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La signora, l’amore e il trovatore

 La lirica provenzale e i trovatori

 

 

 

 

Le donne, sempre un po’ maltrattate dagli uomini durante tutto il corso della storia del mondo, potessero scegliere l’epoca e il luogo in cui vivere, deciderebbero certamente di abitare in Provenza, nella Francia meridionale, tra il XII e il XIII secolo. Proprio lì, infatti, nei castelli e nelle corti, ebbe origine e si sviluppò un genere letterario fondamentale,  imitatissimo in tutte le successive letterature, non soltanto in quella italiana: la poesia cortese. Chi furono, dunque, quegli uomini che restituirono alle donne, e con gli interessi, tutto quanto era stato loro costantemente negato? E quei poeti, che le cantarono come fossero la Madonna, Sant’Anna, Sant’Elisabetta, Marilyn Monroe, Sophia Loren e Greta Garbo messe insieme, che tipi erano? Nella lingua provenzale esisteva un verbo, trobar (mi raccomando, senza la m!) che in italiano si traduce comporre, trovare versi. Da questo verbo derivò la parola trovatore, il protagonista principale di questa inedita e meravigliosa stagione poetica. juglarI trovatori erano uomini di varia estrazione sociale, alcuni nobili o feudatari, altri legati alla vita di corte, altri cavalieri senza proprietà, nemmeno il cavallo, altri ancora giullari di grande cultura. Tutti, comunque, avevano studiato le regole della galanteria, erano educatissimi e conoscevano la poesia e la musica. Nel loro ambiente si diceva che un buon trovatore dovesse essere sempre ben informato sull’attualità regionale e nazionale, meglio del direttore del TG1 o di quello del Corriere della Sera; dovesse essere pettegolo e cianciare su tutto quanto succedesse nelle corti, più di Alfonso Signorini e di Roberto D’Agostino; saper suonare almeno due strumenti musicali, come Edoardo Bennato quando si presenta in Tv suonando, contemporaneamente, la chitarra, l’armonica e, con il piede, il tamburo; ma, principalmente, dovesse essere capace di improvvisare versi, a un signore, per adularlo, e a una gentildonna, per adorarla. Quando le signore e le dame si accorgevano che un trovatore stesse per avvicinarsi, sedevano comode, mettevano il cuore nello zucchero e lo ascoltavano cantare i suoi versi. Era proprio un piacere sentirsi dire cose di questo genere:

“Mia signora, voi siete la mia padrona e io, vostro servitore fedele, mi inginocchio dinanzi a voi. Mia signora, mia meraviglia, non posso più vivere senza mirarvi, occhi miei. Soltanto mirarvi, ché se osassi sfiorarvi (a vostro marito è concesso), il mio amore non sarebbe più puro e perfetto, ma falso. Siamo vicini, mia stella, ma il vostro splendore vi rende lontana, oltre il cielo. Cercherò, con i miei versi, di colmare questa distanza, scala per il paradiso. Rivolgete a me i vostri occhi, mia signora. Parlatemi, dolce soffio. Io rimarrò immobile ad ascoltarvi, anima mia, perché, se soltanto battessi le ciglia, le invidiose malelingue mi calunnierebbero, voi scostereste il vostro sguardo da me, mio sole, e io appassirei come un fiore, fino a marcire e morire!”.

Questi, dunque, erano i temi principali della poesia provenzale: l’esaltazione della donna-signora-padrona; l’amante-vassallo sempre pronto a servirla; L'AMORE CORTESEla sua abbagliante bellezza, che la poneva a una distanza incolmabile, e i tentativi del poeta di ridurla il più possibile con la sua lirica; il culto quasi religioso dell’amore, che ingentilisce e nobilita l’animo del poeta, purificandolo da ogni viltà e rudezza; le sofferenze, i tormenti, ma anche la gioia, generati in lui da questo amore impossibile e mai appagato; la costante minaccia delle parole dei maldicenti, che avrebbero potuto danneggiare l’amante agli occhi della sua signora e, questa, agli occhi del marito. Alcuni trovatori, però, avevano molto meno ossequio e parlavano alle loro amate secondo motivi che, circa 650 anni dopo, sarebbero stati ripresi da quattro loro colleghi che cantavano in napoletano: gli Squallor.

“Bella signorona mia, voi non sapete cosa vi combinerei! Venite qua che vi faccio sentire l’aria di Provenza nella buatta. Poi vi porto a sceppare le more dietro a un cespuglio, alla facciaccia di quel pecorone di vostro marito che sta a casa ad allisciarsi le corna. Se solo vi metto un dito addosso, altro che distanza, non mi stacco più, come fa il purpo quando si azzecca allo scoglio”, e così via…

I diversi toni con cui i trovatori si rivolgevano alle donne erano dovuti ai vari modi di trobar (sempre senza la m!): il trobar rich (ricco), tutto preziosismi e virtuosismi, fiori e uccellini, cinguettii e melodie, capelli d’angelo e porporina dorata; il trobar clus (chiuso), oscuro ed ermetico, quasi come la combinazione di una cassaforte, conosciuta soltanto da chi l’aveva scritta, e, infine, il trobar leu (facile), vivace e spigliato, chiaro da leggere e recitare e, poiché destinato alle donne un po’ leu, il più fruttuoso. Nonostante l’amore irraggiungibile, infatti, di tanto in tanto, qualche contentino si riusciva ad averlo! 1413475223_10648532_10202693807654584_309076384955801870_oNumerosi erano, poi, i tipi di componimenti, con i quali i trovatori cercavano di guadagnarsi la “guardata” dalla signora: la canzone, il più usato; l’alba, per descrivere brevemente il risveglio dei due amanti; la serenata, di notte, sotto al balcone della dama, mentre questa si estasiava e il poeta, dal piano terra, ci dava dentro a cantare e suonare; la ballata, destinata, appunto, a essere ballata (dovevano saper fare di tutto!); il gioco delle parti e la tenzone, con i quali i trovatori litigavano tra loro su questioni d’amore; il pianto, per i funerali e le circostanze tristi in genere (l’amore è anche dolore!).

Alcuni trovatori famosi

Guglielmo IX, duca d’Aquitania, fu il primo trovatore del quale è stata conservata l’opera. Amante della bella vita, partecipò alla Prima Crociata, dove fece figure, per così dire, marroni. Fu più volte scomunicato dalla Chiesa perché, per gli standard del tempo, si divertiva troppo. BER7Scrisse componimenti chiamati versi, molto sensuali e goderecci.
Bernard de Ventadorn (foto a sinistra), casanova ante litteram, esaltò la sua passione per molte donne, tra cui, la più nota, fu Eleonora d’Aquitania, sua protettrice e madre di Riccardo Cuor di Leone, re d’Inghilterra. Cacciato costantemente dai castelli, da mariti gelosi e feriti nell’onore, compose canzoni colme di notizie sulla sua vita e sui suoi guai, esprimendo, con linguaggio semplice, passioni molto intense. Era uno che andava al sodo!
Bertrand de Born, signore di un piccolo feudo in Dordogna, condottiero avido e senza troppi scrupoli, combatté contro suo fratello e contro diversi re dell’epoca. Finì i suoi giorni in convento, come un povero sconsolato. Scrisse soprattutto sirventesi, sulle virtù cavalleresche e sulle gesta d’armi. Dante lo avrebbe incontrato all’Inferno, nel Canto XXVIII, tra i seminatori di discordia. Vagava, anima perduta, reggendo la sua testa in mano, come una lanterna.
Arnaut Daniel fu uno di quei trovatori che ideavano combinazioni per casseforti. Redasse canzoni per sperimentarne forme metriche e linguistiche, piùttosto che lodare la sua donna. Un tecnico, insomma!
Raimbaut de Vaqueiras, primo tra i trovatori di una certa fama a soggiornare in Italia settentrionale, presso diversi signori locali, mostrò molta curiosità per le parlate italiane, tanto da inserirle in alcune sue poesie. In un contrasto, Donna, tant vos ai preiada (Donna, tanto vi ho pregata) lui parla in provenzale e la sua donna risponde in dialetto genovese.

Questa stupenda epoca di poeti e dame, di amore e devozione, di canto e passione, finì bruscamente quando papa Innocenzo III promise tutta la ricchezza della Linguadoca e della Provenza all’esercito che fosse riuscito a sottometterne i principi e ad annientare i catari e la loro eresia. Era il 1209. Fu un anno terribile, che pose fine alla cultura provenzale, alla sua poesia e alla sua cortesia. Di lì a poco, i decreti della Santa Inquisizione avrebbero proibito di cantare, e, persino, di parlarne, le canzoni dei trovatori.

 

 

La Scuola siciliana

 

Nei primi decenni del ‘200, Federico II di Svevia, preso pieno possesso del Regno di Sicilia, riunì, nel suo palazzo, a Palermo, funzionari, burocrati a lui fedeli e alti amministratori, annunziando loro: “È giunto il momento che io superi gli altri sovrani del mondo anche nella cultura!”. L’Hohenstaufen aveva chiaro in mente che per creare un vero Stato italiano e non soltanto “un’espressione geografica”, come avrebbe appellato l’Italia, seicento anni dopo, il principe austriaco Klemens von Metternich, avesse avuto bisogno, per prima cosa, di una lingua comprensibile a tutti i suoi sudditi. Il latino, infatti, seppure fosse la lingua franca dell’Europa medievale, restava oscuro alla quasi totalità delle genti sotto il suo imperio, le quali, tra loro, sapevano esprimersi soltanto in volgare o dialetto. Frederick_II_and_eagleLa lingua di Roma antica, inoltre, era quella dei preti e della Chiesa e allo Stupor mundi  (stupore del mondo), come i contemporanei chiamavano lo svevo, stavano entrambi sui due mondi. Anche per questo, quindi, il re operò per porre in essere le condizioni affinché, nell’uso quotidiano, il latino fosse definitivamente rimpiazzato dal volgare. Molti degli amministratori e dei funzionari di Federico (immagine a destra) non erano siciliani e, nelle terre di provenienza, avevano sentito dire che nelle corti del Nord Italia avessero bazzicato i trovatori, fuggiti dalla Provenza all’arrivo delle truppe di papa Innocenzo III, il quale, per ironia della sorte, fu anche tutore di Federico. Poiché Palermo era troppo lontana per invitarli a recitare colà le loro poesie, tutti insieme, re in testa, decisero che, per il maggiore prestigio della compagnia, del regno e della dinastia, avrebbero dovuto anche loro comporre versi. Fu proprio alla poesia, quindi, che il nipote del Barbarossa intese affidare il compito di veicolare la nuova lingua ufficiale. Così, tra una legge emanata e una battuta di caccia, qualche condanna a morte e un’esecuzione capitale, la redazione di documenti pubblici e una passeggiata per controllare come stessero le cose intorno al castello, alla corte di Palermo e in provincia si scrivevano poesie alle donne. La traccia fu fornita dalla lirica cortese della Provenza, lo svolgimento, invece, ebbe caratteri propri, con differenze anche notevoli. Innanzi tutto, rispetto ai trovatori, che erano di varia estrazione sociale, feudatari come cavalieri squattrinati, i poeti siciliani appartenevano tutti alla cerchia di Federico, quindi, erano persone istruite, professionalmente impegnate e vivevano agiatamente. Essi, poi, non erano musicisti (non sapevano suonare alcuno strumento) ma, semplicemente, diremmo oggi, parolieri, scrivevano, cioè, solo i versi. scuola_siciliana_02_nPer l’accompagnamento musicale, se la fortunata ascoltatrice avesse voluto il complessino, avrebbe dovuto chiamare i musicanti e pagarli a parte. Per quanto riguarda le tematiche, infine, i siciliani erano molto meno “platonici” e più efficaci dei provenzali. La donna era, sempre e comunque, signora e padrona, e il suo amante costantemente pronto a servirla, giorno e notte, in tutti i modi possibili. Nei componimenti dei siciliani, però, scompariva quella distanza incolmabile tra la dama e l’amante che, invece, era dolorosamente imprescindibile per i trovatori. Anzi, i primi celebravano proprio nel “vedere” la donna, il momento più bello di tutta la faccenda:

Meravigliosamente
un amor mi ristringe
e mi tiene ogn’ora.
Com’om che pone mente
in altro exemplo pinge
la simile pintura,
così, bella, facc’eo
che’nfra lo core meo
porto la tua figura…

scriveva Giacomo da Lentini (immagine in basso a destra). Da quella visione, poi, si libravano in volo tutta una serie di immagini, di metafore, di tricche e di ballacche, di forze della natura, di pietre preziose, di animali reali e fantastici, di figure splendide e ideali, che certamente dovevano far molto piacere alle donne, anche se queste, in mezzo a tutte quelle parole difficili, ci capivano veramente poco. 01107Per questo, i poeti, spesso, prendevano il due di picche ed erano dolori e lamenti! Per non rimanere come dei fessi, si affrettavano a giustificarsi sostenendo che servire l’amata e impegnarsi ad esserle fedele li avrebbe resi più nobili e migliori di quanti, invece, arrivavano al sodo. Essi cantavano l’amore in quanto tale, più che un reale affaire, alla francese, o un intercourse, all’inglese (la corte di Federico era internazionale!). Le donne amate erano, prima di tutto, simboli ai quali indirizzare le proprie considerazioni su cosa fosse l’amore. C’era, tuttavia, un elemento che accomunava i siciliani ai provenzali: la paura delle malelingue, sempre in agguato, ad ogni angolo e in ogni occasione, per mettere in cattiva luce il poeta agli occhi della sua dama.