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L’essere infinito e immutabile

La visione di Melisso di Samo

 

 

 

 

Melisso di Samo (V secolo a.C.) è stato uno dei principali esponenti della scuola eleatica, seguace di Parmenide e contemporaneo di Zenone. La sua riflessione filosofica si concentra sull’essere e sulla sua natura, sviluppando e ampliando le intuizioni di Parmenide con alcune differenze significative. Egli è noto soprattutto per il suo tentativo di dimostrare razionalmente che l’essere è unico, eterno, immutabile e infinito.
Melisso riprende l’idea parmenidea secondo cui l’essere è uno e non può derivare dal nulla né dissolversi nel nulla. Tuttavia, a differenza di Parmenide, che concepiva l’essere come finito e sferico, Melisso sostiene che esso debba essere infinito. Egli giustifica questa affermazione con il seguente ragionamento: se l’essere fosse finito, dovrebbe avere un limite, ma ciò implicherebbe la presenza di qualcosa al di là di esso, il che sarebbe una contraddizione, poiché nulla può esistere al di fuori dell’essere.
Questa concezione dell’infinità dell’essere rappresenta un significativo sviluppo rispetto alla visione di Parmenide e introduce un elemento che influenzerà alcune correnti successive del pensiero filosofico, come il neoplatonismo.
Melisso afferma con forza che l’essere è immutabile e che ogni forma di mutamento o di diversità è un’illusione. La sua argomentazione si basa sul principio di non contraddizione: se l’essere cambiasse, significherebbe che una parte di esso diventerebbe non-essere, il che è logicamente impossibile. Quindi, tutto ciò che appare come trasformazione, nascita o distruzione è solo un inganno dei sensi. Questo porta Melisso a negare la realtà del divenire e del tempo stesso: se l’essere è eterno e immutabile, il tempo non può esistere come qualcosa di reale, ma è solo un’illusione della percezione umana.

Un altro punto chiave della filosofia di Melisso è la negazione del vuoto. Egli sostiene che il vuoto non può esistere, poiché ciò equivarrebbe a postulare la presenza del non-essere, il che è impossibile. Senza il vuoto, però, il movimento non è possibile, poiché il movimento richiede uno spazio libero in cui potersi realizzare. Questa conclusione si oppone frontalmente alle teorie atomistiche di Leucippo e Democrito, i quali sostenevano che il movimento e la diversità della realtà derivassero dall’esistenza del vuoto tra gli atomi. Il rifiuto del vuoto da parte di Melisso si allinea invece con la tradizione eleatica, rafforzando l’idea dell’essere come un tutto continuo e senza divisioni.
La filosofia di Melisso ha avuto un impatto significativo nella storia del pensiero, anche se è stata oggetto di numerose critiche. Aristotele, ad esempio, lo accusa di commettere errori logici nelle sue dimostrazioni e di trarre conclusioni che non tengono conto dell’esperienza sensibile. Tuttavia, le sue riflessioni sulla natura dell’essere hanno contribuito a plasmare il dibattito metafisico nei secoli successivi.
Platone e Aristotele, pur criticandolo, non possono ignorarne il rigore logico e le implicazioni del suo pensiero. La sua visione di un essere eterno e immutabile influenzerà anche lo stoicismo e alcune correnti del neoplatonismo, in particolare per quanto riguarda l’idea di un principio unico e assoluto che governa la realtà.
Melisso di Samo rappresenta un’estensione radicale della filosofia eleatica, portando alle estreme conseguenze le idee di Parmenide. La sua concezione dell’essere come infinito e immutabile, il rifiuto del vuoto e del movimento, e la negazione del tempo fanno della sua filosofia una delle più rigorose espressioni del monismo ontologico. Sebbene la sua visione sia stata superata dalle teorie pluraliste e dinamiche del mondo naturale, il suo contributo rimane essenziale per la storia della metafisica. Le sue argomentazioni hanno costretto i filosofi successivi a confrontarsi con il problema dell’essere e del divenire, dando impulso a nuove sintesi e sviluppi nel pensiero occidentale.

 

 

 

 

La libertà come atto creativo

Il pensiero di Henri Bergson tra autenticità
e superamento dei pregiudizi

 

 

 

 

Henri Bergson ha elaborato una concezione originale della libertà, strettamente legata alla sua visione del tempo e della coscienza. Nei suoi scritti, in particolare in Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), rifiuta le concezioni meccanicistiche della realtà e della volontà umana, opponendosi a ogni forma di determinismo che riduca l’individuo a un mero ingranaggio di leggi causali rigide. Per Bergson, la libertà non può essere concepita come una scelta tra alternative già predeterminate, ma deve essere intesa come l’espressione autentica della personalità interiore, che si sviluppa in modo creativo e imprevedibile nel tempo.
Secondo Bergson, l’anima è libera perché, in ogni istante della sua esistenza, si identifica completamente con i sentimenti che la attraversano. Quando proviamo amore, odio, gioia o dolore non ci limitiamo a subire passivamente queste emozioni, ma le viviamo in prima persona, integrandole nel nostro essere. Non si tratta di semplici reazioni a stimoli esterni, ma di manifestazioni profonde della nostra coscienza, che non possono essere ridotte a un mero determinismo psicologico.
Tuttavia, questa identificazione con le emozioni non è sufficiente a garantire la libertà. Essere liberi non significa semplicemente seguire i propri impulsi o desideri momentanei, ma implica un processo più complesso di auto-consapevolezza e auto-liberazione. Il rischio maggiore è quello di confondere la nostra vera essenza con i condizionamenti esterni che ci vengono imposti dall’educazione, dalla cultura e dalle convenzioni sociali.
Bergson sottolinea come molti individui credano di essere liberi quando in realtà agiscono sulla base di abitudini, credenze e schemi di pensiero ereditati da un’educazione male assimilata. Le influenze esterne – i dogmi religiosi, le norme morali, le convenzioni sociali – tendono a imporsi alla coscienza sotto forma di pregiudizi che, anziché favorire la libertà, rischiano di soffocarla. Se l’individuo accetta passivamente questi condizionamenti senza metterli in discussione, finisce per conformarsi a un modello di esistenza che non è autenticamente suo, ma che gli è stato imposto dall’esterno.

La vera libertà, quindi, non è un semplice atto di volontà arbitraria, ma un processo di liberazione da tutto ciò che ostacola l’espressione della nostra interiorità più autentica. Per essere veramente liberi dobbiamo risalire alle radici del nostro io, distinguendo tra ciò che siamo realmente e ciò che è stato sovrapposto alla nostra personalità da influenze esterne. Questo significa abbandonare le convinzioni imposte e accedere a un livello più profondo della coscienza, dove le nostre scelte non sono determinate da pressioni esterne, ma scaturiscono dalla nostra essenza più autentica.
Per Bergson, la libertà non è un’entità statica, ma un processo dinamico che si svolge nel tempo. Qui entra in gioco il concetto bergsoniano di durata reale (durée), ossia il tempo vissuto dall’interno, che si oppone al tempo spazializzato della scienza e della fisica classica. La nostra coscienza non si sviluppa come una successione di stati fissi e misurabili, ma come un flusso continuo in cui ogni istante si intreccia con il precedente, creando una storia unica e irripetibile.
Essere liberi, in questo senso, significa aderire a questa durata interiore, accogliere il flusso del nostro essere senza lasciarci ingabbiare da schemi rigidi. La libertà è creatività, è la capacità di inventare noi stessi momento per momento, senza essere prigionieri di un passato fossilizzato o di un futuro già scritto. Questo processo di auto-creazione è ciò che distingue l’uomo libero da colui che è vincolato dalle convenzioni e dalle aspettative altrui.
Il pensiero di Bergson sulla libertà invita dunque a una profonda riflessione sull’autenticità dell’esperienza umana. Ci mostra che la vera libertà non consiste nel semplice rifiuto delle costrizioni esterne, ma in un percorso interiore di consapevolezza e trasformazione. Liberarsi dai pregiudizi non significa semplicemente respingere le influenze sociali o culturali, ma integrare in modo critico e autentico ciò che ci è stato trasmesso, distinguendo ciò che appartiene realmente alla nostra natura da ciò che è solo un’imposizione esterna. In ultima analisi, la libertà bergsoniana non è un punto di arrivo, ma un movimento continuo, un atto di creazione incessante che accompagna l’intera esistenza dell’individuo. Per essere veramente liberi, non basta scegliere tra opzioni preconfezionate: dobbiamo invece inventare la nostra vita, dando forma alla nostra identità nel tempo, in un processo di costante evoluzione e riscoperta di noi stessi.