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Slowdive

 

La straordinaria intuizione di fondere le atmosfere eteree del dream pop coi riverberi distorti degli shoegazer, ha fatto degli Slowdive una delle band più originali sulla scena underground dei primi anni ‘90. Il loro sound, suggestivo ed evocativo, pieno di colore e fantasia,slowdive_1 ha colpito dritto al cuore gli appassionati di rock e non solo. Gli Slowdive rappresentano, senza ombra di dubbio, l’ala più romantica del movimento shoegaze. Anzi, essi sono la band più significativa di questa particolare corrente, che caratterizzò la scena britannica, tra il finire degli ‘80 e gli inizi ’90, ancor più dei My Bloody Valentine (leggi articolo), band troppo originale e fuori dagli schemi, per poter essere inquadrata con facilità in qualsivoglia genere. Siamo nel 1989, quando tre ragazzi timidi, poco più che adolescenti, decidono di metter su una band e inseguire il loro sogno musicale. Si tratta di Neil Halstead e Rachel Goswell, al canto e alle chitarre, e di Nick Chaplin al basso. Sarà presto reclutato un batterista, Adrian Sell, e, infine, si unirà anche un terzo chitarrista, Christian Savill. Il nome della band si ispira a un sogno fatto dal bassista e non come erroneamente spesso si crede, alla famosa canzone dei Siouxsie. La prima demo tape, contenente due canzoni, in cui le voci sussurrate e sognanti vengono sommerse da distorsioni Slowdive-maindi chitarre lancinanti, li accosta subito al movimento degli shoegazer, che viveva in quegli anni il suo periodo di massimo splendore. Nel 1990, finalmente, un contratto discografico e la band dà vita al primo omonimo Ep. A far colpo sul pubblico ci pensa “Avalyn” (ascolta), una canzone lenta e rarefatta, in cui inizia ad emergere il loro stile personale e una visione piuttosto pessimistica della vita. La musica avanza lenta e, come in trance, le voci sono soffuse, eppure dal forte potere evocativo. E’ chiaro, ascoltando il brano, che il rock degli Slowdive è l’ideale punto d’incontro tra il dark dei primi anni ‘80, i rumori degli shoegazer e le atmosfere sognanti dei Cocteau Twins (leggi articolo). Con il secondo Ep, “Morningrise” (ascolta), la band perfeziona il suo stile e inizia a volare alto, tra un pubblico, che li segue, sempre più numeroso. La title track è una ballata di rara bellezza, disarmante, di quelle che lasciano col fiato sospeso. Just_For_a_DayPoi, c’è “Losing today” (ascolta), dalle atmosfere cupe e tenebrose, cantata con un filo di voce, quasi impercettibile. Ormai, tutto è pronto per il gran debutto e, nel 1991, la band crea “Just for a Day”, Creation Records (copertina a destra), il grande capolavoro della loro carriera musicale. Dopo gli splendidi Ep, l’attesa era forte e da loro ci si aspettava un gran disco. “Just for a Day” andò ben oltre le aspettative del pubblico più esigente. Ascoltarlo è un’esperienza che può segnare per la vita. E’ un po’ come entrare in quei quadri che ritraggono panorami solenni e incontaminati, avvolti, però, da una nebbia lattiginosa, che crea quell’atmosfera un po’ malinconica, In tal senso, si può citare come esempio “Catch the breeze” (ascolta), una canzone dominata da un ritmo irregolare, sul quale si inseriscono chitarre tintinnanti e una melodia triste, ma dal forte impatto emotivo, e con un ritornello di un romanticismo senza tempo. Poi, il finale strumentale, con le tre chitarre che intrecciano i loro feedback, creando una musica che è pura astrazione ambientale. Si può, inoltre, riportare “Ballad of sister Sue” (ascolta), una ballata tragica e struggente, maledettamente malinconica ma che non intristisce l’ascoltatore, bensì lo rapisce, per trasportarlo in un mondo dove malinconia è bellezza, pura, ingenua, incontaminata. Altrove, invece, prende il sopravvento la bellezza della melodia, celestiale e maestosa. maxresdefaultE’ il caso di “Celia’s dream” (ascolta) e dell’omaggio ai maestri Cocteau Twins, “Brighter” (ascolta). La band riesce anche ad evitare di essere ripetitiva, producendo canzoni ambiziose che vanno oltre il semplice concetto di strofa-ritornello. E’ il caso di “Spanish air” (ascolta), un pezzo possente ed orchestrale, ai limiti del progressive, una lunga cavalcata onirica con un ritornello medioevale e un arrangiamento tanto elegante quanto complesso. La chiusura del disco è affidata a “Primal” (ascolta), una canzone per certi versi devastante, ma avvolta in una sorta di trance mistica, che evoca la ricerca della pace interiore, almeno fino a quando non trova spazio un crescendo che sfocia in una magnifica psichedelia strumentale. Definire “Just for a Day” un capolavoro è forse riduttivo. “Just for a Day” è una vera e propria opera d’arte, firmata da ragazzi poco più che ventenni. Un’opera immensa, maestosa, incontaminata, visionaria e rivoluzionaria, onirica e sensuale. Un disco da ascoltare fino a perdere i sensi ed estraniarsi dalla realtà. Irripetibile e immortale.

Pier Luigi Tizzano

 

 

My Bloody Valentine

 

Partiti come band dark punk, i My Bloody Valentine sono arrivati a una singolarissima fusione tra rock psichedelico e atmosfere sognanti, passando alla storia come uno dei più importanti gruppi dei primi anni ‘90 e come gli inventori del genere shoegaze. La loro musica è un macigno di suoni caotici e muri di distorsioni sovrapposte, che non concedono tregua all’ascoltatore, trascinandolo in un viaggio che è insieme infernale e celestiale. mybloodyvalentine_1_1356628573La band nasce a Dublino nel 1983 e, dopo anni di sperimentazioni, concerti in locali semisconosciuti e cambi di formazione, la maestosa creatura My Bloody Valentine riesce a sfondare ed entrare di diritto nella storia del rock. Peccato, però, che la sua parabola duri solo due, seppure straordinari, album: Isn’t anything e Loveless, rispettivamente datati 1988 e 1991. In questi due dischi vi è racchiusa tutta l’enorme portata innovativa della loro arte. Un sound unico e inimitabile, costituito da un imponente muro sonoro, che marca una musica caotica ma delicata al tempo stesso, dura ma sognante, disordinata ma, in fondo, ordinata, ricca di inestricabili grumi sonori, con le chitarre sovraccaricate di feedback ed effetti stranianti e stordenti, con le voci e le melodie appena abbozzate, bisbigliate e sommerse da un mare di rumore. È stata la stampa inglese a inventare il termine shoegazers (letteralmente i fissa scarpe, e, di qui, il genere shoegaze) per l’insolita attitudine dei ragazzi di starsene a capo chino sui loro strumenti durante i concerti. La spiegazione più plausibile di questo strano fenomeno potrebbe trovarsi nel fatto che gli shoegazers (tra i quali rientrano anche altre band importanti come gli Slowdive o i Pale Saints) vivono in un tutt’uno con la loro musica, una sorta di amore spirituale coi propri strumenti. 1362117626_tumblr_le7eiz0dL01qdh7boI due dischi sono capolavori del rock, ma forse quello che brilla un pochino in più per genio, è il secondo, Loveless, Creation Records (copertina a destra). L’album parte con Only shallow  (ascolta), fatta di strati su strati di chitarre rumorose e tremolanti sui quali la voce angelica della cantante Bilinda Butcher canta melodia sommesse e distanti. Con Only shallow è subito chiaro lo scopo della band: creare vortici di suoni distorti e rumorosi, amalgamati perfettamente tra di loro e volti a formare un tutt’uno che fluttui per minuti e minuti. Per i My Bloody Valentine è molto più importante la ricerca del sound che il ritornello. Poi, c’è Loomer  (ascolta), una canzone dura e aggressiva, un micidiale hardcore addolcito come sempre dalla voce angelica, etera e paradisiaca della Butcher. Il capolavoro è To Here Knows When  (ascolta), la cui melodia è dolcissima e lontana, sepolta da tonnellate di rumore. La distorsione delle chitarre è estrema e accoppiata ad un quartetto d’archi “artificiale”. Ne viene fuori un’overdose di suoni distruttivi. Ma tutto si fonde alla perfezione, come in un puzzle, a dimostrazione del genio dei musicisti capaci di unire ciò che sembra essere diviso e contrapposto. I brani centrali del disco suonano più regolari, somigliando a delle classiche rock song, le quali, però, vengono ogni tanto stravolte da bizzarri motivetti elettronici. My+Bloody+Valentine+ImageAltro capolavoro da menzionare è Come in alone (ascolta), nella quale sembrano aleggiare le mitiche atmosfere della psichedelica anni ‘70. Poco dopo l’uscita del disco, i My Bloody Valentine sparirono dalla circolazione per riunirsi solo nel 2013, con la pubblicazione di MBV. La loro è stata una rivoluzione incompiuta, spazzata via nel giro di qualche anno dal britpop di band come gli Oasis, che banalizzeranno e renderanno quasi inesistente quel magico connubio tra rumore e dolci melodie. Loveless rimarrà il manifesto dei My Blood Valentine e di un modo tutto particolare di fare musica: un disco meraviglioso, astratto, etero. Un sogno nel sogno.

Pier Luigi Tizzano