità, esistenza materiale e concettuale, culminando nella discussione sull’Iperuranio platonico e sull’importanza delle Idee come fondamento della realtà. La contrapposizione tra il mondo sensibile (doxa) e il mondo delle idee (epistéme) serve da metafora per esplorare i limiti della conoscenza umana e il ruolo dell’immaginazione, dell’errore e della fantasia nella formazione della nostra comprensione del mondo.
Il racconto si arricchisce di momenti di profonda contemplazione della natura e dell’universo, attraverso i quali i personaggi riflettono sul significato della vita, sul ruolo del divino e sulla ricerca di armonia e bellezza. La vista del tempio di Minerva, benché ridotto a rovine, diventa occasione per meditare sul trascorrere del tempo e sull’eredità culturale e spirituale trasmessa dalle civiltà passate.
Il racconto offre una ricca tessitura di temi filosofici, incastonati in una narrativa che celebra il viaggio come metafora dell’esplorazione intellettuale e spirituale. La bellezza del paesaggio, la curiosità verso il passato e la riflessione sulle grandi domande dell’esistenza umana si intrecciano, offrendo al lettore un breve viaggio simbolico attraverso la storia, la filosofia e la ricerca di senso.

 

Da mesi, Bashir e Antonio avevano programmato, su insistenza del primo, una visita al tempio di Minerva sito sull’estrema punta della Penisola Sorrentina, di fronte a Capri, approntando sulle carte l’itinerario per giungervi. Del culto della dea della sapienza e della notte, in quel luogo ultimo della penisola, noto fin dall’antichità perché posto a protezione della navigazione, delle rotte e dell’accesso marittimo al Golfo di Napoli, Bashir aveva sentito parlare fin da bambino e, durante un soggiorno nell’isola sacra di Delos, aveva appreso, altresì, che il santuario della dea fosse stato fondato dallo stesso Odisseo. Antonio ne aveva approfondito, con l’aiuto di padre Torquato, stupito da tanta curiosità dell’allievo per la mitologia greco-romana, i riferimenti storici, consultando gli scrittori classici, come Stazio e Strabone, dai quali aveva era venuto a conoscenza di come a quel famoso santuario fossero addirittura preposti dei magistrati di Minerva. Questi erano deputati ad appaltare e collaudare gli approdi che portavano al santuario, nel quale si svolgevano riti propiziatori alla dea, anche da parte di delegazioni del Senato romano, provenienti, via mare, da Ostia. Queste informazioni avevano stimolato al massimo, nei due, il desiderio di compiere quell’escursione.
In un paniere molto capiente, sospeso alla sella di Bashir, erano state sistemate due torce, del pane, con formaggio e lardo, e due fiasche d’acqua. I due, usciti dalla porta verso Massa, si avviarono speditamente, attraverso sentieri conosciuti, in direzione del Capo di Santa Fortunata. Procedevano, in quel tardo pomeriggio estivo, tra uliveti e aranceti, in un silenzio rotto soltanto dal nitrito dei cavalli e da qualche domanda che, di tanto in tanto, il giovane rivolgeva a Bashir. Quando furono pervenuti nei pressi del casale di Marciano, il sole, calante tra le isole di Capri e di Ischia, indorava con abbaglianti riflessi la superficie marina.
“Il sole ha trasformato questo sentiero in un nastro dorato, che cinge il verde della collina”, esclamò Antonio, confortato dal sorriso compiaciuto di Bashir.

“Hai ragione, Antonio. La potenza del sole è come quella di Allah. Come Dio non finirà mai, così il sole non si esaurirà mai. Allah gli ha conferito il potere di allungare la sua vita all’infinito”.
“Ma il sole, allora, perché tramonta?”, lo interrogò.
“Il sole tramonta soltanto ai nostri occhi, ma poi ritorna, perché Allah è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come quella nicchia in cui si trova una lampada. La lampada è posta in un cristallo. Il cristallo è come un astro brillante. Il suo combustibile viene da un albero benedetto, un olivo né orientale né occidentale, il cui olio sembra illuminare senza neppure essere toccato dal fuoco. Luce su Luce. Allah guida verso la Sua luce chi vuole Lui e propone agli uomini metafore. Allah è onnisciente”, gli rispose, recitando un versetto del Corano.
I due cavalieri, intanto, raggiunsero un agglomerato di capanne, circondato da un lussureggiante limoneto, da un’aia ancora affollata di animali da cortile e da un orto ben coltivato, i cui confini erano segnati da peracciole. Legarono i cavalli ad una staccionata e si avviarono, a piedi, al tempio di Minerva. Vi giunsero scendendo, con grande prudenza, lungo il sentiero scosceso. La prima impressione fu sconfortante: nulla dell’antico edificio era rimasto in piedi, se non un mucchio di pietre che ne delimitavano la pianta. In ginocchio, Bashir, deposto il cesto, esaminò pietra su pietra, finché non diede un grido di gioia. Aveva individuato l’uccello notturno sacro alla dea, la Athenae noctua, scolpito, a dimensione naturale, su un pezzo di marmo. Così, come per compensare, con quel rinvenimento, la delusione di non aver potuto vedere il tempio in piedi, ripose il prezioso cimelio nel cesto, dopo averlo svuotato del cibo. Bashir e Antonio, allora, ammutoliti e immersi nel tramonto incombente, si fermarono a godere della sublimità di quell’incantato scenario, che si manifestava lentamente nello sfolgorio dei riflessi solari: a destra il Golfo di Napoli, a sinistra lo specchio d’acqua antistante la Baia di Jeranto e, di fronte, come un’improvvisa magia, sorta dalle acque, l’isola di Capri. Lo stupore e l’estasi venivano ampliati da una lieve brezza, che scendeva, dall’alto, mescolata ai profumi dei cisti, dei mirti e dei rosmarini e dal frinire delle cicale sparse tra le fronde gli ulivi, che crescevano su quegli scoscesi pendii.
Quel tardo pomeriggio Bashir ebbe la conferma della suggestione, quasi da incantesimo, che l’occaso suscitava in Antonio, come dialogo dell’anima con il principio della Natura. Percepì le emozioni sognanti, molteplici e mutevoli, che dominavano l’animo del giovane e decise di non profferire parola.

“Queste cicale sembrano tutte uguali e sembrano frinire allo stesso modo”, sussurrò, dopo un lungo intervallo, Antonio, quando riemerse dal rapimento del tramonto.
“Non sono uguali”, mormorò Bashir.
“Allora, se una non è uguale ad un’altra, non è affatto, non esiste. Eppure io le sento e, con un po’ di attenzione, posso anche vederle. Ricordo bene Parmenide di Elea, di cui abbiamo parlato qualche tempo fa: ciò che è, è, e non può non essere, ciò che non è, non è, e non può in alcun modo essere. È così, vero, Bashir?”.
“Certo”, gli ribatté.
“Se una cicala non è un’altra cicala, non è affatto neppure essa stessa, quindi, non esiste. Perché, dunque, io le vedo e le posso sentire?”, insistette Antonio.
“Devi ricordarti di Platone, il discepolo di Socrate, l’autore dei Dialoghi, il filosofo dell’Iper-uranio e delle Idee”.
“L’Iperuranio!”, sottolineò Antonio, quasi esaltato. “L’Iperuranio, dove Platone collocò le Idee, non potrebbe essere la nostra mente, unica misura delle cose, di quelle che sono, per ciò che sono, e di quelle che non sono, per ciò che non sono?”.
“Stai citando Protagora di Abdera, un altro fondamento della filosofia greca”, lo riprese Bashir con affetto. “Platone, sempre Platone, potrà dare la risposta al tuo interrogativo e lo farà attraverso un atto criminale, un assassinio, un parricidio. Ammazzerà il padre! Non ti spaventare. I filosofi greci, come tutti i filosofi, amano usare parole disinvolte. Platone, in effetti, non ammazzò mai nessuno. Impressionato dalla ingiusta morte di Socrate, che era stata sanzionata da pavidi politici, timorosi che gli insegnamenti del suo maestro spingessero i giovani a ragionare con la propria testa, si decise ad assassinare, dialetticamente, Parmenide. Nel dialogo sul Sofista, il nostro Platone riporta un dibattito tra i seguaci di Democrito, i materialisti, e gli idealisti, che appella simpaticamente gli amici delle Idee. I primi sostenevano l’esistenza solo delle cose materiali, quelle che sono davanti ai nostri occhi e che si possono vedere con gli occhi e ascoltare con le orecchie, come queste cicale; i secondi, al contrario, asserivano anche l’esistenza delle cose non materiali, cioè delle Idee, in quanto esse vengono pensate e, quindi, conosciute. Gli idealisti, pertanto, mettevano in crisi la concezione delle Idee, come di qualcosa di immobile, di eternamente fisso nell’Iperuranio. Esse, invece, esistono nella misura in cui subiscono l’azione di essere conosciute, che comporta il movimento! Ti risparmio l’esame su tre delle cinque Idee più importanti, ma non posso sottrarmi dal raccontarti delle ultime due, le più significative: l’Idea di Identico e l’Idea di Diverso. Ogni Idea è identica a sé stessa e diversa dalle altre, pur non identificandosi nell’Idea di Identico e di Diverso. L’Idea stessa dell’essere partecipa all’Idea del non essere, perché l’essere è se stesso e, al contempo, non è alcun’altra Idea. Da qui, il parricidio: il non essere, è; il non essere, esiste. Questa cicala non è, lo hai detto poc’anzi, quell’altra cicala oppure non è un cavallo, non è un fiore, non è il sole. Non hai voluto dire, dunque, che questa cicala non esiste, perché la vedi e la senti, ma hai voluto significare che quella cicala non è questo piuttosto che quell’altro, in quanto essa è diversa da questo o da quell’altro. Dire che la cicala non è un cavallo, vuol significare che la cicala è diversa da un cavallo, non che quella cicala non esista. Il non essere, come diversità dall’essere, non come non esistenza: ecco il risultato del parricidio di Parmenide”.
Antonio assentì e rimase in silenzio a riflettere sulla sorprendente disquisizione di Bashir. Poi, di nuovo rapito, ritornò a fissare il sole.
“Sempre bello, ma sempre diverso, al tramonto. Mi rapisce anche perché il suo calare è il preannunzio del buio e al buio le cose non sono colte nella loro pienezza, ma appaiono con contorni non definiti”.
“La notte che segue il crepuscolo è il regno della fantasia, dell’immaginazione e del sogno”, sentenziò Bashir. “Regno anche dell’errore, che soccorre, anch’esso, la conoscenza umana. Platone riteneva più perfetta e sicura la conoscenza intellegibile, l’epistéme, ma non negò valore a quella sensibile, la doxa. La doxa è proprio come la notte, dove le cose percepite non appaiono del tutto chiare nella loro luminosità, in quanto non sono rischiarate dal sole della perfetta conoscenza. Risultano soltanto ombre delle Idee”.
“Le ombre delle Idee!”, ripeté Antonio. “Chissà se le nostre esistenze siano realmente una proiezione imperfetta di qualcosa che dovrebbe essere, invece, perfetto. Chissà se non abbia ragione il mio precettore, padre Torquato, con tutti quei suoi discorsi su Dio e sull’anima. Io non lo so, ma nelle sue parole non avverto lo spirito, né la poesia, mentre l’universo mondo mi appare tutto poesia, Dio stesso è poesia e l’ha usata, con l’armonia, per creare il mondo. Se così non fosse, il mondo e la vita sarebbero uno stonato ritornello”.
“Dio non ha colpa se il mondo, che ha così mirabilmente costruito, è governato da uomini che hanno perduto l’idea della poesia e dell’armonia! Ma ora basta, Antonio, riprenderemo il nostro dialogo in futuro. Sta scendendo la notte, dobbiamo ritornare a casa. I tuoi genitori saranno in apprensione”.

 

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Panorama sull’isola di Capri da Punta della Campanella, a Massa Lubrense (NA)

 

 

Brevi ragguagli sul concetto di “coscienza” nella storia della filosofia Occidentale

 

PARTE I

 

LA COSCIENZA COME ANIMA 

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Secondo Platone (immagine a sinistra) la coscienza umana ha una funzione essenzialmente conoscitiva, collegata alla dottrina delle Idee, cardine della sua filosofia. Le Idee, infatti, oltre ad essere realtà ontologiche a sé stanti, immutabili ed eterne, che fungono da modello al Demiurgo per plasmare il mondo, ovvero forme con le quali è strutturata la realtà empirica, sono altresì presenti nella coscienza umana, come forme intellettuali, mediante le quali l’uomo comprende la dimensione sensibile dell’esistenza. La coscienza, quindi, nella dottrina platonica, corrisponde, sotto l’aspetto del mito, all’anima, la quale, avendo vissuto nell’Iperuranio, conserva in sé il ricordo delle Idee. Da ciò, scaturisce la concezione platonica della conoscenza innata, proprio perché già presente nell’anima e, quindi, nella coscienza di ogni essere umano (Fedone, Critone, Repubblica). Anche Aristotele identifica la coscienza con l’anima ma, a differenza di Platone, non strettamente nell’ambito della conoscenza, quanto piuttosto riguardo al concetto di tempo. Il filosofo di Stagira indaga sul rapporto tra il tempo e il movimento per far assumere ai due concetti una connotazione concreta. Il movimento è nel tempo e il tempo non può esistere senza movimento. Per Aristotele, infatti, il tempo è “il numero del movimento secondo il prima e il poi”, intendendo per numero la funzione del contare, che non è possibile senza avere coscienza della successione numerica. Dato che l’esistenza del tempo è empiricamente ovvia e chiaramente riscontrabile, la sua percezione è un fatto di coscienza. Per coscienza, dunque, Aristotele intende l’anima, unico ente in grado di determinare un prima e un poi in relazione alla vita del singolo individuo (Fisica, De Anima).

LA COSCIENZA COME INTERIORITA’/RIFLESSIONE SU DI SE’, PER GIUNGERE A DIO

Il filosofo Plotino sviluppa il concetto di coscienza non come consapevolezza di qualsivoglia proprio stato interno, ma come campo privilegiato in cui si manifestano, nella loro evidenza, le verità più alte cui l’uomo può giungere, e la fonte, o il principio stesso, di tali verità: Dio. Indicando la coscienza come introspezione o ascolto interiore, egli adopera espressioni quali “ritorno a sé stesso”, “ritorno alla interiorità”, “riflessione su di sé”, contrapponendo costantemente questo atteggiamento proprio del saggio a quanti, invece, per la condotta della propria vita, si basano unicamente sulla conoscenza delle cose esterne (Enneadi).

LA COSCIENZA COME MORALE 

Simone_Martini_003Con il Cristianesimo, a cominciare da San Paolo e dai Padri della Chiesa, il concetto di coscienza viene ricondotto a quello di morale. Ne è esempio l’espressione di uso comune “voce della coscienza” la quale dovrebbe suggerire come comportarsi e quali siano i principi certi che, in ogni uomo, lo guiderebbero sulla retta via, dalla quale esso devia a causa della debolezza umana. E inoltre, non a caso, la precettistica cristiana prescrive l’esame di coscienza come pratica per rintracciare i propri errori morali. Per Sant’Agostino  (immagine a destra) la coscienza è il luogo interiore dove l’uomo cerca e trova Dio, la Mens superior inhaerens Deo (mente superiore insita in Dio). Dio è per l’uomo Essere e Verità, Trascendenza e Rivelazione, Padre e Logos. In quanto Verità, Dio rivela all’uomo ciò che è, in contrasto al falso che fa apparire o credere ciò che non è. Dio-Verità è l’essere che si rivela, che illumina la coscienza umana della sua luce e le fornisce la norma di ogni giudizio, la misura di ogni valutazione. Dio si rivela come trascendenza all’uomo che incessantemente e amorevolmente lo cerca nella profondità del suo io, la coscienza (Confessioni, De vera religione). San Tommaso d’Aquino intende la coscienza sempre ed esclusivamente come coscienza morale. La sua stessa definizione (scienza con l’altro), secondo l’Aquinate, rivela l’ambito di una ricerca volta a definire la coscienza morale come un’applicazione della scienza morale al comportamento umano, al fine di valutarlo e direzionarlo. La coscienza è un atto della persona, che investe sia la sfera intelligibile che quella razionale. Essa applica ai casi concreti della vita l’oggettività e l’universalità della legge a cui si riferisce, la sinderesi, intesa come abito che contiene i precetti della legge naturale, i quali sono i primi principi delle azioni umane. La coscienza, pertanto, nella filosofia del Doctor Angelicus, non è un’altra facoltà (le facoltà sono due: intelletto e volontà), ma è l’uso della ragione per valutare cosa bisogna fare nella situazione concreta hic et nunc (qui e ora). Attraverso la ragione l’uomo applica le norme morali (Somma Teologica, De Veritate) .

LA COSCIENZA COME RAGIONE

Frans_Hals_-_Portret_van_René_DescartesCon l’età moderna, il concetto di coscienza si svincola da qualsiasi implicazione morale e religiosa e diviene il fulcro di tutte le dottrine cognitive e di tutti i processi di conoscenza. Il primo filosofo che muove la sua indagine in questo senso è Cartesio (immagine a sinistra). Egli ritiene che ogni operazione della mente sia accompagnata dalla coscienza di sentire o di ragionare, cioè dalla consapevolezza di possedere nella mente i propri contenuti mentali. La coscienza, per Cartesio, è la consapevolezza soggettiva di sentire e ragionare, perché il pensare implica il sapere di stare pensando. Le idee esistono nella mente, che ne ha coscienza, ma possono non corrispondere alla realtà esterna. Tra queste, ce n’è una privilegiata: l’idea del soggetto come mente, la quale è l’unica ad imporsi come certa vera e indubitabile (cogito ergo sum). Il cogito non è più l’atto pensante originario, da cui nasce il filosofare, ma diventa un pensato. L’evidenza o coscienza del cogito offre un metodo sicuro e infallibile di indagine razionale, tramite il quale poter distinguere il vero dal falso. Il cogito, inoltre, pone l’io esistente come  assolutamente indipendente dal corpo, non potendosi imporre come idea chiara se la mente pensante non fosse completamente separata dalla materia. La coscienza, nella filosofia cartesiana, è, dunque, equiparabile all’anima, intesa come res cogitans, distinta dal corpo, la res extensa (Principi di filosofia). Anche per il filosofo Gottfried Leibnitz il concetto di coscienza è strettamente legato ai processi della conoscenza. Questi, infatti, affida alla coscienza quella caratteristica che determina la capacità di percepire. Nell’uomo questa capacità è più elevata, rispetto agli altri esseri viventi, e le percezioni sono chiare e distinte. La loro consapevolezza o coscienza è l’appercezione, termine con il quale Leibnitz indica l’atto riflessivo attraverso cui l’uomo acquista consapevolezza, o coscienza, delle proprie percezioni, le quali, di per loro, potrebbero anche rimanere inavvertite. L’appercezione  è il fondamento ultimo della coscienza e dell’io (Monadologia).

LA COSCIENZA EMPIRICA 

John-Locke-painting-664x1024La concezione cartesiana di coscienza ispirò anche i filosofi dell’empirismo inglese. John Locke (immagine a destra) intese, infatti, la coscienza come la percezione di ciò che passa nella mente di un uomo, o meglio, le sue idee. Inoltre, egli, da empirista, rinviò alla coscienza ogni possibile esperienza delle cose esterne poiché, proprio da quelle, l’uomo forma dentro di sé le idee. La coscienza, quindi, è l’io che possiede e sviluppa tutte le attività mentali (Saggio sull’intelletto umano). George Berkeley  fu ancora più radicale di Locke, sostenendo che l’esistenza delle cose è in quanto queste sono percepite come esistenti (esse est percipi), ovvero quando si ha coscienza della loro esistenza, nonostante le sostanze materiali, le res extensae di Cartesio, siano soltanto proiezioni della mente cui dover rinunciare per attenersi unicamente alle pure sensazioni (Commentari filosofici).

 

Marsilio Ficino e lo sviluppo del neoplatonismo nella Firenze medicea tra realtà e invenzione

 

di

Federico Giannini

 

Fu ancora Cosimo degli uomini litterati amatore ed esaltatore; e perciò condusse in Firenze lo Argilopolo, uomo di nazione greca e in quelli tempi litteratissimo, acciò che da quello la gioventù fiorentina la lingua greca e l’altre sue dottrine potesse apprendere. Nutrì nelle sue case Marsilio Ficino, secondo padre della platonica filosofia, il quale sommamente amò; e perché potesse più commodamente seguitare gli studi delle lettere, e per poterlo con più sua commodità usare, una possessione propinqua alla sua di Careggi gli donò.

Queste parole, tratte dal sesto libro delle Istorie fiorentine di Niccolò Machiavelli, illustrano in breve uno dei momenti salienti del Rinascimento fiorentino: la nascita del circolo neoplatonico fondato dall’illustre filosofo Marsilio Ficino (1433 – 1499), che fin da molto giovane dovette entrare nelle grazie dei Medici…

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Marsilio Ficino (1433 – 1499)

 

Villa Medicea di Careggi
seconda sede, dopo Villa Le Fontanelle, dell’Accademia Neoplatonica

 

 

Il disvelarsi della complessità, Platone e il parricidio di Parmenide

 

di

Tullio Tinti

 

 

Negli ultimi trent’anni la convinzione che tutto quanto sia, a ben guardare, complesso si è diffusa come un’epidemia o – come direbbe Dawkins – si è rivelata un meme estremamente contagioso. Non c’è ramo del sapere che non ne sia stato influenzato. In ogni anfratto della conoscenza umana arriva il meme della complessità e modifica la percezione dei ricercatori, i quali gettano un nuovo sguardo ai propri modelli teorici e un attimo dopo si sentono obbligati a dire…

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Parmenide (515 a.C. – 450 a.C.)

 

Platone (427 a.C. – 347 a.C.)

 

 

Tommaso Moro: l’intellettuale dai mille volti e la sua “Utopia”

 

di

Andrea Di Carlo

 

 

Parlare di Tommaso Moro (italianizzazione di Thomas More) significa parlare di un personaggio bifronte: da una parte egli rappresenta, come Erasmo da Rotterdam, un raffinato esempio di erudizione umanistica, di apprendimento e, paradossalmente, di tolleranza. Dico paradossalmente perché, fattivamente, il suo atteggiamento nei confronti…

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Tommaso Moro (1478 – 1535)

 

 

Giovanni Pico della Mirandola e la sua memoria prodigiosa

 

Giovanni Pico nacque a Mirandola, in provincia di Modena, il 24 febbraio 1463, dal conte Giovan Francesco I e da Giulia Boiardo, zia di Matteo Maria Boiardo, insigne letterato e poeta quattrocentesco. Pico fu un vero prodigio della natura: passò la sua breve vita, morì a soli 31 anni, a studiare e raccogliere libri di ogni specie. Parlava latino, greco, ebraico e arabo. Conosceva la filosofia platonica e aristotelica a menadito, forse meglio degli stessi Platone e Aristotele. Fu studioso rigoroso della cabala ebraica che, grazie a lui, fu introdotta in Europa. Aveva una memoria portentosa, si diceva che conoscesse a memoria tutta la “Divina Commedia” di Dante (circa 4000 versi) e che, una volta terminata, riuscisse a recitarla al contrario, dall’ultima parola alla prima, utilizzando degli stratagemmi e delle tecniche, rivelati in alcuni suoi scritti. Già durante la sua esistenza, quindi, fu considerato un personaggio mitico. Per quanto riguarda il pensiero, Pico, come Marsilio Ficino, tentò avvicinare tutte le filosofie del mondo, attraverso alcune verità generali, in modo che i dotti si potessero mettere d’accordo all’insegna della pace e del sapere universale (servirebbe oggi un uomo del genere!) Per questo, cercò di organizzare, a Roma, una sorta di congresso, al quale avrebbero dovuto partecipare autorità, luminari, professori e scienziati del mondo allora conosciuto, per discutere novecento tesi che lui aveva elaborato, “proposizioni dialettiche, morali, fisiche matematiche, teologiche, magiche, cabalistiche, sia proprie che dei sapienti caldei, arabi, ebrei, greci, egizi e latini”. Allo scopo, scrisse, nel 1486, l’“Oratio hominis dignitate” (Orazione sulla dignità dell’uomo), un’introduzione all’incontro. Papa Innocenzo VIII, però, non solo si oppose alla cosa, ma lo costrinse a fuggire in Francia, dove fu arrestato e rilasciato dopo un mese, grazie all’intervento di Lorenzo de’ Medici. Rientrato a Firenze, se la prese con gli umanisti della sua compagnia, perché questi gli ripetevano che la filosofia, da lui tanto amata, fosse linguisticamente barbara. Rispondeva: “Ragazzi, il linguaggio è come la gonna di una donna, serve soltanto a vestire i concetti. L’importante è quello che c’è sotto!” (Questo esempio, ovviamente, è mio. Il sommo letterato si espresse in tutt’altro modo!”). Il 17 febbraio 1494, dopo due settimane di febbre strana, Pico morì. Si pensò ad un avvelenamento, da parte del suo segretario, ma niente fu mai provato. Sulla lapide della tomba fu inciso l’epitaffio degno di un re: “Joannes iacet hic Mirandola. Cetera norunt et Tagus et Ganges forsan et Antipodes”, ovvero, “Qui giace Giovanni di Mirandola. Il resto lo sanno sia il fiume Tago, sia il Gange e forse anche gli Antipodi!”. Un personaggio davvero unico e ancora troppo poco conosciuto!

 

Pubblicato l’1 febbraio 2017 su La Lumaca