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La Donazione di Costantino

Il grande inganno smascherato da Lorenzo Valla

 

 

 

 

Per secoli, la Donazione di Costantino è stata considerata una delle basi giuridiche e morali del potere temporale della Chiesa. Questo documento, che si riteneva redatto dall’imperatore Costantino il Grande, affermava che egli avrebbe concesso a papa Silvestro I e ai suoi successori l’autorità su Roma, sull’Italia e sull’intero Impero d’Occidente. La motivazione di questo dono, secondo il testo, sarebbe stata la guarigione miracolosa di Costantino dalla lebbra grazie al battesimo ricevuto da papa Silvestro.
Il documento sosteneva che Costantino, riconoscente per il miracolo, non solo avrebbe concesso al papa il primato sulla Chiesa universale, ma gli avrebbe anche assegnato la sovranità su vasti territori. Inoltre, il testo affermava che l’imperatore, per rispetto verso il papa, avrebbe trasferito la propria sede da Roma a Costantinopoli, lasciando alla Chiesa il controllo sulla città eterna e sulle province occidentali.
Per il papato medievale, la Donazione di Costantino fu un’arma formidabile per affermare il proprio potere nei confronti degli imperatori, dei re e dei principi cristiani. Venne utilizzata per legittimare la pretesa della Chiesa di essere l’autorità suprema, non solo in campo religioso, ma anche politico.
Nel XV secolo, con l’avvento dell’Umanesimo, il mondo della cultura iniziò a mettere in discussione molte certezze tramandate dal Medioevo. L’umanista e filologo Lorenzo Valla fu tra i primi a sottoporre la Donazione di Costantino a un’analisi rigorosa, utilizzando gli strumenti della filologia e della critica storica.

Nel 1440, Valla scrisse il trattato De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio, in cui dimostrò, con prove linguistiche e storiche, che la Donazione era un falso medievale, probabilmente redatto nell’VIII secolo, durante il papato di Stefano II (752-757). Questo documento sarebbe stato creato per rafforzare le pretese della Chiesa nei confronti del neonato Sacro Romano Impero e dei re franchi, in particolare di Pipino il Breve, che aveva concesso al papa il controllo di alcuni territori italici.
Lorenzo Valla dimostrò la falsità della Donazione attraverso un’attenta analisi della lingua del testo. Le sue osservazioni principali furono l’uso del latino medievale – il documento conteneva espressioni e strutture linguistiche che non appartenevano al latino classico del IV secolo, ma piuttosto al latino medievale, tipico dell’VIII secolo; gli anacronismi giuridici – il testo faceva riferimento a concetti legali e istituzioni che non esistevano all’epoca di Costantino, ma che erano propri del periodo carolingio; gli errori storici e geografici – il documento menzionava realtà politiche e amministrative che non erano ancora presenti nel IV secolo: le incongruenze nei titoli imperiali – il modo in cui Costantino si riferiva a se stesso non corrispondeva al protocollo ufficiale dell’impero romano del tempo. L’opera di Valla fu rivoluzionaria perché per la prima volta un documento della Chiesa veniva sottoposto a una critica scientifica basata su metodo e razionalità.
L’analisi di Valla, inizialmente, non ebbe un impatto immediato, poiché la Chiesa cercò di ignorare o minimizzare la questione. Tuttavia, nel lungo periodo, il suo lavoro contribuì a mettere in discussione l’autorità politica del papato e a indebolire la credibilità delle sue pretese territoriali.
L’indagine filologica di Valla divenne un modello per la critica storica moderna e fu ampiamente ripresa nei secoli successivi. Con la Riforma Protestante del XVI secolo, la falsità della Donazione divenne un argomento centrale per gli oppositori del papato, tra cui Martin Lutero, che citò il lavoro di Valla per attaccare la corruzione della Chiesa.
Oggi, la Donazione di Costantino è riconosciuta come uno dei più celebri falsi documentali della storia. L’opera di Lorenzo Valla è considerata una pietra miliare nel campo della critica testuale e della filologia, segnando un momento chiave nella transizione dal Medioevo al Rinascimento. La sua indagine dimostrò che il potere della Chiesa non poteva più basarsi su documenti apocrifi e consolidò un nuovo approccio basato sulla ragione e sull’analisi critica delle fonti, aprendo la strada al pensiero moderno.

 

 

 

I Papi, la guerra e la pace: Leone XIII e la lettera apostolica Principibus populisque universis, del 20 giugno 1894

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Vincenzo Gioacchino Pecci, asceso al soglio pontificio col nome di Leone XIII, è stato il 256° papa della Chiesa Cattolica Romana. Nato a Carpineto Romano, il 2 marzo 1810, fu eletto papa nel 1878. Tra i pontefici dell’epoca moderna è ricordato perché ritenne che tra i compiti della Chiesa rientrasse anche l’attività pastorale in campo socio-politico. Scrisse 86 encicliche, tentando di superare l’isolamento nel quale la Santa Sede si era ritrovata dopo la perdita del potere temporale, a seguito dell’Unità d’Italia. Morì il 20 luglio 1903.

 

leoneXIII

 

Il testo della lettera apostolica, Principibus populisque universis, più nota come Praeclara Gratulationis, fu pubblicato in italiano, oltre che nella versione originale latina, su La Civiltà Cattolica, il 25 giugno 1894. La lettera riprese e ampliò il contenuto di una allocuzione ai cardinali del 10 febbraio 1889. Fu indirizzata ai “principi” (governanti) e ai popoli di tutto il mondo. Il pontefice rivolse il suo primo pensiero ai popoli dell’Oriente e alle chiese orientali, illustri per la fede e per le antiche glorie. Non pochi papi, alcuni dei quali martiri, infatti, avevano origini orientali. Storicamente, c’erano stati motivi di disaccordo tra le Chiese, tra tutti, il primato del pontefice romano e della Sede romana, ma erano stati risolti. La storia di quei conflitti avrebbe dovuto rappresentare l’invito per rientrare nella pace poiché, dinanzi a Dio, non ci sarebbe stata alcuna discolpa per quei fratelli che si erano separati, laddove Dio stesso era sceso in Terra ed era stato crocifisso per unirli e raccoglierli in un solo ovile. Il secondo pensiero fu dedicato ai popoli slavi, eredi dai santi Cirillo e Metodio, con i quali vi era sempre stato un proficuo rapporto reciproco, nell’auspicio che le traversie che allontanarono molte di quelle genti dalla Chiesa di Roma, lasciassero il posto al ritorno all’unità. L’ultimo pensiero fu riservato ai cattolici di tutto il mondo, i quali erano da ammonire affinché non lasciassero perdere i doni di Dio, per trascuratezza e per inerzia. Essi avrebbero dovuto ubbidire al magistero e all’autorità della Chiesa e riflettere su quanto fosse pericoloso, per l’unità cristiana, l’errore di non seguire la strada della Chiesa. Questa, infatti, aveva potere di fare leggi e, nel farle, non dipendeva da nessuno. Era libera e desiderava soltanto mantenere negli uomini il dovere alla virtù e provvedere alla loro vita eterna. Niente era più alieno da essa che l’invasione dei diritti degli Stati, ma appariva giusto che gli Stati rispettassero i suoi diritti. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, si faceva un continuo sospettare della Chiesa: la si odiava, la si calunniava e si cercava, con ogni mezzo, di asservirla al potere dei governi. Tutto ciò era giudicato, in Vaticano, come violazione dei diritti della Chiesa, con immensi danni per la società civile. Conformemente al volere di Dio e a vantaggio della società umana, le autorità di governo avrebbero dovuto armonizzarsi con quelle ecclesiastiche. Ciascuno aveva i propri diritti e i propri doveri, ma si sarebbero dovuti legare tra loro da vincoli di concordia. Solo così, avrebbe avuto fine quella tensione nei rapporti tra Chiesa e Stato, improvvida per molti capi e deplorata dai buoni. Altro rischio per l’unità della Chiesa era rappresentato dalle sette massoniche, che tentavano, con ogni mezzo, di espandere il LEO1proprio potere, introducendo i propri membri in quanti più ambiti possibili. Fingendo di rivendicare i diritti dell’uomo, esse assalivano il Cristianesimo, ripudiando la rivelazione, i doveri religiosi e i sacramenti; proclamavano il culto della natura e l’uniformità, a questa, della verità e della giustizia. I cristiani avrebbero dovuto liberarsi da questo giogo. Rimossi tali pericoli, vi sarebbe stata abbondanza di beni. La lettera apostolica Principibus populisque universis è di fondamentale importanza per comprendere la dottrina di Leone XIII in merito alla guerra e alla pace. Vi è contenuta, infatti, una nuova e radicale condanna della guerra e l’intuizione della insufficienza e della insostenibilità della pace negativa (intesa come semplice assenza di violenza diretta e personale, distinta dalla pace positiva, nel senso più profondo di assenza di violenza strutturale, cioè di repressione politica, sfruttamento economico e oppressione culturale). In un passo centrale della lettera si legge: “Abbiamo davanti agli occhi le condizioni dell’Europa. Già da molti anni si vive una pace più apparente che reale. Colte da sospetti reciproci, quasi tutte le nazioni si affannano nella gara febbrile agli armamenti. I giovani sono spinti alla vita militare: nel fiore degli anni e delle forze, sono costretti ad abbandonare la coltura dei campi, lo studio, il lavoro per prendere le armi. Le finanze degli Stati sono esauste per gli enormi dispendi. Questo stato di pace armata è divenuto intollerabile”. Questo è un punto capitale per comprendere il contributo di Leone XIII al processo di fondazione della civiltà contemporanea. Il pontefice, infatti, definì un concetto di grande attualità: la pace non può essere armata, implica una messa in discussione del sistema della guerra e, per essere positiva leoe anche possibile, deve rinviare ad un ordinamento sociale e politico che sia giusto e che venga percepito come tale. Nella lettera, la critica feroce al moderno Stato liberale appare premoderna e nostalgica. Sulla pace e la guerra, invece, è di una modernità sconvolgente. In un passaggio finale, inoltre, il papa prefigurò anche una benefica globalizzazione cristiana: “I tempi volgono a dilatare largamente i benefici della religione cristiana perché, mai come adesso, il sentimento della fratellanza umana è penetrato più a fondo negli animi e non si è vista altra epoca nella quale gli uomini cercassero con tutti i propri mezzi di conoscersi e giovarsi a vicenda. Con incredibile velocità si travalicano terre e mari, non soltanto per i commerci e le ricerche della scienza, ma anche per diffondere la parola di Dio”.

 

L’Editto di Milano e la falsa esclusività del Cristianesimo

 

 

Sono anni che mi chiedo il motivo per cui, su molti libri di storia, anche di una certa autorevolezza, e, soprattutto, in documentari e programmi televisivi, venga continuamente propugnato un sostanziale falso storico: quello secondo cui l’Editto di Milano del 313 d. C., emanato dall’imperatore Costantino, avesse elevato il Cristianesimo a religione ufficiale dell’impero romano. Falso! Falso! Falso! L’editto, in realtà, non decretò alcuna esclusività al Cristianesimo, in quanto consentì la pratica libera della propria religione a tutti coloro che avessero un credo. Le uniche concessioni specifiche a quella particolare confessione consistettero nell’abolizione delle persecuzioni e nella restituzione, ai cristiani, delle chiese e dei beni precedentemente confiscati. Duemila anni dopo, nell’opinione comune, specialistica o meno, si continua a sostenere, con molta leggerezza, questo falso sostanziale. Per ristabilire la verità dobbiamo attendere l’opera di un altro Lorenzo Valla, autore, nel 1517, del De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio (Discorso sulla donazione di Costantino, contraffatta e falsamente ritenuta vera), scritto in cui il celebre umanista denunciò la falsità della cosiddetta Donazione di Costantino, documento (contraffatto, nell’VIII secolo, dalla stessa curia pontificia) sul quale, per secoli, la Chiesa Cattolica Romana aveva fondato la legittimazione del proprio potere temporale nell’Europa Occidentale?