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Cicerone e il destino della res publica

Legge, virtù e potere

 

 

 

 

Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), filosofo, oratore e uomo di Stato, elaborò una teoria politica che si fonda sulla centralità della legge, sulla difesa della libertas e sulla necessità di un governo misto come garanzia di stabilità. Il suo pensiero, profondamente influenzato dalla filosofia greca, in particolare da Platone, Aristotele e dagli Stoici, ebbe un impatto duraturo sulla tradizione politica occidentale, ispirando filosofi e giuristi fino all’età moderna.
Cicerone concepiva la res publica come un bene comune, non di proprietà di un singolo individuo o di una classe, ma di tutti i cittadini. La sua idea di Stato non si basa su un contratto sociale esplicito, ma sulla convinzione che l’ordinamento politico debba essere conforme alla natura razionale dell’uomo e mirare al bene della collettività. In questo senso, Cicerone sviluppa un’idea di giustizia politica che lega il governo alla moralità e alla virtù dei cittadini e dei governanti.
Secondo Cicerone, la miglior forma di governo è quella che combina elementi della monarchia, dell’aristocrazia e della democrazia, evitando gli estremi delle forme degenerative (tirannia, oligarchia e demagogia). Questo principio, ispirato alla teoria del governo misto di Polibio, si riflette nella struttura politica della Repubblica romana, in cui i consoli rappresentavano il potere monarchico, il Senato quello aristocratico e i comizi popolari quello democratico. Tale equilibrio era per Cicerone essenziale per la stabilità dello Stato e per evitare il rischio della corruzione o della tirannide.
Uno dei concetti cardine del pensiero politico di Cicerone è la supremazia della legge. Egli sostiene che la legge non è una semplice convenzione umana, ma un principio universale, radicato nella natura razionale dell’uomo. Questo lo avvicina alla dottrina stoica del diritto naturale, secondo cui esiste una legge morale eterna e immutabile che precede e vincola le leggi positive create dagli uomini.

Nel De Legibus, Cicerone afferma che “la legge è la più alta ragione insita nella natura”, sottolineando che il diritto positivo deve essere conforme a questa legge superiore. Il potere politico, dunque, non è arbitrario, ma deve essere esercitato nel rispetto della giustizia. Questo principio anticipa concetti fondamentali del pensiero giuridico moderno, come il costituzionalismo e la separazione tra diritto e potere.
Per Cicerone, il buon governo dipende non solo dalla struttura delle istituzioni, ma anche dalla virtù e dall’impegno dei cittadini. La libertas non è solo assenza di oppressione, ma anche partecipazione attiva alla vita pubblica. Il cittadino virtuoso deve essere moralmente integro e capace di mettere il bene comune al di sopra degli interessi personali. In questo contesto, Cicerone assegna un ruolo centrale all’oratore, figura che incarna il perfetto uomo politico. L’oratoria non è solo un’arte tecnica di persuasione, ma uno strumento per difendere la giustizia e guidare il popolo. Nel De Oratore, sottolinea che il vero oratore deve essere anche un filosofo, capace di discernere il giusto dall’ingiusto e di educare i cittadini alla virtù.
Uno degli aspetti più rilevanti del pensiero politico ciceroniano è la critica alla tirannide. Per Cicerone, il governo di un solo uomo privo di vincoli legali rappresenta la più grave minaccia per la libertas e per la stabilità della res publica. La libertà non è solo l’assenza di dominio arbitrario, ma un sistema in cui il potere è bilanciato e regolato dalla legge. La sua opposizione a Giulio Cesare e successivamente a Marco Antonio ne è una dimostrazione concreta. Cicerone vedeva in Cesare un pericolo per la Repubblica, poiché con la sua ascesa al potere assoluto minava l’equilibrio istituzionale. Dopo l’uccisione di Cesare, tentò di contrastare Marco Antonio con le celebri Filippiche, discorsi in cui lo accusava di aspirare alla tirannide. Questa strenua difesa della Repubblica gli costò la vita: fu proscritto e assassinato nel 43 a.C.
L’influenza del pensiero politico di Cicerone si estese ben oltre la sua epoca. Durante il Medioevo, il suo concetto di diritto naturale venne integrato nella filosofia scolastica, soprattutto grazie a Tommaso d’Aquino. Nel Rinascimento, il recupero delle sue opere contribuì a rinnovare l’interesse per la politica e il diritto. Nell’età moderna, pensatori come John Locke e Montesquieu ripresero i suoi concetti di legge naturale e governo misto per sviluppare le loro teorie sul costituzionalismo e sulla separazione dei poteri. La sua concezione della libertas influenzò profondamente il pensiero repubblicano e contribuì alla formulazione delle moderne democrazie costituzionali. Cicerone non fu solo un teorico della politica, ma un uomo d’azione che visse coerentemente con le sue idee, difendendo la Repubblica fino alla fine. Il suo pensiero resta un punto di riferimento fondamentale per chi riflette sul rapporto tra legge, libertà e potere.

 

 

 

 

 

Machiavelli e l’autodissoluzione di ogni tirannide

 

di

Eleonora Travanti

 

 

Alle congiure contro il principe, Machiavelli dedica il più lungo dei capitoli dei suoi Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio e pare farlo per ammonire signori e sudditi della pericolosità dell’impresa: affinché i principi se ne sappiano guardare e i privati se ne tengano lontani per la salute della patria. Nel Principe non occorre mai il termine tiranno, si parla piuttosto del «principe nuovo» fondatore di nuovi ordini. Di tiranni e tirannidi… 

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Niccolò Machiavelli (1469-1527)

 

 

 

Lo storico Polibio, le Costituzioni romane e un angoletto napoletano, “morto della storia”

 
 

Polibio di Megalopoli (206-124 a.C.), insigne storico greco antico, dedicò gran parte dei suoi scritti alla storia di Roma, alla nascita della Repubblica romana e alla sua potenza. Secondo lo studioso, il sistema politico romano repubblicano si basava su una costituzione mista, risultato della sintesi delle tre forme di governo fondamentali, dell’armonia e dell’equilibrio tra i tre organi depositari del potere: la monarchia (rappresentata, a Roma, dai consoli), l’aristocrazia (rappresentata dal senato) e la democrazia (rappresentata dai comizi). Già altri storici greci avevano teorizzato che questi tre ordinamenti degenerassero, inevitabilmente, rispettivamente, in tirannide, oligarchia e oclocrazia. Giunta l’oclocrazia il ciclo si sarebbe poi ripetuto, con il ritorno alla monarchia. Secondo Polibio, nel caso della costituzione mista, anche Roma non sarebbe potuta sfuggire al regresso. Nel VI libro delle “Storie”, il greco descrive proprio l’anaciclosi (in greco, anakyklosis), il processo di ritorno ciclico secondo il quale, le principali forme di governo e le relative degenerazioni si sarebbero succedute l’una all’altra, in un fatale trapasso involutivo: dalla monarchia alla tirannide, dall’aristocrazia all’oligarchia, dalla democrazia all’oclocrazia. Roma, tuttavia, avrebbe potuto ritardare questo processo storico di decadenza grazie alla sua costituzione e alla straordinaria preparazione militare, ma non vi si sarebbe potuta sottrarre. Una fortissima eco di questa teoria è presente nelle dottrine di uno dei pensatori napoletani più eminenti di tutta la storia del pensiero occidentale: Giambattista Vico (1668-1744). Questi, infatti, tra le tante dottrine, formulò quella dei corsi e ricorsi storici, ovvero il continuo e incessante ripetersi di tre cicli temporali distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il tutto, secondo un preciso disegno, stilato dalla divina provvidenza. L’intero sistema filosofico di Vico, impossibile da esaurire in queste poche righe, potente e meraviglioso, secondo le parole di Antonio Gramsci, fu elaborato da un “angoletto morto della storia”. Compitino per le vacanze di Natale: approfondite la filosofia di Giambattista Vico, cominciando con la lettura della “Scienza Nuova” (1725).

 

Pubblicato l’1 gennaio 2017 su La Lumaca