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Il visionario di Friedrich Schiller

Tra illusione e potere, un capolavoro incompiuto
dell’Illuminismo gotico

 

 

 

 

Il visionario (Der Geisterseher) è un romanzo incompiuto di Friedrich Schiller, pubblicato in forma seriale tra il 1787 e il 1789 sulla rivista Thalia. L’opera si inserisce in un momento cruciale della produzione letteraria dell’autore, in cui si confronta con il genere del romanzo e con tematiche che anticipano le sue future riflessioni filosofiche e politiche. Il testo, pur rimanendo frammentario, ebbe un impatto significativo sulla letteratura successiva, in particolare per la sua capacità di fondere il mistero con la speculazione razionale e per la sua influenza sulla narrativa gotica e sul romanzo filosofico.
L’idea di Il visionario nacque in un periodo in cui Schiller era affascinato dalle questioni legate al mistero, al soprannaturale e alle trame cospirative. Il contesto storico e culturale dell’epoca, segnato dall’Illuminismo e dalla crescente diffusione delle società segrete, si riflette nella narrazione, che percorre la tensione tra razionalità e superstizione, tra libero arbitrio e manipolazione.
La storia si sviluppa attorno a un protagonista, un giovane principe tedesco in viaggio a Venezia, il quale si ritrova coinvolto in un intricato gioco di inganni e illusioni orchestrato da una società segreta. L’atmosfera della città lagunare, con le sue calli oscure e le sue maschere enigmatiche, diventa il perfetto scenario per un racconto che mescola elementi gotici, filosofici e politici.
Nella prima fase della composizione, pubblicata tra il 1787 e il 1788, Schiller introduce il protagonista e ne delinea il carattere, presentandolo come un uomo razionale ma vulnerabile alle seduzioni dell’ignoto. L’incontro con un misterioso armeno, figura ambigua e inquietante, segna l’inizio di un percorso che metterà alla prova la sua capacità di discernere la realtà dall’inganno.
Nella seconda fase, tra il 1788 e il 1789, la tensione narrativa cresce. Il principe viene trascinato in eventi sempre più inquietanti, in cui i confini tra realtà e visione si fanno labili. Attraverso una serie di apparizioni misteriose, inganni raffinati e situazioni che sfidano la logica, Schiller costruisce un crescendo di suspense che tiene il lettore in bilico tra il razionale e l’occulto. Tuttavia, l’opera rimane incompiuta, lasciando aperti molti interrogativi sulla sorte del protagonista e sul reale significato degli eventi narrati. La causa dell’interruzione potrebbe essere attribuita all’evoluzione degli interessi di Schiller, sempre più orientato verso il teatro e la filosofia classica, oltre che alla difficoltà di portare a compimento una trama tanto intricata e sfuggente.

L’opera affronta diverse tematiche centrali nel pensiero di Schiller e nella cultura illuminista del tempo. Il contrasto tra illusione e realtà è uno degli elementi cardine del romanzo. Il protagonista si trova costantemente in bilico tra ciò che percepisce e ciò che realmente accade, costretto a interrogarsi sulla validità dei suoi sensi e sulla possibilità che il mondo che lo circonda sia costruito su una finzione orchestrata da forze occulte. Questo tema riflette il dibattito illuminista sulla ragione e sulla superstizione, in un’epoca in cui la fede nel progresso e nella razionalità si scontrava con le ombre della tradizione e dell’ignoto.
Un’altra tematica fondamentale è quella della manipolazione e del potere. Nel corso della narrazione, il principe diventa vittima di un sofisticato meccanismo di controllo, orchestrato da una società segreta che sembra volerlo condurre verso un destino prestabilito. L’opera mette in luce i pericoli dell’inganno e della coercizione psicologica, ponendo interrogativi sul libero arbitrio e sulla capacità dell’individuo di resistere alle forze che cercano di influenzarlo. Questo aspetto anticipa il tema della cospirazione e della paranoia, che diventerà centrale in molta narrativa moderna.
Il conflitto tra libero arbitrio e destino è un altro nodo tematico importante. Il principe è convinto di essere padrone delle proprie scelte, ma si accorge progressivamente di essere intrappolato in una rete di eventi che sembrano guidarlo in una direzione precisa. L’angoscia derivante da questa consapevolezza richiama il dibattito filosofico sull’autodeterminazione e sul ruolo delle forze esterne nel plasmare la volontà umana.
L’elemento gotico e il soprannaturale giocano un ruolo chiave nella costruzione dell’atmosfera del romanzo. Schiller utilizza ambientazioni oscure, apparizioni enigmatiche e figure inquietanti per creare un senso di incertezza e di minaccia costante. La presenza dell’armeno, personaggio dal carattere quasi metafisico, introduce una dimensione esoterica che si lega alla tradizione del romanzo gotico nascente. Tuttavia, il racconto non si abbandona completamente al fantastico: Schiller lascia sempre aperta la possibilità di una spiegazione razionale, mantenendo l’equilibrio tra il soprannaturale e il dubbio illuminista.
Pur essendo un’opera incompiuta, Il visionario costituisce un tassello fondamentale nella produzione di Schiller e nella letteratura del XVIII secolo. Il romanzo si distingue per la sua capacità di intrecciare suspense e riflessione filosofica, anticipando molti dei temi che diventeranno centrali nel pensiero dell’autore e nella narrativa moderna. La tensione tra ragione e mistero, tra libertà e manipolazione, rende Il visionario un’opera di straordinaria attualità, capace di affascinare i lettori non solo per il suo intrigo narrativo, ma anche per la profondità delle questioni che solleva.

 

 

 

 

 

Pietro Bembo e l’evoluzione della lingua italiana

 

 

Presumibilmente, nemmeno Francesco Petrarca amò se stesso così tanto, quanto quest’uomo. Se il poeta aretino avesse potuto conoscerlo, certamente avrebbe trovato, come desiderò per tutta la vita, un giustissimo estimatore del suo talento e della sua opera. Pietro Bembo nacque a Venezia il 20 maggio del 1470, figlio di Bernardo, patrizio e senatore 31071della Serenissima, ed Elena Morosini. Trascorse l’infanzia seguendo un po’ dovunque il padre, soggiornando a Firenze, dove si innamorò del fiorentino e di quel modo strano di mangiarsi o non pronunciare alcune consonanti (fenomeno fonetico detto “gorgia”) e a Messina, in cui ebbe modo di imparare il greco da un maestro d’eccezione, Costantino Lascaris. Il genitore avrebbe voluto avviarlo alla carriera politica, ma Pietro preferì quella ecclesiastica, che lo portò fino alla berretta cardinalizia. Sebbene ad un uomo di chiesa dovrebbe essere precluso finanche il concetto di amore, se non rivolto a Dio, il futuro porporato non si fece mancare nulla. Pare, addirittura, che durante un lungo soggiorno a Ferrara, avesse avuto una storia al pepe con Lucrezia Borgia, sorella di Cesare e figlia di papa Alessandro VI, all’epoca sposa di Alfonso d’Este. Certo, invece, fu l’amore per Ambrogina Faustina Della Torre, detta la Morosina, dalla quale ebbe tre figli e con la quale visse sfacciatamente, in barba alla condizione di religioso. Si è sempre detto che il buongiorno si veda dal mattino e, infatti, la prima opera letteraria del Bembo fu proprio un dialogo d’amore, intitolato Gli Asolani, tre libri in prosa con qualche canzone. L’operetta è ambientata ad Asolo, cittadina in provincia di Treviso dove, nella villa della regina di Cipro, tre giovani veneziani ragionano d’amore in occasione delle nozze di una damigella della padrona di casa. Apre il tema Perottino: “L’amore è una parola. L’amore non esiste. E’ soltanto un sogno, causa di tutti i malesseri e di tutti i dolori”. Seguita il tema Gismondo: “Non è vero! L’amore è la cosa più bella che possa dare la felicità, la gioia e il piacere”. Conclude Enrico Maria Papes – no, scusate, quelli erano I Giganti (dalla canzone “Tema”, I Giganti, 1966) – conclude Lavinello: “Cari amici, voi non avete capito proprio un bel niente! L’amore è il desiderio della vera bellezza e più si è bello, tanto più si è degni d’amore”. Io aggiungerei: “Allora chi è brutto va a fare l’eremita!” Bembo certamente non lo fece, nonostante, a vedere un suo ritratto, non è che fosse proprio un adone, anzi.

Le Prose della volgar lingua e le Rime

Prose di Messer Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al Cardinale de’ Medici che poi è stato creato a Sommo Pontefice et detto Papa Clemente Settimo divise in tre libri. Questo è prose-di-bemboil titolo completo del dialogo, che l’Autore immagina abbia avuto luogo a Venezia, nel salotto di suo fratello Carlo, tra lo stesso Carlo, Ercole Strozzi, Federico Fregoso e Giuliano de’ Medici. Gli schieramenti: a favore del volgare, Carlo Bembo, Giuliano de’ Medici e Federico Fregoso; per il latino, Ercole Strozzi. L’oggetto principale della dotta discussione verte sulle caratteristiche della lingua da usarsi quando si vuole scrivere in volgare. Bembo, il quale parla per bocca di suo fratello, sostiene che la lingua perfetta sia il fiorentino dei grandi scrittori del Trecento. Quindi, è da impiegarsi quello di Petrarca, quando si vogliono comporre poesie, e quello di Boccaccio, quando si vuole scrivere in prosa. Ma non si ferma qui, perché tenta anche di stabilirne una grammatica, con esempi e dimostrazioni. Le Prose della volgar lingua sono state un’opera fondamentale per lo sviluppo della lingua italiana. Conclusero, in parte, quel dibattito, che andava avanti da un secolo e mezzo, sul volgare, sul latino e sui loro usi. Furono parte della base teorica di quel movimento culturale cinquecentesco, detto Classicismo, che influenzò le esperienze letterarie di quel secolo.

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L’allegro cardinale, inoltre, durante tutta la sua vita, compose sonetti e canzoni, ispirandosi interamente allo stile del Petrarca (immagine in alto). Esse rappresentano il compendio “pratico” alle Prose della volgar lingua. “Vi ho spiegato come si fa. A adesso ve ne do l’esempio”, è come se avesse voluto dire.

Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura,
Ch’all’aura su la neve ondeggi e vole,
Occhi soavi e più chiari che ‘l sole,
Da far giorno seren la notte oscura.

(Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura, vv. 1 – 4)

Io ardo, dissi, e la risposta invano,
Come ‘l gioco chiedea, lasso, cercai;
Onde tutto quel giorno e l’altro andai
Qual uom, ch’è fatto per gran doglia insano.

(Io ardo, dissi, e la risposta invano, vv. 1 – 4)

Amor, mia voglia e l’vostro altero sguardo,
Ch’ancor non volse a me vista serena,
mi danno, lasso, ognor sì grave pena,
ch’io temo no l’soccorso giunga tardo.

(Amor, mia voglia e l’vostro altero sguardo, vv. 1 – 4)

Se delle mie ricchezze care e tante,
E sì guardate, ond’io buon tempo vissi
Di mia sorte contento, e meco dissi:
– Nessun vive di me più lieto amante;

(Se delle mie ricchezze care e tante, vv. 1 – 4)

 

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