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I Papi, la guerra e la pace: Leone XIII e la lettera apostolica Principibus populisque universis, del 20 giugno 1894

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Vincenzo Gioacchino Pecci, asceso al soglio pontificio col nome di Leone XIII, è stato il 256° papa della Chiesa Cattolica Romana. Nato a Carpineto Romano, il 2 marzo 1810, fu eletto papa nel 1878. Tra i pontefici dell’epoca moderna è ricordato perché ritenne che tra i compiti della Chiesa rientrasse anche l’attività pastorale in campo socio-politico. Scrisse 86 encicliche, tentando di superare l’isolamento nel quale la Santa Sede si era ritrovata dopo la perdita del potere temporale, a seguito dell’Unità d’Italia. Morì il 20 luglio 1903.

 

leoneXIII

 

Il testo della lettera apostolica, Principibus populisque universis, più nota come Praeclara Gratulationis, fu pubblicato in italiano, oltre che nella versione originale latina, su La Civiltà Cattolica, il 25 giugno 1894. La lettera riprese e ampliò il contenuto di una allocuzione ai cardinali del 10 febbraio 1889. Fu indirizzata ai “principi” (governanti) e ai popoli di tutto il mondo. Il pontefice rivolse il suo primo pensiero ai popoli dell’Oriente e alle chiese orientali, illustri per la fede e per le antiche glorie. Non pochi papi, alcuni dei quali martiri, infatti, avevano origini orientali. Storicamente, c’erano stati motivi di disaccordo tra le Chiese, tra tutti, il primato del pontefice romano e della Sede romana, ma erano stati risolti. La storia di quei conflitti avrebbe dovuto rappresentare l’invito per rientrare nella pace poiché, dinanzi a Dio, non ci sarebbe stata alcuna discolpa per quei fratelli che si erano separati, laddove Dio stesso era sceso in Terra ed era stato crocifisso per unirli e raccoglierli in un solo ovile. Il secondo pensiero fu dedicato ai popoli slavi, eredi dai santi Cirillo e Metodio, con i quali vi era sempre stato un proficuo rapporto reciproco, nell’auspicio che le traversie che allontanarono molte di quelle genti dalla Chiesa di Roma, lasciassero il posto al ritorno all’unità. L’ultimo pensiero fu riservato ai cattolici di tutto il mondo, i quali erano da ammonire affinché non lasciassero perdere i doni di Dio, per trascuratezza e per inerzia. Essi avrebbero dovuto ubbidire al magistero e all’autorità della Chiesa e riflettere su quanto fosse pericoloso, per l’unità cristiana, l’errore di non seguire la strada della Chiesa. Questa, infatti, aveva potere di fare leggi e, nel farle, non dipendeva da nessuno. Era libera e desiderava soltanto mantenere negli uomini il dovere alla virtù e provvedere alla loro vita eterna. Niente era più alieno da essa che l’invasione dei diritti degli Stati, ma appariva giusto che gli Stati rispettassero i suoi diritti. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, si faceva un continuo sospettare della Chiesa: la si odiava, la si calunniava e si cercava, con ogni mezzo, di asservirla al potere dei governi. Tutto ciò era giudicato, in Vaticano, come violazione dei diritti della Chiesa, con immensi danni per la società civile. Conformemente al volere di Dio e a vantaggio della società umana, le autorità di governo avrebbero dovuto armonizzarsi con quelle ecclesiastiche. Ciascuno aveva i propri diritti e i propri doveri, ma si sarebbero dovuti legare tra loro da vincoli di concordia. Solo così, avrebbe avuto fine quella tensione nei rapporti tra Chiesa e Stato, improvvida per molti capi e deplorata dai buoni. Altro rischio per l’unità della Chiesa era rappresentato dalle sette massoniche, che tentavano, con ogni mezzo, di espandere il LEO1proprio potere, introducendo i propri membri in quanti più ambiti possibili. Fingendo di rivendicare i diritti dell’uomo, esse assalivano il Cristianesimo, ripudiando la rivelazione, i doveri religiosi e i sacramenti; proclamavano il culto della natura e l’uniformità, a questa, della verità e della giustizia. I cristiani avrebbero dovuto liberarsi da questo giogo. Rimossi tali pericoli, vi sarebbe stata abbondanza di beni. La lettera apostolica Principibus populisque universis è di fondamentale importanza per comprendere la dottrina di Leone XIII in merito alla guerra e alla pace. Vi è contenuta, infatti, una nuova e radicale condanna della guerra e l’intuizione della insufficienza e della insostenibilità della pace negativa (intesa come semplice assenza di violenza diretta e personale, distinta dalla pace positiva, nel senso più profondo di assenza di violenza strutturale, cioè di repressione politica, sfruttamento economico e oppressione culturale). In un passo centrale della lettera si legge: “Abbiamo davanti agli occhi le condizioni dell’Europa. Già da molti anni si vive una pace più apparente che reale. Colte da sospetti reciproci, quasi tutte le nazioni si affannano nella gara febbrile agli armamenti. I giovani sono spinti alla vita militare: nel fiore degli anni e delle forze, sono costretti ad abbandonare la coltura dei campi, lo studio, il lavoro per prendere le armi. Le finanze degli Stati sono esauste per gli enormi dispendi. Questo stato di pace armata è divenuto intollerabile”. Questo è un punto capitale per comprendere il contributo di Leone XIII al processo di fondazione della civiltà contemporanea. Il pontefice, infatti, definì un concetto di grande attualità: la pace non può essere armata, implica una messa in discussione del sistema della guerra e, per essere positiva leoe anche possibile, deve rinviare ad un ordinamento sociale e politico che sia giusto e che venga percepito come tale. Nella lettera, la critica feroce al moderno Stato liberale appare premoderna e nostalgica. Sulla pace e la guerra, invece, è di una modernità sconvolgente. In un passaggio finale, inoltre, il papa prefigurò anche una benefica globalizzazione cristiana: “I tempi volgono a dilatare largamente i benefici della religione cristiana perché, mai come adesso, il sentimento della fratellanza umana è penetrato più a fondo negli animi e non si è vista altra epoca nella quale gli uomini cercassero con tutti i propri mezzi di conoscersi e giovarsi a vicenda. Con incredibile velocità si travalicano terre e mari, non soltanto per i commerci e le ricerche della scienza, ma anche per diffondere la parola di Dio”.

 

Le donne nel Risorgimento (Prima parte)

 

 

Il ruolo delle donne nella costruzione dello Stato italiano è sempre stato considerato subordinato a quello maschile. Queste, infatti, nonostante la poca o nulla visibilità pubblica, non solo ebbero un ruolo rilevante in quel processo, ma furono numerose, di diverse estrazioni sociali e si dimostrarono volitive, determinate, con idee e progetti da costruire, carlo-stragliati-milano-cinque-giornateimpegnate direttamente nelle cospirazioni così come nelle lotte vere e proprie, anche se, in genere, con funzioni di organizzatrici – una delle poche che imbracciò il fucile fu Anita Garibaldi – passate poi, dopo l’unificazione, a ruoli di impegno sociale, a beneficio delle donne e dell’infanzia, per il riscatto sociale delle classi disagiate, per l’organizzazione e la promozione dell’educazione. Queste donne, senza esagerare, furono centinaia. Anche se, in gran parte, dimenticate, non mancarono di essere coraggiose protagoniste nelle vicende che portarono all’unificazione d’Italia. Sebbene, quindi, fossero state figure di primo piano in quel processo storico, sono finite troppo presto nel dimenticatoio, tanto che, i loro nomi risultano oggi quasi scomparsi dai manuali di storia e, dunque, sconosciuti ai più. Nella stragrande maggioranza dei casi, il loro apporto non si limitò alla partecipazione più o meno attiva alla fase di unificazione dello Stato italiano, ma proseguì nel tempo, concretizzandosi in iniziative di alto valore civile e sociale, in grado di far crescere la nuova nazione e di avviare la costruzione di una società più libera e giusta. Il percorso che trasformò un’idea nella realtà dell’Italia unita, dalla Lombardia alla Sicilia, fu contrappuntato dal progressivo coinvolgimento delle masse, dunque l’apporto femminile fu determinante in tutte le sue tappe. Questo eroinepercorso, però, si espresse in forme di partecipazione diverse, che lo resero meno “eroico” e, perciò, più oscuro e anche più facilmente oscurabile da parte degli stessi contemporanei. Il medesimo destino, del resto, che è sempre toccato nei secoli, e in parte ancora oggi, al ruolo della componente femminile, peraltro numericamente maggioritaria, in tutte, o quasi, le società umane. La storia delle donne e dell’Unità d’Italia è stata una storia scritta con un inchiostro invisibile. Una trama fitta e sottile di presenze operose, generose, importanti, anche se taciute, come spesso accade all’agire femminile. Le donne furono presenti attivamente nel processo risorgimentale e vi contribuirono con atteggiamenti diversi, coraggiosi e innovativi, con scelte di libertà. Una perpetrata omertà della storia e degli storici non ha reso loro giustizia. Giuseppe Mazzini nell’utopia universalistica della sua visione della realtà, manifestò posizioni aperte e rispettose circa l’importanza del ruolo della donna nella società, anche se ammise l’immaturità dei tempi affinché qualcosa potesse cambiare e la donna partecipare alla vita politica del Paese: “L’emancipazione della donna – scrisse Mazzinisancirebbe una grande verità, di base a tutte le Garbaldi_e_Anitaaltre, l’unità del genere umano, e assocerebbe nella ricerca del vero e del progresso comune una somma di facoltà e di forze, isterilite da quella inferiorità che dimezza l’anima. Ma sperare di ottenerla alla Camera come è costituita, e sotto l’istituzione che regge l’Italia (la monarchia) è, a un dipresso, come se i primi cristiani avessero sperato di ottenere dal paganesimo l’inaugurazione del monoteismo e l’abolizione della schiavitù”. L’emancipazione della donna passò, senza dubbio, attraverso l’esperienza dell’associazionismo, che diffuse la pratica del dibattito e della democrazia. In questo senso, il “salotto” fu il primo strumento di apertura alla sua partecipazione e all’impegno intellettuale e civile. Fu in ambiti aristocratici e alto-borghesi, il cui livello culturale e l’internazionalità della formazione consentivano di  produrre opinioni e confrontarle diffondendo così la passione per l’impegno sociale e civile, che ciò ebbe luogo. Nobildonne aprirono i loro salotti a letterati, patrioti e artisti, contribuendo, in modo sostanziale, alla creazione di un humus fertile alla diffusione dei fervori cinque_giornateunitari e risorgimentali. Spesso simpatizzanti delle idee mazziniane, o vicine alla carboneria, come, poi, lo saranno alla teosofia, alla massoneria, esse hanno meno combattuto tra le barricate a colpi di moschetto, e più lavorato per la costruzione del paese civile.  Nel salotto di via Bigli, ad esempio, la contessa Clara Maffei riunì patrioti e artisti, uniti dall’anelito di indipendenza e dall’ardore libertario, quegli stessi che, nel 1859, avrebbero imbracciato le armi contro l’aquila Asburgica. Filantrope più che patriote, quindi, fondarono ospedali, organizzazioni per l’assistenza alle minorenni, aprirono asili e scuole per affrancare le donne da quella indigenza di cultura che si traduceva in mancanza di libertà. Le sottili trame del femminile legarono fatti e persone e spesso, i destini di queste donne, si incrociarono o si sfiorarono. Alcune di esse sono entrate nei libri di scuola, come Anita Garibaldi, compagne di eroi, o astute strateghe dell’intrigo e della politica, come la Contessa di Castiglione. Altre contribuirono, con i loro sforzi e le loro idee, ad un’azione collettiva e diffusa in cui è difficile far emergere singole individualità. Sono prime forme di associazionismo intorno a veri e propri progetti politici, sono comitatiDonneBandiera di filantrope dedite ad un progetto sociale, sono gruppi di giornaliste e intellettuali riunite intorno ad un periodico, comitati clandestini di patriote e congreghe dal carattere religioso. Spesso queste storie si coloravano di episodi avventurosi  e  rocamboleschi, e queste non sempre famose eroine si destreggiavano vestendo, il più delle volte, panni  maschili, nascondendosi sotto travestimenti e false identità. Se gli uomini del Risorgimento, quindi, furono i protagonisti dell’Unità politica del Paese, le donne, nell’ombra, operarono alla creazione dell’unità sociale e culturale della nuova e giovane Italia. Nel fare questo, avviarono, contemporaneamente, la prima riflessione sulla condizione femminile, cominciando ad elaborare l’identità della donna dell’Italia unita. Esse tracciarono la strada sulla quale avrebbero camminato le donne del futuro, quella stessa strada sulla quale, oggi, più di 150 anni dopo, esse sono ancora in cammino.